Sindone le nuove prove
Operazione normalissima nella sua eccezionalità per un fotografo; la sorpresa venne quando Secondo Pia estrasse dai bagni di sviluppo il negativo delle foto: sulla lastra intravide, e per l'emozione quasi gli cadde dalle mani, i lineamenti di un volto, incorniciato da lunghi capelli, barba fluente e composta, gli occhi chiusi e le palpebre pesanti. L'uomo della Sindone rivelava il suo volto. Il fatto sorprese il mondo e ci fu chi gridò al miracolo, chi disse che era un imbroglio e chi più semplicemente volle capirci di più.
Iniziarono così gli studi per svelare il segreto di quel telo. Scienziati delle più diverse branche, utilizzando gli strumenti sempre più sofisticati che la tecnologia metteva loro a disposizione, hanno indagato offrendo i loro responsi. Clamorosa la radiodatazione del 1988 che la faceva risalire al Medioevo ridendolo a un autentico falso. Successivi studi hanno dimostrato l'inconsitenza di quelle analisi. Per far il punto sulla situazione, abbiamo intervistato Maria Grazia Siliato, storico e archeologo, delegato per l'Italia del Cento internazionale di studi sulla Sindone (Cielt) di Parigi e autrice di molti libri sul tema, tra cui il recente Sindone (Edizioni Piemme) nel quale ripercorre con grande bravura le vicende storiche, archeologiche e scentifiche del sacro telo.
Msa. La Sindone compare in Occidente nel 1350. Prima di allora dov'era stata? Esistono tracce della sua presenza? Per reliquie meno importanti (o presunte tali) nel Medioevo ci si azzuffava: com'è possibile che una di tal fatta sia stata posta simbolicamente in soffitta?
Siliato. Il cosiddetto 'buco nero' della più antica storia sindonica non esiste più. Quei primi secoli sono stati riscoperti passo passo: nell'anno 67 d.C. i cristiani di Gerusalemme, incalzati dalle legioni romane di Tito, fuggono con i libri sacri e le reliquie - tra cui la Sindone - , attraverso la desertica valle del Mar Morto, e si rifugiano nella città semindipendente di Pella.
Quando, nel 130, il pericolo arriva fin lì con l'esercito di Adriano, emigrano fuori dei confini dell'Impero romano, e delle sue persecuzioni, verso la lontana città di Edessa, capitale del regno di Oshroène. Portano con sé la Sindone, che viene accolta con grandissimi onori. Duecento anni dopo, ai pellegrini viene ancora indicata la porta attraverso cui la Sindone era entrata in città . È stata identificata anche la ricchissima cappella costruita a Edessa per la Sindone nell'anno 545: era dietro l'abside della cattedrale, in modo stranamente simile alla cappella della Sindone di Torino.
Ma, nell'anno 638, Edessa è occupata dagli arabi del Califfato di Baghdad. Poiché l'Islam proibisce le immagini, la Sindone è venerata in segreto, ripiegata dentro una cornice. Gli arabi la chiamano 'Mandil', cioè telo, tovaglia, che i greci avrebbero tradotto in 'Mandylion', creando confusione sul significato della parola.
Nel 944, l'imperatore cristiano di Costantinopoli, Costantino VII Porfirogenito, riesce, a un prezzo altissimo come dicono gli storici arabi, a recuperare la Sindone e a portarla a Costantinopoli, dove la reliquia riceve accoglienze grandiose. Aperta la cornice, tutti vedono con emozione le grandi dimensioni del telo, vedono l'impronta e il sangue. La Sindone viene deposta sul trono imperiale. Viene istituita la festa della Sindone, il 16 agosto. La chiamano 'Acheiropoieta', cioè 'non dipinta da mano umana'.
Senza dubbio, la Sindone che oggi è a Torino è quella di Gerusalemme, di Edessa, di Costantinopoli: decine di documenti, iscrizioni, testimonianze venute alla luce in questi anni, anzi in questi mesi - oltre ai molti pollini di piante orientali trovati nelle fibre del tessuto sindonico - , lo confermano. Per esempio, sulla Sindone di Torino vi sono quattro piccole, ma nettissime, bruciature rotonde, a forma di 'L' maiuscola. Ebbene, mille anni or sono, a Costantinopoli, un miniaturista, su un codice, copiò la Sindone lì venerata e, con grande cura, riprodusse quelle quattro strane bruciature che noi vediamo oggi a Torino.
Nel 1205, un'armata di veneziani e francesi - che impropriamente chiamarono se stessi 'crociati' - saccheggiò Costantinopoli. I francesi invasero la chiesa imperiale della Vergine Blachernitissa, dov'era conservata la Sindone che essi, fingendosi amici, avevano potuto vedere. Uno dei capi, si chiamava Othon De la Roche, sottrasse la Sindone e l'inviò in Europa. Ma il papa Innocenzo III lanciò la scomunica e i capi della crociata comminarono la pena di morte contro i sacrileghi ladri di reliquie.
Per quasi centocinquant'anni, quindi fino al 1350 circa, la Sindone fu tenuta in grandissimo segreto, per qualche tempo anche nelle mani dei cavalieri Templari. Poi, i discendenti dei De la Roche e dei loro parenti De Charny, ormai sicuri di non correre rischi, esposero la Sindone nella chiesa del loro feudo di Lirey in Francia, attirando folle enormi. Per finire, l'ultima dei De Charny, Marguerite, la vendette a gran prezzo ai Savoia. Era il 1453. I Savoia la portarono a Chambéry e poi a Torino.
Il venerato telo non potrebbe essere, come sostiene qualcuno, un clamoroso 'falso', opera di un abile pittore medievale o di un ancor più raffinato pittore cinquecentesco che si è rifatto allo 'sfumato leonardesco'?
Dopo tutte le scoperte storiche recenti, è veramente ridicolo parlare, per la Sindone, di pitture medievali o, peggio, di uno 'sfumato leonardesco'. Quando, nel 1453, i Savoia comprarono la Sindone, Leonardo da Vinci aveva undici mesi...
La Sindone porta due gruppi diversi di segni. Il primo gruppo sono le macchie di ferite e di sangue. E la formidabile ricerca fisico-chimica fotografica compiuta negli anni Ottanta dallo Sturp (Shroud of Turin Research Project) - oltre centocinquantamila ore di lavoro a livello di ricerca universitaria - , ha provato che si tratta veramente di sangue, sangue umano, intero in tutte le sue componenti. Un sangue che uscì da un corpo vivente, perché è coagulato. Solo il sangue della ferita al torace - un colpo di lancia, una lama larga quattro centimetri e mezzo - , è sangue di cadavere, dove la parte corpuscolare rossa e quella bianca sierosa sono separate dalla morte. Ed esso ricorda in modo impressionante il 'sangue e acqua' di cui parla il Vangelo di Giovanni. Il secondo gruppo di segni è l'impronta del viso e del corpo posteriore e anteriore.
Le analisi più minuziose e spietate hanno provato che sulla Sindone non esiste la minima traccia di pittura o di disegno, di decalco, di 'sfumato', niente. Nessun colorante artificiale, di nessun tipo. Qualcuno si inventò, e scrisse, che forse era una 'strinatura' del telo fatta fraudolentemente applicandovi una statua di bronzo rovente. Non è vero nemmeno questo, perché le bruciature sono fluorescenti, l'impronta sindonica no.
Ormai, la documentazione scientifica intorno alla Sindone è tale che non è più decentemente lecito a nessuno parlare di 'falso pittorico medievale'. Come se qualcuno avesse insistito a dire che la Terra era piatta dopo che Colombo era ritornato dall'America.
Se non è opera di un pittore, come si è formata quell'impronta, rivelata, nel maggio del 1898, in modo inatteso dal negativo dell'avvocato-fotografo Secondo Pia? Un miracolo o un naturale fenomeno fisico? Insomma, quelle tracce sono di colore o di sangue umano?
L'impronta sindonica è dovuta alle modalità della sepoltura. Sulla pietra della tomba furono sparsi aromi secondo l'uso ebraico e il racconto dei Vangeli, poi vi fu distesa metà del telo e su di questo, come su un letto, fu deposto il cadavere, madido di sudore agonico e insanguinato, perché - è importantissimo - i morti di morte violenta e i giustiziati non dovevano ricevere le lavature rituali. Poi l'altra metà del telo fu allungata sopra di lui per coprirlo; poi il telo fu asperso con altri aromi che lo fecero lievemente aderire alla pelle. Il sebo, il sudore acido della pelle dopo la terribile agonia, provocarono così sulle più superficiali fibre del lino sindonico - come già avevano intuito Caselli e Judica Cordiglia e Romanese - un processo chimico. Un'ossidazione, una corrosione ingiallita delle fibre, simile all'impronta lasciata da una foglia racchiusa in un erbario - che John Heller vide benissimo al microscopio - , ha formato quella che ai nostri occhi appare come la mirabile impronta del viso e del corpo.
Qualcosa che nessun falsario avrebbe mai potuto progettare. Esperimenti hanno dimostrato che basta un contatto breve tra pelle e tessuto per 'innescare' il processo di ingiallimento del lino. Ma sulla cellulosa del lino, l'impronta si sviluppa lentamente, occorrono anni, come per l'impronta di una foglia sulla cellulosa della carta. E anche l'impronta della foglia è tridimensionale, come quella della Sindone.
È chiaro che l'impronta emergente fu scoperta con immensa emozione. Ecco perché a Edessa la Sindone fu accolta con tanta emozione, ecco perché fu chiamata 'Acheiropoieta', immagine non dipinta da mano umana.
A sostegno del 'falso' c'è la famosa radiodatazione del 1988, ottenuta dalle analisi effettuate in tre laboratori diversi, a Tucson, Oxford e Zurigo, su un piccolissimo frammento di Sindone. Ebbene, da quelle analisi, sofisticatissime, emerse che la Sindone di Torino è un telo medievale. Quali elementi hanno portato a un così clamoroso risultato? Come sono stati validamente confutati?
La radiodatazione del 1988 apparve subito a tutti gli studiosi come insostenibile. Era come se, compiendo trenta analisi cliniche, ventinove concordassero e una sola fosse contraria a tutte le altre. Era chiaro che si doveva dubitare di quest'ultima e non buttare via le altre ventinove.
Ma in quei giorni si levarono anche accuse non fondate: si parlò di falsificazioni delle analisi, di campioni sostituiti, di incompetenza di chi scelse i campioni da analizzare. Ma nessuna di queste accuse appare vera.
Il doloroso infortunio di quella radiodatazione fu influenzato da due fatti non sospettabili al momento. Uno era l'effetto, allora sconosciuto, dell'incendio che la Sindone aveva subito nel 1532. Si chiama 'scambio isotopico'; cioè, nel grande calore, il Radiocarbonio dei materiali d'imballaggio, legno e seta, più giovani di 1500 anni della Sindone, si era trasferito in parte all'antichissimo lino, con l'effetto apparente di 'ringiovanirlo'. L'altro era la presenza sui bordi della Sindone di molti restauri, eseguiti anche in secoli recenti. Restauri compiuti con la tecnica antichissima dei 'fili a perdere', cioè fili di lino inseriti filo per filo nella tessitura, anzi nel corpo stesso di fili esistenti e impossibili da estrarre anche con la più accurata pulitura. Infatti, il frammento asportato dalla Sindone pesava, per centimetro quadrato, enormemente di più del peso medio della Sindone.
Il professor André Marion dell' 'Institut d'Optique d Orsay' di Parigi ha delle scoperte interessanti favorevoli all'antichità della Sindone. Quali?
Da una raffinata e paziente analisi delle foto del volto sindonico con potenti e avanzatissime apparecchiature computerizzate, è apparso che ai lati e sotto al viso, una mano 'romana' - forse la stessa che aveva scritto il 'Titulus' della condanna inchiodato sopra la croce - scrisse il nome di quel morto che Pilato aveva a malincuore concesso di seppellire onoratamente, per certificare l'identità di quel cadavere in qualsiasi evenienza futura. Tra le parole, scolorite, dilavate dai secoli, che emergono, vi è, infatti, il nome: 'Jeshu'...
Accettato che quel telo abbia la quantità di anni che la tradizione e la scienza gli attribuiscono, chi ci assicura che l'impronta sia proprio di Gesù crocifisso e non di qualsiasi altro disgraziato sottoposto a crudeli torture?
La Sindone di Torino è l'impronta spontanea e naturale di un cadavere e il decalco sanguinoso di tutte le sue ferite. Nessuna mano umana è intervenuta per formare, influenzare o correggere quanto su di essa si vede.
E se prendiamo in mano i Vangeli - principalmente le pagine strazianti di quello scritto da Giovanni - e seguiamo passo passo tutto ciò che la medicina legale, e la microfotografia, e le foto a luce di Wood hanno scoperto sulla Sindone - dalla schiena devastata con il 'flagrum' romano, alla fronte coronata con un serto spinoso, al terriccio impastato nel sangue del tallone, del ginocchio, del naso, al buco quadrato e netto dell'inchiodatura che emerge dal sangue del polso e del piede, all'inutile colpo di lancia - vediamo una corrispondenza agghiacciante, e insieme mirabile. Corrispondenze tali che, in un processo, costituirebbero una prova travolgente.
Tutto questo la cristianità d'Oriente l'aveva non 'scoperto' ma 'saputo' fin dal primo giorno; e per questo motivo aveva conservato la Sindone con tanto devoto amore. Purtroppo gli amari contrasti ideologici e gli scontri politico-militari che separarono l'Occidente e l'Oriente cristiani durante tutto il Medioevo, hanno impedito che questa sicura conoscenza dell'oggetto Sindone si trasmettesse fino a noi. E così noi, ignorando molto del nostro passato, ci domandiamo: 'Ma sarà proprio la Sindone del Golgotha? Sarà proprio lui?'.
Aggiungo un piccolo dettaglio. Giorni addietro, parlando a un convegno di metropoliti e religiosi di varie chiese orientali, tra cui quella serba, montenegrina, bulgara, ho udito rispondere: 'Nessuno, fra i cristiani d'Oriente, ha mai dimenticato in due millenni che la Sindone, venerata a Gerusalemme, a Edessa, a Costantinopoli, a Lirey, a Torino era quella che avvolse e coprì il corpo di Cristo'.
In questo senso la Sindone di Torino, oltre le antiche divisioni, diviene - all'alba del terzo millennio - un mirabile punto d'incontro in cui riecheggiano preghiere antiche e pensieri nuovi. A Costantinopoli, intorno all'anno mille, il patriarca e innografo Germano compose il 'Canone' per la 'Festa della Santa Sindone'. Dice: 'O Salvatore, nel momento della tua passione la bellezza del tuo aspetto era scomparsa. Ma in verità anche allora tu illuminavi l'universo; attraverso gli strazi, s'intravedeva la tua figura. E tu ci hai regalato, come un tesoro, la sua forma, impressa sul telo...'.