Socialmente utile, risorsa o pena?
Ma il lavoro socialmente utile è una risorsa o una punizione? È una domanda che ci siamo posti in molti da quando un noto, notissimo politico del nostro bel Paese è stato condannato a scontare la sua pena. Di fronte a lui una scelta: gli arresti domiciliari o, in alternativa, l’affido ai servizi sociali, pronto a prestare il cosiddetto servizio di «pubblica utilità». Non entrerò nel merito della faccenda giudiziaria, non mi compete, preferisco soffermarmi con voi sul piano dell’immagine, su quei tabù, cioè, più o meno latenti, che la notizia ha portato a galla, finendo per sfiorare qualcosa anche nelle nostre pulite coscienze. «Se fai il cattivo, se ti comporti male vai a rastrellare le foglie nel parco, vai ad accudire gli anziani, vai a portare in giro il disabile!». La condanna, insomma, parla chiaro, solo che a pronunciarla non è la mamma di Pierino ma una voce istituzionale, garante di libertà, protezione e diritto.
D’altra parte, la giustizia non ne ha colpa: lei fa il suo mestiere e in questo è specchio della cultura condivisa, tra diritti e doveri, custodie e garanzie, regole e principi. La società, tuttavia – e questo anche il diritto ce lo insegna –, vive e si costruisce nel linguaggio. Prima ancora che nei fatti, la norma si identifica nella parola. Inoltre, come ci ricorda Michael Sandel, docente di Filosofia politica alla Harvard University, «chiedersi se una società sia giusta significa chiedersi come distribuisce le cose a cui diamo valore (…). Le difficoltà sorgono quando cominciamo a chiederci che cosa sia dovuto alle persone, e perché». Partire da queste piccole rivelazioni è a mio parere fondamentale per cogliere l’aspetto culturalmente più insidioso di questa «punizione liberale».
Torno alla mia domanda iniziale: il lavoro socialmente utile è una punizione o è una risorsa per tutti, buoni o cattivi che siano? In fondo è sempre stato così, tutti lo pensano ma non lo dicono. La diversità è l’uomo nero che arriva se ti comporti male, se non hai niente da perdere, se sei particolarmente buono e generoso o, diciamolo, se sei perfino un po’ masochista…
L’immagine che ne deriva è a dir poco devastante. In quest’ottica, sopportare le difficoltà e i rischi che la diversità comporta diventa una forma d’espiazione più che una forma d’integrazione, gettando a mare, concedetemelo, anni di battaglie. Si potrebbe notare al fondo anche una contraddizione in termini, in un Paese che sull’inclusione si è distinto e continua a farlo nella teoria come nella pratica da numerosi anni. Eppure, la distanza tra le buone pratiche e il pensiero reale è ancora tangibile. E, come sempre, si palesa nei momenti di rottura, quando la fodera istituzionale si incrina e lascia intravedere l’«indicibile». In ogni società civile, credo, il lavoro socialmente utile è un valore aggiunto, un fondamento della Costituzione, uno stimolo per lo sviluppo culturale e, non mi stancherò mai di ripeterlo, per la crescita politico-economica del Paese. Ancora una volta bisogna cambiare immagine per cambiare prospettiva: da pena a risorsa, da punizione a partecipazione. E voi che cosa ne pensate? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina Facebook.