Sistema Italia, un modello da rivedere

La ricaduta della crisi internazionale sugli italiani nel mondo e sulle risorse disponibili per cultura, formazione e relazioni internazionali. Mercato del lavoro e ruolo di Stato e Regioni.
14 Gennaio 2009 | di

Roma
Ho incontrato l’onorevole Franco Narducci, vicepresidente della Commissione Esteri e presidente del Comitato parlamentare sugli italiani all’estero e dell’Unaie – Unione nazionale associazioni immigrati ed emigrati – che mi ha rilasciato questa intervista.
Segafreddo. Onorevole, in questo 2009, dopo i tagli sul versante delle risorse economiche, quali possono essere le prospettive per il mantenimento delle attività e dei servizi a beneficio delle comunità italiane all’estero?
Narducci.
Devo premettere che la diminuzione delle risorse è di una consistenza tale per cui nemmeno la fantasia ci può aiutare. Prendo come esempio i corsi di lingua e cultura italiana. Le risorse affidate agli enti gestori sono state praticamente dimezzate, e anche se c’è stata un’iniezione di 2 milioni di euro, si arriva a 16 milioni e mezzo contro, più o meno, i 30 a regime sul 2008. Credo che si procederà alla chiusura delle attività non strettamente indirizzate ai ragazzi in età scolare, cioè i corsi di lingua e cultura italiana per adulti d’origine italiana. Ma oltre alle chiusure di corsi, ci saranno gli accorpamenti di quelli gestiti da insegnanti di ruolo e da insegnanti dal Ministero degli Affari esteri, con classi più numerose. Teniamo conto che parliamo di due ore di italiano alla settimana o, quando va bene, di tre ore, spesso con più classi, vale a dire ragazzi di quarta-quinta elementare, prima media. Prevedo delle difficoltà enormi per rendere efficace l’attività didattica all’interno dei corsi di lingua e cultura italiana.
I fenomeni della globalizzazione, della mobilità e della comunicazione on-line, come possono aiutarci a guardare in modo nuovo alle migrazioni ancora in atto, e la presenza operativa delle comunità italiane nel mondo?
In effetti questo è un po’ il nuovo leit-motiv sul nuovo flusso migratorio dall’Italia ai Paesi dell’Europa e anche oltreoceano di molti giovani e non solo, nella maggior parte dei casi laureati e con un background di grande qualità. La Conferenza dei giovani italiani nel mondo è stata un primo passo significativo per fare emergere questa realtà, per individuare queste persone e sentirne la voce. Ma la Conferenza non può essere rappresentativa di un universo che è molto più vasto e complesso. Il problema è se vogliamo o no continuare a essere una comunità nel mondo. Come questi nuovi flussi migratori creano contatti, riescono a diventare essi stessi rete, riescono a portare avanti il lavoro prezioso fatto dall’emigrazione meno «acculturata»: quindi il Sistema Italia nel mondo. Io credo poco a forme che spesso si sentono e trovano sbocco anche in qualche proposta di legge, vale a dire l’imprenditoria che torna in Italia per investire in Italia, quando abbiamo a che fare con il fenomeno della de-localizzazione per la questione dei costi. Anche la legge per l’imprenditoria giovanile non ha funzionato né ha dato dei risultati strabilianti. Credo, invece, che bisogna fare molto di più «rete-sistema» in questo mondo globale. C’è bisogno assoluto di una percezione da parte dell’Italia. Nei vari Blog spesso c’è un astio contro gli italiani nel mondo, visti come degli usurpatori, e legati a un sistema assistenzialista mentre, come sappiamo, costituiscono una grandissima risorsa economica per l’Italia.
La domanda della doppia cittadinanza è una delle istanze emergenti nei Paesi dell’America Latina ma anche di tanti italiani e di loro discendenti residenti in Europa.
In Europa la fotografia si presenta a colori mentre in altri Paesi si presenta, soprattutto oltreoceano e in Sud America, a tinte grigie o nero-grigie sbiadite. Uso questa metafora per dire che in Europa e in altri Stati, la doppia cittadinanza è un dato di fatto e non trova più ostacoli. Basti pensare alla Germania, alla Spagna, alla Svizzera, all’Inghilterra, alla Francia: la doppia cittadinanza c’è senza rinunciare a quella italiana. In Inghilterra basta nascere, c’è lo ius soli. Diverso è il discorso per i discendenti e per i nostri connazionali in Sud America. Intanto lì c’è, come spesso accade, una mancata applicazione delle norme vigenti. Quando io sento parlare di riacquisto della cittadinanza, cerco di precisare perché è errato questo termine: si tratta del riconoscimento della cittadinanza in base alla legge – che ha quasi un secolo –, e del riconoscimento della cittadinanza dei discendenti degli emigrati italiani in Sud America, che va rivista anche perché io credo che la stessa rete consolare abbia sempre ostacolato un po’ questo diritto temendo che l’Italia si ritrovi con un paio di milioni di cittadini in più. C’è stato, infatti, un accumulo enorme di richieste che richiedono anni per essere risolte e credo che bisognerà operare come si stava facendo con il Governo precedente – e mi auguro che il Governo faccia la stessa cosa – modificando il dispositivo di legge. Anziché estendere il beneficio fino alla quarta generazione per coloro che provengono dall’Italia e fino ai bisnonni, restringerlo fino ai nonni, a patto che non abbiano mai rinunciato alla cittadinanza italiana o che non abbiano mai acquistato la cittadinanza del Paese in cui vivono. Parallelamente si dovrà procedere a un’accelerazione dell’iter burocratico perché questo ci squalifica.
La Svizzera attrae ancora oggi tanti italiani. Come interpreta la richiesta di manodopera, per lo più qualificata, che si riscontra da parte della Svizzera ma anche, seppure in numero minore, da parte di Germania, Francia o Austria?
È vero. Credo che la spiegazione sia abbastanza evidente perché questi nuovi flussi, soprattutto di manodopera super-qualificata in particolare in Svizzera e in Germania, dipendono dalle trasformazioni e dai cambiamenti che questi Paesi hanno vissuto negli ultimi vent’anni. Prendiamo, per esempio, la Germania dove l’industria pesante oramai non esiste quasi più, o la Svizzera dove l’industria pesante è stata de-localizzata in Ungheria, in Polonia, nella Repubblica Ceca e in altri Paesi dell’Est come la Lituania. Mentre cresce il cosiddetto fattore economico, detto «capitale umano». E qui funziona da calamita per i nostri connazionali qualificati che quindi accedono al mercato del lavoro svizzero; un accesso impossibile fino al 2002 quando tra la Svizzera e l’Unione Europea sono entrati in vigore alcuni fondamentali trattati tra cui quello sulla libera circolazione delle persone. Per cui è il mercato che oggi regola il flusso. La Svizzera ha fatto del capitale umano, cioè dell’economia immateriale, un business di primo piano. Basti considerare che in Svizzera c’è un’industria farmaceutica di primissimo piano, probabilmente la seconda o la terza al mondo. Analogamente avviene nei campi finanziario, bancario, della ricerca scientifica a vari livelli. È evidente che c’è un nuovo flusso che dipende anche dalle cattive opportunità di lavoro per tanti giovani nel nostro Paese. Io credo che tutti noi, anziché litigare e seguire i gossip settimanali, dovremmo preoccuparci di più del futuro del nostro Paese, dei suoi problemi nodali e strutturali. Non si può vivere in una grande città italiana con uno stipendio di 1.100 o 1.200 euro al mese. Un nostro giovane alle prime armi che arriva in Germania presso un istituto di ricerca, o presso una grande industria o un grande gruppo finanziario, guadagna quattro volte di più. Con quali argomenti si può richiamare queste persone in Italia? Il mercato fa incrociare domanda e offerta. Quindi o ci impegniamo tutti per il futuro del nostro Paese, rilanciando la redistribuzione, i salari e la crescita dell’economia oppure dovremo andare incontro a un periodo di povertà che aumenterà di nuovo il flusso migratorio dall’Italia verso l’estero.
Qual è lo stato di salute dell’associazionismo italiano, e come può porsi di fronte agli attuali cambiamenti sociali e culturali che stanno coinvolgendo le comunità italiane nel mondo?
Questo è un problema scottante perché è evidente che l’associazionismo, quello di una volta, paga il prezzo dell’invecchiamento. È evidente che i quadri dirigenti che nel volontariato hanno dato vita a questo fenomeno associativo, portentoso e incredibile in ogni parte del mondo, sono in via di disarmo, nel senso che ci sono naturalmente molte persone che scompaiono, nomi di prestigio, di primo piano, che erano appunto il riferimento delle comunità. C’è l’invecchiamento delle organizzazioni. Da questo punto di vista, ho trovato molto significativo, per esempio in Italia, che tra le 100 eccellenze italiane siano state indicate anche le Acli. Riconoscendo alle Acli, prima di tutto, di mantenere vivo e attivo lo spirito con cui sono nate, e quindi di essere molto vicino alla società civile. È da tempo che si parla della crisi dell’associazionismo, e il fenomeno non accenna a fermarsi. Da una parte bisogna che l’associazionismo si trasformi sempre più in una sorta di «centro di servizi» perché oggi la società, le persone e le comunità chiedono servizi a tutti i livelli. Anche quelli del tempo libero, dello stare insieme e soprattutto servizi culturali. Poi bisogna lasciare spazio e fare di più per dare in eredità alle nuove generazioni questo patrimonio senza voler condizionare tutto. E da questo punto di vista, mi auguro che all’interno della prima Conferenza dei giovani italiani nel mondo ci sia stato un dibattito in tal senso. Purtroppo la Conferenza ha avuto molti aspetti celebrativi e ha escluso, secondo me, il coinvolgimento dell’associazionismo, mentre era un’opportunità per mettere sul tavolo i problemi e per dire ai giovani: «se volete un “Sistema Italia nel mondo”, non si può prescindere da forme di aggregazione e di partecipazione delle comunità; e quindi regolatevi di conseguenza». Poi, evidentemente, ci sono le nuove forme, come gli Italians di Beppe Severgnini che, però, si incontrano magari per una pizza a New York quando lui sta da quelle parti. Io non credo che con questo sistema si possa lasciare al futuro, e in eredità, il patrimonio che è stato creato attraverso un secolo di impegno.
Lei ha detto che i giovani italiani all’estero hanno «voglia d’Italia». Cosa intende con questo?
Io credo che noi italiani, come gli spagnoli o i francesi, prima di tutto portiamo nel nostro Dna quello che sono le nostre radici, cioè la nostra discendenza o il nostro appartenere a una comunità che si chiama Italia. Le faccio un esempio molto personale: mio figlio ha fatto la maturità in un liceo di Zurigo, e ha voluto studiare in Italia. Non avrei mai pensato che avrebbe studiato in una università italiana, superando anche parecchie difficoltà legate alla lingua. Evidentemente c’è un richiamo che tutti noi ci portiamo dentro nel nostro codice genetico. C’è una domanda d’italianità perché l’Italia nonostante tutti i problemi è un Paese incredibile e, soprattutto, perché all’estero la sua immagine – a parte gli aspetti negativi – è, forse, un po’ più romantica, più «in», anche grazie ai grandi successi in campo sportivo, nella moda, nel design, in campo industriale su alcuni prodotti, e nei media. E, forse, sono meno presenti all’estero i fenomeni negativi che invece condizionano un po’ la nostra appartenenza al Paese, e ci impediscono di essere un Paese, di avere una cultura civica di «Paese», come per i tedeschi, gli inglesi, i francesi, ecc. I giovani nati all’estero non si rendono conto che cosa significa, in alcune regioni italiane, convivere con la criminalità e con fenomeni di criminalità organizzata sul piano della qualità della vita e dello sviluppo economico. Tutti questi fattori positivi sono quelli che legano il nostro grande patrimonio culturale, ivi comprese l’opera, il cinema, il teatro e la musica. Io vorrei ricordare, per esempio, un balletto visto tanti anni fa in un teatro all’estero con Carla Fracci, oppure i grandi concerti di Pavarotti. Sono questi gli elementi che colpiscono di più perché chi vive negli Stati Uniti ha sotto i propri occhi questi aspetti qualificanti del nostro Paese, e che noi, invece, non riusciamo assolutamente a proiettare in una dimensione più ampia.
Quali sono le prospettive e le attività dell’Unaie per il 2009?
L’Unaie viene da un anno e mezzo in cui c’è stato il cambiamento, con la presidenza affidata a me, in cui si è avviata una fase nuova. Con questo non voglio dire che la precedente presidenza sia stata meno impegnativa: abbiamo iniziato una fase nuova, con persone nuove. Ci siamo posti come temi fondanti quello dell’immigrazione in Italia, organizzando a Roma un convegno su questo tema, indicando così che l’impegno dell’Unaie non è un fatto spurio, ma l’inizio di una riflessione più ampia. Tra i 500 partecipanti che hanno assistito ai nostri lavori, c’erano diversi esperti di problemi dell’integrazione, a partire dalle politiche d’integrazione attuate in Germania, Inghilterra e Svizzera, volendo così dare un contributo per risolvere un problema che in Italia potrebbe scoppiarci tra le mani in futuro. Se non si fa di più, se non si attuano politiche a ogni livello per un’integrazione dell’immigrazione in Italia, credo che ci troveremo con tensioni molto ampie dalle conseguenze difficili da prevedere visto quello che è successo negli ultimi anni in Francia, in Inghilterra e in altri Paesi a forte immigrazione. Però, certamente, non dimentichiamo che siamo anche un’associazione che riunisce le principali organizzazioni e associazioni dell’emigrazione italiana all’estero. Basti pensare alle associazioni provinciali, regionali e nazionali che costituiscono la spina dorsale dell’Unaie. Una parte del nostro impegno nel 2009 sarà volto, oltre a progetti organizzativi, anche a ri-puntualizzare alcune questioni relative all’associazionismo, alle trasformazioni, ai cambiamenti generazionali, alla cultura e, soprattutto, a rendere il regionalismo un fattore importante dal punto di vista nazionale. Alla Conferenza dei giovani italiani nel mondo, mi sarei aspettato un ruolo più attivo e dinamico delle Regioni perché se c’è qualche istituzione che finora ha fatto concretamente qualcosa per il ricambio generazionale, sono le Regioni. Ma dobbiamo ricondurre tutto questo a un contenitore unico, che è quello del Paese, perché abbiamo una ricchezza veramente incredibile e straordinaria.

 

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017