Stati Uniti. A Harvard per pensare globale
La prima volta in cui lasciò l’Italia fu nel 1994, per farvi ritorno solamente una decina di anni dopo. Alessandro Vespignani, 48 anni, professore di computer science e di fisica alla Boston north eastern University e docente associato all’Istituto per le Scienze sociali quantitative alla Harvard University, si definisce «un fisico prestato alle scienze della salute (health sciences)».
Noto per la sua attività di ricerca sulla teoria delle reti applicata alla diffusione delle malattie infettive, Vespignani si occupa, come lui stesso racconta, «di definire modelli matematici e computazionali miranti a fornire una spiegazione quantitativa per comprendere l’evoluzione e le proprietà spaziali e temporali dei processi di contagio, sia biologici che sociali». Un impegno che lo ha portato già diversi anni fa a trasferirsi negli Usa, dove ha cresciuto due figli quasi americani al cento per cento (ma parlano anche italiano). Nonostante l’ottima accoglienza trovata nel Nuovo Continente, Alessandro Vespignani serba ancora un legame con la madre patria, dove spesso fa ritorno, grazie al ruolo di direttore scientifico dell’Isi, la Fondazione di interscambio scientifico di Torino, organismo che favorisce la formazione di gruppi di ricerca e di scambio internazionali.
A richiamare di tanto in tanto il fisico in Italia, inoltre, è la sorella residente a Roma, oltre che l’Università della capitale, verso cui Vespignani, ex studente e dottorando, prova un’«enorme riconoscenza». «Mi sono sempre sentito italiano, e con fierezza – ammette il professore –. Ma oggi un po’ di meno, considerato il profondo decadimento di cui il nostro Paese è caduto preda». In particolare, il docente obietta al sistema italiano lo spreco di risorse: «Se l’Italia si sente di mandar via le persone in gamba, deve poi accettare il fatto che sia arduo farle rientrare. Certi Stati richiamano energie provenienti da altri Paesi; in Italia invece non si acquisiscono risorse. È come avere un bilancio sempre in negativo».
Per lo studioso, dunque, nel Belpaese serve una mentalità più aperta e costruttiva: «Dobbiamo imparare a pensare globale», avvisa. Un po’ come fanno negli Stati Uniti, dove Vespignani approdò molti anni fa, dopo aver fatto tappa in Francia e Olanda, attratto dal modo di fare ricerca del Nuovo Continente. La sua partenza dall’Italia, dunque, non fu la classica «fuga di cervelli», ma piuttosto un irresistibile richiamo del futuro e del progresso. «Della ricerca gli Usa hanno una visione più avanzata – conclude il professore –, un gusto nel provare cose nuove. Credono in un’attività che gode del profondo rispetto del governo e della gente, dove si creano ambienti che difficilmente trovano paragone in Europa».