Sulla rotta degli avventurieri
Quanti sono gli italiani in Nuova Zelanda?
Gli italiani di cuore sono moltissimi. L";ambasciatore d";Italia, Roberto Palmieri, ci conferma che i neozelandesi sono affascinati dal modello italiano: lingua, cultura, design, storia, arte. Lo dimostra il successo che hanno le rassegne d";arte e di gastronomia, il festival del cinema italiano che si tiene ogni anno, in novembre, nelle 5 principali città del Paese, l";amore per lo studio della lingua italiana che gode del supporto di due Dipartimenti nelle università di Auckland e Wellington, lo studio della musica operistica e del bel canto.
La Nuova Zelanda ha una superficie di 270.534 chilometri quadrati (un po"; più piccola dell";Italia), consiste in due isole maggiori, Nord e Sud. Gli abitanti sono 3.800.000 di cui il 74% europei, il 12% maori. La capitale è Wellington (350.000 abitanti) Altre città importanti: Auckland (circa 1 milione di abitanti) e Christchurch (320.000).
L";emigrazione italiana in Nuova Zelanda ha seguito la rotta dei navigatori avventurieri. Sulla nave del capitano James Cook, che consegnerà quel Paese e l";Australia alla corona inglese, al primo passaggio nel 1769 c";era Antonio Ponto, che giustamente viene considerato il primo italiano ad aver messo piede in Nuova Zelanda.
Non se ne conosce il motivo, ma tra il 1839 e il 1840 arrivò in quel lontano Paese un certo Salvatore Cimino, originario di Capri. Era un uomo forte e coraggioso che si integrò ben presto con le tribù dei Maori, e tutti i membri della famiglia Cimino divennero membri onorari della tribù Ngati Raukawa.
Anche in Nuova Zelanda, come in America e in Australia, verso la metà del secolo scorso la corsa all";oro fu la leva che fece arrivare sparuti gruppi di italiani. Ma i primi movimenti di massa si registrano dopo il 1870, quando il primo ministro Julius Vogel lanciò un programma di immigrazione per mettere in piedi il Paese.
Su quel programma si avventarono, come falchi, agenti di viaggio senza scrupoli che reclutarono giovani inesperti con la promessa di un buon lavoro e un lauto guadagno. I lavori, purtroppo, erano durissimi, perché la terra era malsana e paludosa. C";era la difficoltà della lingua, e nessuna autorità italiana poteva aiutarli.
Ai contadini semianalfabeti e privi di nozioni geografiche specifiche, la Nuova Zelanda doveva apparire avvolta nel mistero, e la lontananza non si misurava in chilometri o miglia ma in giorni di viaggio. Due mesi di navigazione per andare dall";altra parte del mondo. Questa era l";espressione corrente sulla bocca di chi ne parlava, e il giornalista italo-neozelandese Paolo Elenio ha usato le stesse parole per il titolo del suo libro sulla storia degli italiani in Nuova Zelanda.
Verso la fine dell";Ottocento, a scoprire la Nuova Zelanda furono i pescatori provenienti da due centri del Sud Italia: Stromboli, isoletta delle Eolie, e Massalubrense, paese in provincia di Napoli sulla costa amalfitana.
Bartolo Russo di Stromboli fu il primo italiano a stabilirsi a Eastborne, parte est della baia di Wellington. Era nato nel 1866, primo degli otto figli di Domenico e Giufetta Russo. A 14 anni s";imbarcò come mozzo di una nave che fece naufragio al largo dell";India. Rifiutò di ritornare in patria e proseguì con mezzi di fortuna per la Nuova Zelanda. Arrivò a Wellington sano e salvo, ma con una gamba rotta. Si sposò con la diciassettenne Italia Colorinda Pierotti, emigrata con i genitori da Livorno, prima donna non maori di Eastbourne. Bartolo Russo divenne un imprenditore nel settore della pesca e poi dei prodotti agroalimentari.
Iniziarono così le dinastie delle famiglie italiane di pescatori. I fratelli Luigi e Antonio Della Barca di Massalubrense erano di passaggio con un mercantile (1896) quando decisero che quel Paese avrebbe fatto al caso loro. Si fermarono. Poi tornarono in Italia per sposarsi e fecero rientro in Nuova Zelanda.
Antonino Meo e Rosalia Volpicelli di Massalubrense ebbero 11 figli. Alcuni di loro emigrarono in Nuova Zelanda (Battista, Salvatore, Giuseppe, Michele e Luigi) per seguire gli amici e compaesani Della Barca. Era gente abituata ai sacrifici e temprati dalle fatiche della pesca. In molti conobbero una felice longevità . Salvatore, emigrato in precedenza a Buenos Aires, a 14 anni, dove aveva lavorato in un mercato del pesce, visse più di 100 anni, e per la festa del secolo gli amici pescatori lo fecero passare sotto un arco di canestri che si usano per prendere i crostacei. Michele, a 80 anni, dopo un naufragio portò in salvo la propria imbarcazione di 16 piedi remando per 8 chilometri e poi trascinandola da solo fino al capanno. Anche Giuseppe Volpicelli visse fino a 101 anni, ed era venuto in Nuova Zelanda che ne aveva solamente 10, al seguito di un cugino più grande: Giuseppe Della Barca. Trascorse gli ultimi anni con un passatempo: costruiva barchette da regalare ai bambini.
La colonia italiana dei pescatori di Wellington dominava lo scenario di tutta la produzioni ittica dell";isola. I pescatori si ritrovavano nella Roma House, la Casa Roma per una partita a carte, quattro chiacchiere e un bicchiere di vino. Si parlava di pesca e di politica attorno ad abbondanti spaghettate. Lì si combinavano matrimoni, si dava il benvenuto ai nuovi arrivati e si affibbiavano i soprannomi: Vincenzo Barnao il Kaiser, Liberato Volpicelli il Turco, Antonio Arpea il Carnera, Caterina Costa spaccamontagne. I Tesoriero erano conosciuti come mosca.
Ma il sodalizio più prestigioso è il Club Garibaldi, sorto a Wellington nel luglio del 1882, ad un mese di distanza dalla morte a Caprera dell";eroe dei due mondi (2 giugno 1882). Il Club Garibaldi è ancora oggi il fulcro della vita comunitaria italiana di Wellington.
A fianco dell";emigrazione dei pescatori, a partire dagli anni Venti, si registra anche quella dei contadini che occuparono e coltivarono la Hutt Valley. Venivano in prevalenza dalla Toscana, dalla provincia di Pistoia, e dal Veneto. Gli italiani di Wellington durante i fine settimana si recavano nella Hutt Valley per trascorrervi due giornate di relax. Davano una mano nella raccolta degli ortaggi, poi si riunivano attorno a laute mense. Durante la seconda guerra mondiale gli agricoltori italiani inviavano grossi quantitativi di ortaggi alle truppe americane di stanza nelle isole del Pacifico.
Altri mestieri tradizionali in cui gli italiani mostrarono talento e fantasia erano quelli di barbiere, costruttore edile e ristoratore. Non potevano mancare i musicantes di Viggiano (Potenza), suonatori di arpe e altri strumenti a corda, che a Wellington e Auckland, come a New York, A Buenos Aires e a Melbourne, davano concertini per le strade e la domenica pomeriggio, negli anni Venti, accompagnavano il cinema muto di allora da dietro le quinte.
I ristoratori italiani iniziarono il loro boom verso il 1970. Citiamo Pietro Azzarelli con il ristorante Rinascimento, Raffaele Abbate con Bellissimo e Aroma, e Remiro Bresolin da Blessaglia di Pramaggiore, vicino a Portogruaro. Arrivò in Nuova Zelanda nel 1973 e notò che mancava una pizzeria. Così decise di avviarla. Importò i forni per la pizza dall";Australia e le macchine per fare il caffè e il vino. Fu un successone. Dalla pizzeria passò ai ristoranti di classe: Il casinò e Via Veneto. Il governo italiano gli conferì l";onorificenza di Cavaliere della Repubblica Italiana. Oggi è ad Auckland che si trova il nucleo più numeroso di italiani (circa il 30%), e sono dediti soprattutto alla ristorazione.
Dopo la seconda guerra mondiale l";ondata migratoria riprese vigore con l";arrivo degli esuli istriani e dei cosiddetti matrimoni di guerra. L";emigrazione italiana si smorzò del tutto negli anni Sessanta, a parte qualche ricongiungimento familiare. Oggi esiste un";emigrazione temporanea, d";élite, fatta di imprenditori e artisti in pensione, e da giovani sotto i 30 anni che scelgono la Nuova Zelanda per un periodo di 6 mesi di vacanza-lavoro (per un massimo di 250 visti all";anno).