Sinagoga e moschea: prove di dialogo

Il rabbino capo di Roma visita la moschea:l’evento ha fatto scalpore. A distanza di tempo, cogliamo il senso di quanto accaduto nella testimonianza dei protagonisti: Riccardo Di Segni e Abdellah Redouane.
23 Maggio 2006 | di


I mezzi di informazione l’hanno definita storica, presentandola con l’enfasi che si riserva agli eventi di rilievo internazionale. Certamente la visita compiuta dal rabbino capo della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, alla moschea lo scorso 13 marzo, è stata un avvenimento significativo in un momento delicato nei rapporti tra Occidente e islam, dopo il caso delle vignette satiriche su Maometto e le nuove minacce dell’Iran a Israele, con la negazione della Shoah. L’evento ha fatto scalpore. A distanza di qualche tempo, cogliamo il senso di quanto accaduto nella testimonianza dei protagonisti: il rabbino capo Riccardo Di Segni e Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia.

Msa. Professor Di Segni, che effetto le ha fatto essere accolto da Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia, con le parole Salam elaikum, e poter rispondere, in una moschea, con il saluto Shalom?

Di Segni. Ho vissuto una sensazione di emozione e di gioia, perché quel saluto ha dimostrato che, malgrado tutte le difficoltà di questo particolare momento storico, è possibile aprirsi e dialogare con almeno una parte del mondo islamico.

Qual è stata l’eco della visita nella comunità ebraica italiana e internazionale?

Il riscontro è andato ben oltre i confini italiani, e al di là di ogni nostra aspettativa. Ne hanno parlato in varie parti del mondo, da Israele agli Stati Uniti. La maggioranza dei commenti che ho sentito sono stati favorevoli, alcuni addirittura entusiastici. Una minoranza ha commentato, invece, in maniera molto critica, dicendo che si trattava di una concessione gratuita, di un’illusione. Sono stato accusato di ingenuità perché non bisogna assolutamente fidarsi di un interlocutore musulmano, ammesso che ci sia. Non mi ritengo tanto ingenuo. So benissimo quali sono le difficoltà, so che con molte persone non è possibile parlare, ma con qualcuno si possono stabilire linee di contatto.

Fino a qualche anno fa un evento simile era impensabile. Come vi si è giunti?

La visita è nata dalla volontà mia personale e dell’intera Comunità ebraica romana, e ci si pensava da molto tempo. C’erano ovvie difficoltà, dovute a un clima politico che esaspera i rapporti. Ma noi non accettavamo tali difficoltà, che presupponevano identificazioni che non sono nostre, al di là delle simpatie e della nostra storia. Abbiamo lavorato ed esercitato qualche pressione, tuttavia il clima è rimasto abbastanza freddo. A sbloccare la situazione è stata la vicenda di quelle vignette irriverenti pubblicate da un quotidiano danese, per le quali abbiamo espresso a più riprese solidarietà alla Comunità islamica.

Quali prospettive si sono aperte con la visita alla moschea? A quando la visita di un imam alla sinagoga?

Un’iniziativa di questo tipo è, essenzialmente, la simbolica messa a punto di una volontà. In questo tipo di rapporti, soprattutto nella civiltà mediatica, contano anche gesti che segnino una tappa raggiunta, l’inizio di un cammino migliore. Quindi la nostra intenzione, come Comunità ebraica, era di segnare il fatto che noi vogliamo continuare. In realtà, con molte delle persone incontrate avevamo rapporti già da tempo. Si trattava di superare una sorta di tabù. Quanto alla visita di rappresentanti della moschea, noi l’attendiamo, anche se non c’è ancora una data.

Lei ha auspicato che la lotta all’antisemitismo e all’islamofobia procedano insieme. Tuttavia, nella maggior parte dei Paesi islamici c’è avversione, se non vero e proprio odio, verso gli ebrei e Israele.

Tale aspetto non tocca la questione della reciprocità, ovvero che si fa la lotta all’uno solo se c’è la lotta all’altro. Ho semplicemente indicato che ci sono rischi comuni, ma anche valori comuni. Il rischio è che si avvii il processo di generalizzazione, uno dei meccanismi attraverso i quali si genera l’odio, e cioè se una persona si comporta male, l’intera comunità fa altrettanto. Sono meccanismi atroci che semplificano e diventano strumento di mortificazione e di odio. In questo senso lavorare contro i meccanismi del pregiudizio significa lavorare sia contro l’antisemitismo sia contro l’islamofobia.

Lei ha insistito sull’importanza di preservare la coscienza perché la differenza di religione non si traduca mai in ostilità. A quali iniziative pensava per evitare che il paventato scontro di civiltà possa trasformarsi addirittura in uno scontro tra religioni?

Esiste da parte di alcuni estremisti il desiderio di vestire ideologicamente le loro tesi attraverso la religione. Questo è un tentativo aberrante che va sventato. Se ci sono, nei mondi religiosi, dei folli estremisti che dicono di agire in nome della religione, abbiamo il dovere di dire che la religione è un’altra cosa.



Islam ed ebraismo un difficile dialogo

Abbiamo ascoltato anche Abdellah Redouane, segretario generale del Centro islamico culturale d’Italia.

Msa. Islam ed ebraismo: due religioni, un’origine comune, una storia non di rado segnata da odio «tra figli di fratelli». Dottor Abdellah Redouane, perché è così difficile dialogare?

Redouane. Non parlerei di odio, che è estraneo a entrambe le religioni, e soprattutto estraneo a chi è mosso dalla fede. Al massimo parlerei di incomprensioni che, appunto, ci sono in tutte le famiglie e che prima o poi trovano una composizione. Islam ed ebraismo sono religioni monoteistiche che condividono la fede nell’unico Iddio. Il loro comune credere in Dio fa di ebrei e musulmani una comunità di credenti. Il riconoscimento, da parte nostra, di figure quali Abramo, Mosé, Giacobbe, Isacco è pieno ed esplicito. Musulmani ed ebrei molto hanno costruito e hanno camminato insieme durante i secoli. II patrimonio culturale dell’umanità è pieno di esempi al riguardo. Gli ostacoli non sono da ricercarsi nella religione; talora, forse, nella sensibilità degli individui, attori primari di ogni dialogo.

Dopo la visita del rabbino alla moschea, nel mondo islamico internazionale sono stati più i commenti positivi o quelli negativi?

Senza ombra di dubbio i positivi. Prova ne è l’ampia diffusione che hanno avuto le immagini della visita nel mondo dell’islam, sia sui grandi circuiti satellitari arabi, sia sui canali nazionali, oltre che nel mondo della stampa. Come anche il fatto che, al momento, non ci risulta si sia levata alcuna voce di dissenso.

Lei ritiene sia possibile replicare in un Paese islamico una simile iniziativa?
Vi sono già ampie realtà, nel mondo dell’islam, dove una simile iniziativa non avrebbe suscitato tale enfasi, perché già rientra nella normalità quotidiana delle relazioni tra varie confessioni, all’interno di uno Stato nazionale. Indubbiamente la visita alla moschea di Roma può costituire un modello da seguire, per quanto, purtroppo, il tempo dei profeti sia ormai terminato. Noi siamo dei semplici uomini, il cui compito è adoperarsi costantemente, con senso di responsabilità e rispetto reciproco, per progredire in questo mondo, e tentare di gestire situazioni che, talora, si mostrano conflittuali. Il resto fa parte del progetto di Dio.

Non pensa che in alcuni stati islamici – come l’Iran – la commistione tra poteri politici e religiosi sia oggettivamente un limite nei rapporti con l’ebraismo e con lo Stato di Israele in particolare?

Credo sia importante non fare confusione tra religione e relazioni tra Stati sovrani. Da quello che ho potuto leggere, vedere e ascoltare, non mi risulta siano state poste in essere, nelle polemiche recenti, delle discriminazioni religiose, né che qualcuno si sia scagliato contro la religione ebraica. L’oggetto è legato alla questione mediorientale, alla congiuntura internazionale e alla geopolitica. Quindi le polemiche sono state eminentemente politiche e non hanno, al momento, in agenda le relazioni tra musulmani ed ebrei, quanto le ricerche nucleari iraniane, che Israele vede come una minaccia, e l’Iran come una vitale necessità. Ulteriore conferma che non si è trattato di una «questione ebraica» sta nel fatto che l’Iran ha, per Costituzione, una rappresentanza ebraica in parlamento.

La Comunità israelitica di Roma – così come quella cristiana – non si è opposta alla realizzazione della moschea di Roma, la più grande d’Europa. Quasi mai si rileva nei Paesi islamici la stessa apertura verso altre religioni.

Non credo che la situazione sia così drastica, né che vi sia un problema di reciprocità così diffuso. Ci sono situazioni simili, relative a Stati sovrani o situazioni interetniche di conflitto, che si celano dietro il manto della fede, ma costituiscono eccezioni. Credo che una nozione assoluta di reciprocità non possa esistere, se non nella teoria. Il dato interessante è che le complesse relazioni sul tema della reciprocità inspiegabilmente finiscono sempre per ridursi al tema degli spazi dedicati al culto. Tuttavia, se solo oltrepassiamo questa visione particolaristica, è possibile rilevare l’incoerenza di alcune posizioni: mentre da una parte noi accettiamo il profetismo biblico, le grandi figure dell’ebraismo, il ruolo di Maria e la figura di Gesù, che amiamo molto, in Occidente il profeta Muhammad non solo presso qualcuno non gode di alcun riconoscimento, ma talora neanche di rispetto.

Quanto è reale il paventato «scontro di civiltà» e quanto possono fare le religioni per evitarlo?

Grazie a Dio, non vedo un mondo in armi votato alla distruzione, e credo che paventare uno scontro di civiltà faccia più comodo a chi lo auspica che a chi cerca di evitarlo. Paradossalmente, io credo che il timore di uno scontro di civiltà abbia ravvicinato le sensibilità degli uomini, delle quali la religione è un aspetto, e ne abbia rafforzato il dialogo reciproco, nel tentativo di trovare un nuovo equilibrio mondiale, che dia serenità a tutti.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017