Sogno impossibile?

Nonostante le apparenze contrarie, il sogno annunciato quarant’anni fa, da papa Giovanni nella Pacem in terris, è l’aspirazione di molti. Ma ecco perché quel sogno stenta ad avverarsi.
07 Gennaio 2003 | di

Se Giovanni XXIII scrivesse oggi la sua enciclica Pacem in terris non potrebbe più indicare, tra i più promettenti «segni dei tempi», quello della persuasione, sempre più diffusa tra gli uomini, che non si debba più far ricorso alle armi, ma, piuttosto, al negoziato, per dirimere le controversie, e che l`€™idea della guerra come strumento di giustizia sia ormai «fuori della ragione», alienum a ratione.

Quella che, infatti, è stata resuscitata e alimentata con una massiccia e incessante campagna d`€™opinione, a partire dall`€™ultimo decennio del Novecento, e che oggi viene percepita come nuovo senso comune, è precisamente la persuasione opposta, che la guerra sia l`€™universale rimedio contro ogni rischio e minaccia e che il ricorso alle armi sia il primo e più efficace strumento di governo del mondo. Nel giudizio comune sono oggi considerati ragionevoli e benpensanti quelli che ritengono necessaria la guerra, mentre sono coloro che vi si oppongono ad essere considerati irrazionali, incoscienti, visionari e ciechi: anzi «ciecopacisti», come li ha definiti un professore sul «Corriere della sera».

Vero è che ad un`€™analisi più attenta risulta che l`€™avversione alla guerra, il ritenerla inumana e irrazionale, il voler fare qualcosa per farla cessare e impedirla sono ancora atteggiamenti assai diffusi, e forse sono la vera espressione dei sentimenti dei più. A Firenze, nel novembre scorso, al famoso raduno europeo convocato dalle minoranze attive pacifiste e no-global, si è presentato un popolo intero, oltre ogni aspettativa, e con un fervore, un comportamento e un corredo di proposte e parole che dimostravano come la vera convocazione, la vera chiamata a cui quel popolo aveva risposto era stata quella della Pace. Sicché in quelle straordinarie giornate di Firenze si è reso manifesto come il segno dei tempi avvistato quarant`€™anni fa da papa Giovanni non fosse affatto tramontato. E, tuttavia, esso non è più così sfolgorante e così univoco come era percepito nell`€™enciclica, ed è oscurato e contraddetto non solo da altri segni, di natura opposta, che hanno ben più forza per rendersi visibili e occupare tutta la scena (i giornali, le tv, i discorsi dei potenti), ma dalla realtà  stessa dei tempi.

Dieci anni di guerre

Non è, infatti, solo il tempo annunciato, ma il tempo che fa, che è un tempo di guerra: tre guerre in dieci anni (guerra del Golfo, guerra jugoslava, guerra d`€™Afghanistan), una quarta guerra progettata, dichiarata e, a stento, trattenuta (la nuova guerra all`€™Iraq); e una guerra perpetua, illimitata, incondizionata, infinita, che è stata indetta dopo l`€™11 settembre 2001 e che promette di essere la condizione permanente, angosciosa, onnipresente della nostra vita per una lunga stagione di questo nuovo millennio, in ogni parte del mondo.

Che cosa è successo? Dunque, a tal punto Giovanni XXIII si era sbagliato? No, papa Giovanni non si era sbagliato. Egli aveva tratto dallo scrigno della Rivelazione, dalla contemplazione dell`€™amore misericordioso di Dio e dalle leggi iscritte nella stessa natura umana, i tratti salienti dell`€™ordine voluto da Dio; e lo aveva descritto nella sua enciclica come un ordine di pace (di pace sulla terra, e non solo nei cieli), che doveva fondarsi su una convivenza nella verità , nella giustizia, nell`€™amore, nella libertà , e che doveva stabilirsi a tutti i livelli di tale convivenza, cioè nei rapporti degli esseri umani tra loro, nei rapporti tra i cittadini e i poteri pubblici all`€™interno delle singole comunità  politiche, nei rapporti delle comunità  politiche tra di loro, e nei rapporti degli esseri umani e delle comunità  politiche con la comunità  mondiale (e, dunque, come poi si dirà , nella globalizzazione).

Un salto profetico

Ma il vero e proprio «salto» nell`€™interpretare la realtà , che papa Giovanni aveva compiuto nella sua enciclica (e si trattava, in realtà , di un salto profetico) era stato quello di scrutare e riconoscere, nella storia concreta degli uomini, il progressivo emergere e dilatarsi di quell`€™ordine voluto da Dio, per mezzo degli uomini stessi, grazie alle loro sofferenze, alle loro lotte, alla loro esperienza dei mali patiti, alle loro conquiste di civiltà  e di diritto.

A quest`€™osservazione immersa nella storia (la storia in cui Dio stesso aveva preso carne) né l`€™ordine voluto da Dio appariva astratto e irrealistico, come una buona ma irraggiungibile utopia, né la situazione del mondo appariva catastrofica; avevano torto gli uomini del sacro, che vedevano la salvezza solo nell`€™orbita del sacro e nell`€™inclusione in essa dello stesso ordine secolare, ma avevano torto anche i profeti di sventura, che nel mondo vedevano solo un pauroso intrico di mali.

Con il suo «salto», papa Giovanni separava la Chiesa da ogni prospettiva apocalittica, che è quella che dà  per perduto il mondo, ed è, quindi, un pensiero della fine, in vista di un altro mondo che sta dopo la fine. La scelta fu, invece, di assumere questo mondo qui, «nel tempo di ora»; e questa scelta, che papa Giovanni aveva consegnato al Concilio nel suo discorso inaugurale dell`€™11 ottobre 1962, fu fatta propria dal Concilio non solo nella Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, ma in tutto il suo discorso teologico e pastorale. E questa scelta di papa Giovanni e del Concilio veniva appena in tempo per sanare la frattura tra Chiesa e mondo, non però nella forma di un accordo tra realtà  estranee e avverse, ma come una ritrovata comunità  di destino in cui il ruolo della Chiesa, come riverbero di Cristo, è quello di essere lumen gentium, «luce delle genti», luce del mondo.

Appena in tempo

Appena in tempo, dicevamo, per attrezzare la Chiesa ad affrontare i tempi difficili che sarebbero venuti. Appena in tempo per mettere la Chiesa al riparo dal pericolo di essere risucchiata nell`€™ondata della predicazione apocalittica delle sette e dei fondamentalismi da fine del mondo, che poi avrebbe fatto irruzione in una situazione politica internazionale gravemente compromessa, e che sarebbe giunta fino ad ispirare la politica della presidenza degli Stati Uniti; e appena in tempo per preservare la Chiesa come possibile forza di resistenza, «forza frenante», per usare un termine paolino, contro le culture e le politiche che, all`€™inizio del nuovo millennio, avrebbero dato per scontata la non sanabilità  del mondo, e avrebbero destinato la maggior parte di esso e della popolazione mondiale all`€™abbandono, alla devastazione delle malattie, della miseria e della fame, e la terra stessa al rischio della distruzione per la non affrontata crisi ecologica.

Un segno tra altri segni

L`€™enciclica di Giovanni XXIII declinava una tutt`€™altra visione del mondo e indicava un ben diverso percorso; e se oggi si rilegge l`€™enciclica, e se ne scopre l`€™interna coerenza, si capisce anche perché il segno dei tempi della guerra estranea alla ragione, «alienum a ratione», si è ora oscurato. Perché quel segno dei tempi non stava da solo. Era parte di un sistema di segni, tutti indici di un reale avanzamento umano, di straordinarie conquiste giuridiche, politiche e sociali che oggi sono rimesse in causa.

I primi tre celebri «segni dei tempi», relativi all`€™«ordine tra gli esseri umani», erano i tre fenomeni che, per papa Giovanni, caratterizzavano l`€™epoca moderna: l`€™ascesa dei lavoratori, non più «in balia dell`€™altrui arbitrio», ma sempre intesi «come soggetti o persone»; l`€™ascesa della donna, non più da considerarsi come strumento, ma sempre nella sua dignità  di persona; l`€™ascesa dei popoli in via di fuoruscita dall`€™inferiorità  e dal dominio: «non più popoli dominatori e popoli dominati», come diceva icasticamente l`€™enciclica. C`€™erano, poi, i segni dei tempi relativi ai rapporti interni alle comunità  politiche: la redazione delle Carte dei diritti fondamentali; le Costituzioni come fonte e garanzia dei diritti e dei doveri; la subordinazione dei poteri pubblici alle norme costituzionali. C`€™erano, ancora, i segni dei tempi relativi ai rapporti nella comunità  mondiale: e qui il segno eminentissimo era quello della costituzione e dell`€™esistenza dell`€™Organizzazione delle nazioni unite, a sua volta produttrice di quell`€™altro segno straordinario che era la Dichiarazione universale dei diritti dell`€™uomo. Ed è allora in questo contesto di segni, di un`€™umanità  in cammino, che si alzava, luminoso tra tutti, il segno della pace.

Perché quel segno non brilla più

E ora è chiaro perché quel segno non brilla più: perché anche tutti gli altri segni sono stati rovesciati e oscurati.

I lavoratori? L`€™«ascesa economico-sociale delle classi lavoratrici», celebrata dall`€™enciclica giovannea, si è fermata. Oggi è il lavoro stesso che viene distrutto, perché considerato solo come il più costoso dei fattori di produzione; esso va eliminato per quanto possibile, sostituito dalle macchine, lasciato come un residuo, e perciò i lavoratori devono essere precari, flessibili e senza diritti.

La donna? Non si può rinunziare a farne strumento, essa è il maggiore veicolo della pubblicità  commerciale e sostituto universale dei Servizi che non ci sono; la parità  consiste nel potere anch`€™essa arruolarsi negli eserciti di mestiere come soldato; e, perfino, nella linea della riproduzione umana si cerca come fare a meno di lei, di sostituire anche i suoi gameti, al punto che un giorno non sia più appropriato, per dire «uomo», dire «nato da donna».

I popoli nuovi? Nessuno più pensa che siano eguali «le nazioni grandi e piccole», come dice la Carta dell`€™Onu. Ci sono i popoli che fanno la storia (secondo la formula di Hegel) e i popoli che la subiscono. I popoli che non appartengono ai Club dei Grandi (ma anche i meno grandi tra loro) devono farsi di nuovo docili al dominio, e quelli che non si assoggettano vanno annoverati tra gli «Stati canaglia» (che, secondo una più letterale traduzione, sono gli «Stati zizzania», essendo questo il significato dell`€™americano «rogue States»), oppure vanno inscritti nell`€™Asse del male, o identificati col terrorismo.

Le Carte dei diritti? Giacciono ineseguite, mentre i diritti sono regrediti a bisogni, e la loro soddisfazione è affidata alle leggi selettive del mercato.

Le Costituzioni? Le Costituzioni sono sotto attacco, e ciò che esse fissavano come principi e diritti indisponibili sono di nuovo piegati alla discrezionalità  dei poteri.

L`€™Onu? L`€™Onu è esautorata, il suo ruolo di organismo responsabile della pace e della sicurezza internazionali se l`€™è arrogato la Nato, e il suo ordinamento esteso a tutte le nazioni, nella sovranità  del diritto, è inibito o piegato a farsi strumento della sovranità  universale degli Stati Uniti, che, ormai, rivendicano di esercitarla «anche da soli», come dice l`€™ultimo documento sulla strategia della sicurezza nazionale americana.

L`€™universalità  dei diritti? Essa non c`€™è più, se ne sono esclusi i non-americani a Guantanamo, i non-ebrei in Palestina, i non-cittadini immigrati in Europa.

La pace non c`€™è più

E, allora, ecco perché la pace non c`€™è più, perché la persuasione del suo primato non può più essere riconosciuta come patrimonio e sentimento comune, e la guerra torna a essere lo strumento privilegiato del governo violento del mondo. E la Pacem in terris sembra sconfitta.

Tuttavia, questo rovesciamento non è compiuto. Il mondo non è ancora spezzato. I segni del tempo non sono univoci nell`€™annunciare tempesta. Le risorse non sono esaurite. E tra queste risorse c`€™è quella di tutti gli uomini di buona volontà , che non hanno abbandonato il progetto di quell`€™altro mondo possibile che era cominciato a nascere nel travaglio della storia; e tra queste risorse c`€™è una Chiesa, «che è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell`€™unità  di tutto il genere umano»; e c`€™è la profezia dell`€™enciclica di papa Giovanni, che ha saputo riconoscere i germi capaci di generare la pace e ha dato ragione alla speranza che essa, alfine, sarà  stabilita sulla terra.

 

Intervista a Ernesto Olivero
I GIOVANI E LA PACE

«I giovani quando hanno la fiducia degli adulti, automaticamente si impegnano contro la guerra a favore della pace». Così Ernesto Olivero nel raccontarci la storia del Sermig-Arsenale della pace di Torino di cui è stato il fondatore.

Gli abbiamo chiesto: «C`€™è bisogno di gesti concreti per la pace. Quali fatiche deve fare un giovane per essere dalla parte della pace?».

Ci ha risposto: «Bisogna scegliere un modello. Mai come oggi la pace ha bisogno di un ripasso. Tante manifestazioni per la pace in Italia non sono pacifiche. Manifestano un modo di concepire la conversione dell`€™altro, abbattendolo. Mi pare che non sia un modo serio. La pace deve farci arrivare a capire che Gesù è l`€™uomo della pace; Francesco, Gandhi`€¦ sono uomini di pace. Bisogna scegliere un modello, altrimenti si corre il rischio di andare a manifestazioni dove l`€™unico urlo è di odio contro qualcuno, oppure di sfasciare vetrine pensando di lavorare per la pace.

Il 5 ottobre dello scorso anno abbiamo organizzato, a Torino, un G8 alla rovescia, dove i giovani fossero protagonisti, dove potessero parlare ai grandi dei loro drammi, dei loro desideri, per ridisegnare il mondo partendo da loro.

Sono venuti in centomila. E non c`€™erano personaggi celebri a far da richiamo. Se ne sono stati per otto ore inchiodati al silenzio, alla commozione, a parlare dei loro problemi e dei loro ideali. Alla fine, una ragazza mi ha detto che era bene pulire la piazza per lasciare pulita la città . L`€™ho detto ai giovani e lo hanno fatto. Un gesto semplice, ma molto importante, in sintonia con quanto detto nell`€™incontro. I giovani vogliono dirci che desiderano la qualità , la verità , la purezza; vogliono farci capire che essi non sono un problema, ma la soluzione di tanti problemi che gli adulti non hanno saputo o voluto risolvere».

 

Il nostro punto di vista
Dalle religioni una speranza di pace

Il 24 gennaio prossimo le comunità  dei francescani d`€™Italia si ritroveranno ad Assisi per ricordare l`€™iniziativa promossa da Giovanni Paolo II lo scorso anno, invitando tutte le religioni per un`€™offensiva di pace come risposta al vile attentato di New Jork che, oltre a provocare un numero impressionante di vittime, aveva prodotto nel mondo un clima di sgomento e di paura non ancora del tutto fugato. Così il Papa spiegava il suo gesto: «In questo momento storico l`€™umanità  ha bisogno di gesti di pace e di ascoltare parole di speranza. È urgente che un`€™invocazione corale salga con insistenza dalla terra verso il cielo, per implorare dall`€™Onnipotente, nelle cui mani stanno i destini del mondo, il grande dono della pace, presupposto necessario per ogni serio impegno al servizio del vero progresso dell`€™umanità ».

Sulla tomba di Francesco quel giorno si sono ritrovati insieme cristiani e musulmani, ebrei e rappresentanti di altre religioni per pregare il Dio della pace, Padre di tutti. E anche per testimoniare al mondo che la religione non può diventare mai motivo di conflitto, di odio, di violenza. Anzi, neutralizzati i fanatismi e i pregiudizi che sono stati storicamente all`€™origine di spesso cruente contrapposizioni, le religioni devono essere il luogo del dialogo per riscoprire quello che le unisce, prima di tutto l`€™aspirazione di ogni uomo a vivere nella pace, nella dignità  e nella giustizia, e diventare, quindi, il punto di incontro per cominciare a realizzare le condizioni perché quell`€™aspirazione diventi per tutti realtà .

Il clima di paura provocato dall`€™attentato dell`€™11 settembre, non solo non è stato fugato da una sicura speranza di pace, è stato, anzi, reso più cupo dai venti di guerra che soffiano minacciosi: guerre in corso e guerre minacciate, tra le prime ricordiamo, anzitutto, il conflitto tra palestinesi e israeliani che è forse l`€™ostacolo più robusto sulla via della pace; tra le seconde, la possibile guerra all`€™Iraq, fortemente voluta da Bush. Poiché interessi di gruppi e di nazioni non solo rendono più tortuoso il cammino della pace e della giustizia, ma provocano deliberatamente conflitti per trarne vantaggi, non ci resta che sperare nelle religioni, convinti che esse, unite nella preghiera e nell`€™impegno, possono essere un elemento decisivo nel cammino verso la pace. Papa Giovanni, nella Pacem in terris, invitava tutti a pregare il Dio della pace perché «accenda le volontà  di tutti a superare le barriere che dividono, ad accrescere i vincoli della mutua carità , a comprendere gli altri, a perdonare coloro che hanno recato ingiurie; in virtù della sua azione si affratellino tutti i popoli della terra e fiorisca in essi e sempre regni la desideratissima pace». Perché con la pace tutto è possibile, nulla con la guerra.
Luciano Bertazzo

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017