Stati Uniti. «Sei sempre stata un’italiana?»

23 Settembre 2014 | di
È giornalista, scrittrice e docente universitaria. Lei è Maria Laurino, intellettuale da sempre attenta ai temi dell’identità italiana, anche a motivo della sua storia personale. «I miei nonni – racconta – arrivarono negli Usa dal Sud Italia tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. La famiglia di mia madre proveniva da Conza della Campania, in provincia di Avellino. Quella di papà, invece, ha le sue radici a Picerno, in Basilicata, e fece la spola tra Italia e Usa per diversi anni prima di stabilirsi definitivamente in New Jersey. I miei genitori, poi, nati in America, ebbero un processo d’integrazione simile a quello di tanti immigrati di seconda generazione. Si sentivano italiani, ma volevano anche cancellare le differenze culturali con i coetanei. Da ragazzo, mio padre lavorò come caddy (portatore di mazze, ndr) in un golf club. Un giorno un giocatore lo vide raccogliere della cicoria ai limiti del campo e lo apostrofò: “Mangi l’erba?”. L’incidente mortificò mio padre che così comprese la differenza tra l’essere italiano e l’essere americano».

Msa. I suoi libri, e in particolare Were you always an italian? («Sei sempre stata un’italiana?», ndr), sono stati ben accolti dagli italoamericani. Ce ne vuole parlare?
Laurino. Il mio libro esplora il significato di essere italiani di terza generazione in America. Ho usato la forma dell’esperienza personale per affrontare temi universali. E sono contenta quando altri italoamericani riescono a identificarsi con quanto ho raccontato. Iniziai a interessarmi al mio retaggio culturale a metà degli anni Ottanta. Da poco avevo finito l’università e lavoravo come giornalista. Sentivo che in parte ancora mi vergognavo di essere italoamericana. Iniziai a viaggiare in Italia da sola, tanto da innamorarmene. Decisi allora di studiare a fondo la cultura italiana e la sua gente. In America non apprezzavo la mia identità. C’erano troppi falsi stereotipi applicati agli italiani. La cultura popolare americana – sia nei film che in televisione – ha presentato gli italoamericani come mafiosi o non molto intelligenti. Questi stereotipi durante la mia gioventù mi spinsero a fingere di far parte di un altro gruppo etnico. Esaminando queste etichette e scrivendone, riuscii a superare la vergogna e ad apprezzare, finalmente, la cultura italiana.

Che cosa rappresenta per lei e la sua famiglia l’Italia?
L’Italia ha un ruolo molto importante nella mia vita, non solo per via delle radici storiche. Ci torniamo spesso in vacanza. In casa leggiamo i grandi del ventesimo secolo, come Italo Calvino, Primo Levi, Carlo Levi, Natalia Ginzburg, Elsa Morante, Alberto Moravia, ma anche i contemporanei, come Elena Ferrante. Mangio principalmente cibo italiano (mio marito dice che in realtà mangio “solo” cibo italiano…). Sono davvero legata alla cultura mediterranea. Mi sento italiana, anzi, profondamente meridionale. Cerco di trasmettere l’italianità anche a mio figlio, Mi­chael. Ha 16 anni e di recente ha scelto di presentare alla sua classe Le città invisibili di Calvino. La cultura italiana lo affascina sin da bambino. Ama in particolare la Ferrari.

Quali sono, a suo parere, i valori cardine degli italiani e degli italoamericani?
Citerei l’importanza della famiglia e della tradizione, che si esplicita, ad esempio, nella condivisione dei pasti. Penso che la cultura italiana ruoti intorno al concetto di interdipendenza, mentre quella americana sull’indipendenza. Viaggiando in Italia noto poi una minore ossessione per il profitto rispetto all’America.
 

 
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017