Signor presidente,
È quasi certo, che lei non leggerà questa lettera. Ma se nel gran numero di copie che il 'Messaggero di sant'Antonio' diffonde una avesse per sorte di giungere fino a lei, saremo molto interessati a una sua, per la verità altrettanto improbabile, risposta.
Vorrei porle il problema dell'orrendo incremento dato dalla giustizia del suo paese, per tanti aspetti esemplare, alla pratica della condanna a morte. Vede, nella nostra piccola realtà italiana si sta addirittura studiando la possibilità di eliminare l'ergastolo, in quanto strumento incongruo, e persino controproducente, rispetto al significato della pena, che è quello di restituire alla società una persona moralmente rinnovatasi e civilmente recuperata. Ecco perché spaventa questo insistere e persino crescere, nella più legalitaria delle comunità , della 'vendetta sociale'. Una diffusa paura di venire violentata dalle sue minoranze nei suoi princìpi la induce a utilizzare, come unica difesa, le legge del taglione. Non a caso, tra i condannati in lista di attesa, il 40 per cento sono neri; mentre la loro percentuale etnica non supera, negli Usa, il 12 per cento.
Non meno di trenta persone, lei dirà , vengono mandate a morte ogni giorno nei vari angoli della terra.
È vero: muoiono di corda, di fucile, di ascia, di spada, di ghigliottina, di elettricità , di cianuro, di garrota. E persino di pietre, come ai tempi di Cristo. I più, lo sa bene, sono giustiziati in Africa. Il dare la morte a chi ha violato il patto convenuto in nome della società è, dunque, una pratica che ha cultori dove vigono statuti tribali, o fondamentalisti, o ideologici, e al tempo stesso in civiltà giuridiche che dichiarano, nella loro Carta costituzionale, di volere tutelare la dignità dell'uomo: persino uccidendolo, quando si scopra che le sue colpe superano il limite di sopportabilità sociale e di tolleranza, diciamo, umana. Ma le tesi giustificatorie non includono il dato più vero: quello della paura e del pregiudizio, cioè il livello di guardia oltre il quale si perde il senso della responsabilità singola e collettiva.
Cesare Beccaria, un grande umanista italiano della fine del Settecento, nel suo famoso 'Dei delitti e delle pene', scrive: 'La pena di morte diventa uno spettacolo per i più, e un oggetto di compassione, mista a sdegno, per alcuni'. Sconvolti i confini del criterio civile e della considerazione etica, della norma morale e del sentimento religioso, si assiste a una ridda sconcertante di interpretazioni della vita, quasi che una definitiva designazione del suo valore non stesse nel giudicarla, intanto, inviolabile per principio; e poi, quando venisse macchiata, non fosse redimibile dalla conversione, dalla società riabilitante, dal giudizio di Dio. E qui, presidente, devo riconoscere che anche da noi, in Europa, si ascoltano voci discordi.
Il romanziere Romain Gary, vincitore di un premio Goncourt, ha visto nella decadenza della pena di morte non il segno di una ritrovata nozione dell'uomo, ma di uno 'svilimento della vita'. Sono idee tornate in voga, presidente, in seguito all'allarmante rigurgito di violenza che colpisce le società cosiddette avanzate; e ciò parrebbe offrire - ma resterebbe solo un alibi - qualche giustificazione alle norme vigenti nel suo grande paese. È vero, lo ha detto proprio Gary: 'Solo la pena di morte può restituirci quel senso dell'ordine che abbiamo smarrito'.
C'è addirittura chi è andato più in là : rileggo padre Bruckenberger, su 'France-Soir', il quale scrive che 'privare un condannato a morte della sua condanna equivale quasi sempre a togliergli il solo mezzo che gli resta per riabilitarsi, anche e soprattutto di fronte a se stesso. La pena di morte è, infatti, l'appello supremo alla responsabilità del condannato e, se questi ne capisce il senso, costituisce il solo strumento per riconquistare integralmente la dignità umana'.
Forse per questo il signore André Obrecht, boia della Santé e 'giustiziere per vocazione', come amava definirsi quando era ancora in servizio, esprimeva l'augurio che i 'soggetti' andassero a lui 'con l animo dei suppliziati'. L'esigente signor Obrecht aspirava insomma ad ammazzare, per dir così, un suicida: cioè un uomo persuaso che solo facendosi tagliare la testa avrebbe recuperato tutto se stesso. Come vede, presidente Clinton, abbiamo le nostre magagne. Ma torniamo in America, il paese al quale, per tanti versi, guardiamo ammirati. Anche il governatore della Virginia, Douglas Wilder, in materia di 'riabilitazione' ha una parola sola. Roger Coleman, infatti, è stato ucciso. La parola, si sa, va mantenuta. Sono 27 le persone 'giustiziate', durante il 1996, negli Stati Uniti. Erano state 19 nel 1995. Attendono la stessa sorte, chissà se con qualche eccezione, altri 2583 condannati. Coleman, lo ricorderete, si era proclamato innocente fino all'ultimo momento. Una grande veglia notturna è stata ciò che l'America degna delle sue libertà ha potuto dedicargli, insieme con la copertina di 'Time', i programmi innocentisti della Cnn, le 5 mila lettere inviate, soprattutto da studenti, alla Corte Suprema. In un sistema giuridico dove i precedenti valgono più del codice, ma allo stesso tempo i formalismi sono più vincolanti delle istanze stesse, Coleman dovette morire non tanto per avere stuprato e ucciso la cognata, un atroce delitto rimasto tuttavia senza prove certe, quanto per essere stato protagonista di due stupri, anch'essi presunti, in età ancora più giovane; e l'ultimo ricorso, presentato con un giorno di ritardo, non ha avuto esito per difetto, appunto, di forma.
Eppure, è Amnesty International a documentarlo, i 23 casi di innocenza conclamata, post mortem in nemmeno mezzo secolo avrebbero dovuto consigliare prima un dibattimento più laborioso, e poi una maggiore riflessione. Il processo, invece, è rimasto in aula poco più di quattro ore, e appena tre in camera di consiglio. Sette ore per decidere il destino di un ragazzo che, in dieci anni di penitenziario, aveva offerto una quantità di buone ragioni perché prevalesse, se non la certezza dell'innocenza, almeno il dubbio sulla colpevolezza. La sua uccisone è durata, se così posso dire, secoli: spesi non perché ci si potesse ricredere, o confermare nel giudizio, ma in ossequio alle liturgie legalistiche che perpetuano l'espiazione fino al momento di farla precipitare nell'esorcismo pacificante della morte.
A questa stessa attesa della morte, dal 1950 a oggi, sono state costrette 350 persone, di cui si è potuto correggere in tempo la condanna, appunto, solo in 23 casi. E quello dell'ultima esecuzione, eseguita un mese fa dopo diciassette anni dal compimento del delitto, quando cioè il reo era diventato una persona nuova, totalmente redenta, non sarà l'ultimo.
Presidente Clinton, costretto dalle strettoie giuridiche, dai vincoli politici, dalle chiavarde di una religiosità puritana, lei non ha potuto ascoltare neppure la voce accorata del papa. Non penso che le sia stato facile, al contrario; e credo, sinceramente, a una sua sofferenza. Ma proprio per questo mi permetto di ricordarle che distillare l'esigenza punitiva fino a uccidere, ignorando che 'Dio non vuole la morte del peccatore - come afferma la Scrittura - ma che si converta e che viva', è esecrabile. Non si aggiunge niente di nuovo dicendo che le società avvezze a curare i loro mali eliminandone i sintomi, anziché distruggerne le cause, compiono anch'esse un delitto.
Perdoni, presidente, il tono un po' perentorio; ma l'argomento è di quelli che, sebbene richiedano pacatezza, si trascinano qualche dose di passione. Me ne scuso.