Storia di un massacro
Nel 1989, nel corso della sua visita all'Indonesia, il papa fece tappa nell'isola di Timor. Al suo arrivo all'aeroporto di Dili, capitale di Timor Est, non baciò il suolo come fa di solito, ma una croce appositamente posta su di un tappeto, quasi a significare che quello era un territorio ancora in contestazione.
Ventuno anni fa, infatti, Timor Est venne invaso dall'Indonesia con la tacita approvazione degli Stati Uniti, dell'Australia, della Gran Bretagna e di altri paesi occidentali, che temevano la presa del potere dei comunisti in quella parte dell'isola da poco diventata indipendente dal Portogallo, e che certamente costituisce un punto strategico nell'Oceano Pacifico.
Per molti anni il mondo si è completamente disinteressato del destino di questo popolo, che nel frattempo viveva una immane tragedia. In poco più di vent'anni oltre 200 mila persone (un quarto della popolazione) hanno perso la vita non solo in combattimento, ma anche vittime di un sistematico sterminio di interi villaggi e attraverso l'occasionale uccisione soprattutto di donne e bambini da parte dei soldati indonesiani, ben felici di giocare al tiro a bersaglio. È ben documentato l'uso di inermi timoresi come scudo umano contro l'avanzata dei guerriglieri, così pure la loro uccisione gettandoli dagli aerei in volo; oppure la loro deportazione nei cosiddetti «villaggi di risistemazione» (eufemismo per «campi di concentramento») dove parecchie migliaia di persone hanno perso la vita.
Certamente il più grave incidente, dall'occupazione indonesiana a oggi, è stato il sanguinoso massacro avvenuto il 12 novembre 1991 a Dili, nel cimitero di Santa Cruz. In quel giorno, alla messa funebre in memoria di un giovane ucciso dalle forze dell'ordine alcune settimane prima, fece seguito una processione verso il cimitero dove la vittima era stata sepolta. Il corte di circa duemila persone avanzava in ordine dimostrando pacificamente contro l'invasore, quando improvvisamente arrivò un contingente di militari che cominciò a far fuoco contro la folla uccidendo, secondo le stime di Amnesty International, almeno 270 persone. All'indomani del massacro i portavoce dell'esercito dichiararono che erano state uccise solo diciannove persone, sostenendo che l'esercito aveva dovuto rispondere al fuoco dei dimostranti per difendersi.
presentato in molte nazioni occidentali il documentario televisivo Nel febbraio 1994 venne Death of a Nation girate durante il massacro. Per la prima volta, a un mondo incredulo (Morte di una nazione), con molte immagini e ampiamente disinteressato, veniva fatto vedere quello che veramente stava accadendo in Timor Est. Il documentario non solo dimostrava che nel cimitero di Santa Cruz c'era stato effettivamente un massacro, ma che ne era seguito un altro nell'ospedale nel quale erano stati ricoverati i feriti.
Da allora la tensione si è un po' allentata, ma la situazione di Timor Est rimane alquanto grave. Strenuo difensore del suo popolo continua a essere il giovane e coraggioso monsignor Carlos Filipe Ximenes Belo, vescovo di Dili. Amministratore apostolico dal 1983 - quando aveva solo trentacinque anni - monsignor Belo è il portavoce dei diritti del suo popolo. Lo scorso ottobre gli è stato conferito il Nobel per la pace. Lo abbiamo intervistato nella sede vescovile di Dili.
L'intervista
Nel dicembre del 1975 le truppe indonesiane hanno invaso il suo paese, con il pretesto di essere state invitate a intervenire dalla fazione nazionalista di Timor Est, che temeva il nascere di un governo comunista. Esisteva davvero questo pericolo?
Si è trattato chiaramente di un pretesto da parte dell'Indonesia. La situazione politico-sociale nel Sudest asiatico in quegli anni era segnata dalla guerra fredda; però non vi era alcun pericolo di un golpe da parte dei comunisti. Ma volendo anche ammettere che ci fosse una qualche lontana possibilità di presa del potere da parte dei comunisti, l'Indonesia non aveva alcun diritto di invadere Timor Est. Del resto, lo stesso Sukarno, l'allora presidente dell'Indonesia, aveva più volte affermato che il suo paese non aveva alcuna pretesa sulla nostra isola.
Dove si trovava, eccellenza, al momento dell'invasione?
Dopo gli anni di filosofia, per ordine dei miei superiori mi trovavo nella enclave di Macao per la pratica pastorale.
Qual è stata la sua prima reazione alla notizia dell'intervento armato indonesiano in Timor Est?
Una tristezza profonda; perché non ho avuto dubbi che con l'invasione indonesiana l'indipendenza di questa parte dell'isola sarebbe stata irrimediabilmente perduta.
L'organizzazione internazionale Amnesty International ha denunciato l'esorbitante numero di 200 mila morti in Timor Est, nel periodo che va dall'intervento armato indonesiano sino ai nostri giorni, a causa della guerra, della fame e della carestia. Se si pensa che la popolazione di Timor Est non ha mai superato gli 800 mila abitanti, si può aver un'idea della grande sofferenza che ha colpito il suo popolo. Come mai i mass media internazionali non hanno dato molto rilievo a questa grande tragedia?
Dal 1975 al 1985, la maggioranza degli indonesiani non sapeva granché dell'intervento armato avvenuto in Timor Est semplicemente perché i loro mezzi di comunicazione non li informava. La stessa cosa succedeva per i mezzi di comunicazione che provenivano dall'estero: tutto veniva controllato e casomai censurato. Quel poco che sapevano erano il pensiero e gli orientamenti della politica governativa. Ma molti mass media internazionali hanno preferito passare sotto silenzio i tragici avvenimenti di Timor.
Perché? Certamente i governi delle grandi potenze sapevano...
Ma certo che ne erano a conoscenza. Anzi, ne erano anche conniventi. Prima dell'intervento militare, l'Indonesia aveva senza dubbio informato l'America e l'Australia delle sue intenzioni, e si suppone che abbia anche ottenuto la benedizione dal presidente Gerald Ford e dal segretario di stato Henry Kissinger. Prova ne sia che nel 1977, quando gli americani sono entrati a far parte del Catholic Relief Service, non hanno mai fatto obiezioni sulla questione di Timor Est e si sono ben guardati dal fare qualsiasi tipo di denuncia.
Crede che si volesse far di tutto per non creare un «caso» Timor Est?
Certo. Un esempio? Nei mesi di gennaio e febbraio del 1976 è venuto nell'isola il rappresentate del segretario generale dell'Onu, era di origine italiana e si chiamava Guicciardi. Nel rapporto conclusivo del suo sopralluogo ha scritto che la vita nell'isola di Timor era rientrata nella normalità e non esistevano motivi di preoccupazione.
Si sente parlare con una certa regolarità di disordini, violenze e vittime in Timor Est. Quali sono le cause?
La ragione principale è certamente quella politica. Con l'annessione l'Indonesia chiede l'integrazione di Timor Est con il resto della nazione. La maggioranza dei timoresi vuole, invece, un referendum per l'indipendenza. Soprattutto i giovani rischiano scontri con la polizia, prigione e anche la morte per il diritto fondamentale all'autodeterminazione. Devo dire, però, che non mancano quelli che opterebbero volentieri per una annessione all'Indonesia. Le due tendenze, essendo radicali, portano a dimostrazioni, scontri, retate della polizia, arresti, torture...
A sua conoscenza, esistono ancora molte persone in carcere? Quanti i prigionieri politici?
È difficile farne un conto esatto. Ci sono arresti compiuti dalla polizia, dall esercito, dai servizi segreti... Ognuno di loro ha i propri sistemi e i propri locali per gli interrogatori e la detenzione. Ogni tanto sparisce qualcuno...
Ci troviamo, quindi, di fronte al fenomeno dei desaparecidos anche a Timor Est come nel Sud e nel Centroamerica?
Certamente.
Timor Est è quasi al 90 per cento cattolica. È difficile parlare di Dio e di amore del prossimo oggi, nel suo paese, in una situazione in cui violenza, povertà e ingiustizia sono all'ordine del giorno?
È molto difficile. Noi certo preghiamo per ottenere e offrire il perdono per le offese date e ricevute. Preghiamo per i nostri nemici... Ma spesso la gente - soprattutto i giovani - mi chiedono come sia possibile perdonare coloro che hanno ucciso i genitori, i fratelli... Con sincerità devo dire che questo è il nostro dramma di oggi... Ma il vangelo è troppo chiaro su questo punto, e noi dobbiamo seguirlo per aver pace e far parte di coloro che sono dichiarati beati nelle persecuzioni.
Monsignore, più volte si è fatto il suo nome per il Nobel della Pace. Recentemente in Canada le è stato conferito il premio «John Humphrey» per la libertà e per la promozione dei diritti umani. Il 16 maggio di quest'anno, inoltre, le è stato conferito a Roma il premio «Oscar Romero». Su quali punti si è principalmente impegnato nella difesa del suo popolo?
Noi pastori della comunità cristiana siamo stati preposti per l'aiuto e la difesa della gente. Se non ci opponiamo a coloro che per motivi di etnia, di cultura o di interesse nazionalista usano violenza al nostro popolo, noi manchiamo a un nostro preciso dovere, perché permettiamo che la chiesa di Cristo in questi luoghi si impoverisca o muoia. Se vogliamo la chiesa viva, dobbiamo difendere il popolo, perché la chiesa è il popolo, il popolo è la chiesa. C'è, poi, il problema della dignità umana: ogni essere umano, uomo o donna, è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, pertanto non può essere trattato come una bestia. Inoltre non possiamo mai abdicare a un altro diritto fondamentale di un popolo: l'autodeterminazione, il poter esprimere il proprio parere su di una scelta di fondo della sua vita e della sua storia.
Secondo lei, l'autodeterminazione non potrà mai avvenire in Timor Est?
Finché avremo un governo di militari e dittatori questo non potrà avvenire.
Monsignore, ha mai dovuto temere per la sua vita?
Certamente. Ma sono convinto che si muore una sola vota, e possibilmente per rendere la vita degli altri migliore. Eppoi sono 250 mila le persone di Timor Est che hanno sacrificato la loro vita per avere libertà di scelta... Immaginiamoci se un vescovo non possa sentirsi pronto a offrire la propria vita per la sua gente. La vita di un vescovo non è certo più importante di quella del suo popolo.
All'inizio di quest'anno, il sommo pontefice Giovanni Paolo II, nel porgere gli auguri annuali ai diplomatici accreditati presso la santa sede, ha voluto ricordare la grave situazione di Timor Est, sottolineando che il suo popolo continua ad attendere delle decisioni che gli permettano di vedere riconosciute le legittime aspirazioni a una identità culturale e religiosa... Che cosa intendeva dire, secondo lei, il santo padre con queste affermazioni?
Il sommo pontefice, a mio avviso, voleva esortare le Nazioni Unite, l'Indonesia e il Portogallo a rispettare Timor Est e a far di tutto per raggiungere una soluzione possibile e accettabile per tutti.
Da ciò che ho potuto sapere, sembra che il clero cattolico dell Indonesia non sia così angosciato e controverso nei confronti dell'invasione di Timor Est, e pare rassegnato all'annessione operata dai militari. Condivide questa impressione, oppure il clero cattolico sostiene la reazione indipendenstista di Timor Est?
La maggior parte del clero cattolico indonesiano insieme ad alcuni membri dell'episcopato, si sono orientati apertamente per l'annessione di Timor Est all'Indonesia. In realtà , hanno messo in primo piano più il loro nazionalismo che la libertà e la dignità espresse dal vangelo. Ci vuole coraggio nell'accettare il dovere di difendere gli oppressi, i deboli, gli emarginati... Non parliamo, poi, di molti influenti cattolici indonesiani che hanno difeso apertamente l'annessione.
Secondo il suo punto di vista, l'indipendenza dall'Indonesia sarebbe una soluzione giusta per l'avvenire di Timor Est?
Ciò che è fondamentale, secondo me, è di dare alle gente il diritto di poter esprimere il proprio parere. Il popolo deve essere sovrano ed è lui che deve decidere. Che poi Timor Est sia in grado di poter vivere in autonomia oppure no, questo è un problema secondario. Lasciamo decidere ai timoresi il loro destino, senza che nessuna potenza intervenga fornendo pareri interessati. Che un gruppo umano sia grande o piccolo non fa differenza. Ciò che è in questione è sempre la persona umana, la sua dignità e i suoi diritti fondamentali. Parlando ai giovani chiedo sempre di prepararsi a essere dei bravi timoresi lavorando e studiando, perché l'indipendenza non è solo un diritto, ma un grande valore che deve essere raggiunto con i propri sforzi. L'indipendenza non cade dal cielo.
I portoghesi mostrano molto interesse e preoccupazione per la situazione di Timor Est. Il governo portoghese ha mai cercato di fare qualcosa?
Sì, ma si tratta di una missione impossibile. Come si possono costringere le truppe indonesiane a lasciare il territorio di Timor Est? Neppure gli Stati Uniti, la nazione più potente del mondo, potrebbe farlo. L'unico appoggio che il Portogallo può dare è quello di continuare a rivolgersi all'Onu, ricordando statuti e accordi internazionali contro soprusi e interventi militari, in territorio estero.
Che interesse può aver avuto l'Indonesia per invadere questo piccolo paese?
La domanda che lei fa a me, io la rivolgerei ai responsabili della politica indonesiana. Perché tanto interesse per un lembo di terra che non presenta alcuna eccezionalità ? Perché sacrificare tanti giovani militari indonesiani in questa nostra terra? Per quale ragione spendere tanti soldi per mantenere l'ordine?
Ho sentito parlare di petrolio...
Sì, c'è il petrolio; ma credo che negli anni Settanta, al momento dell'invasione, il governo indonesiano abbia soprattutto considerato l'importanza strategica dell'isola, che poteva diventare base dei comunisti. Ai nostri giorni, con la caduta del muro di Berlino e la disgregazione dell'ex Unione Sovietica, la paura di un governo comunista è solo una scusa.
ATLANTE
Timor Est, la parte orientale dell'isola di Timor, fino al 1976 fu colonia portoghese e poi annessa all'Indonesia: ha 14.619 Km quadrati, 715 mila abitanti, capoluogo Dili. L'altra parte, già olandese, era diventata indonesiana nel 1946. Gli abitanti di Timor Est, di religione cattolica, non hanno gradito la nuova situazione e dal 1975 lottano per l'indipendenza, ad essi il governo indonesiano ha risposto con durissime repressioni.