«Sveglia cattolici! I propositi non bastano»
Il grande pubblico lo conosce per il garbo con il quale, da oltre un decennio, entra quotidianamente nelle case degli italiani attraverso gli schermi del Tg1. Ma oltre che giornalista televisivo di successo, Francesco Giorgino è docente universitario, studioso di tematiche sociali e saggista. Da poche settimane è in libreria la sua ultima fatica letteraria, Buoni propositi. I cattolici nella società postmoderna. Lo abbiamo incontrato.
Msa. Giorgino, innanzitutto come, perché e per chi nasce questo libro?
Giorgino. Da alcuni anni collaboro con la rivista dei francescani conventuali di Assisi: articoli, corsivi giornalistici, riflessioni sul ruolo dei cattolici in questo nostro tempo sempre più secolarizzato, sempre più incapace di attribuire alla fede lo spazio che merita in quella che il filosofo Jürgen Habermas chiamerebbe «sfera pubblica». Si è instaurato un dialogo proficuo con i lettori, molti dei quali mi hanno indotto a raccogliere questi scritti e ad ampliarne la prospettiva d’analisi per costruire una visione d’insieme sulla contemporaneità. Visione che metto a disposizione di tutti: giovani, genitori, insegnanti, formatori, mediatori del messaggio di fede, uomini di comunicazione, laici, religiosi.
Si dice che ogni predicatore abbia «una sola predica», che ripete con parole e concetti diversi nelle molte occasioni. Qual è il filo rosso delle pagine di Buoni propositi, insomma la «predica», ci passi il termine, di Giorgino?
L’intenzione predicatoria è lontana da questa produzione editoriale che è, in realtà, più semplicemente un invito ai cattolici a uscire da quel torpore con il quale spesso vivono la propria fede. Ma è anche una ricerca di interlocuzione con gli scettici, i quali, almeno a mio giudizio, sono tali perché sopraffatti dalla cultura del pregiudizio: una cultura che nasce dalla non conoscenza reale o dalla cattiva interpretazione delle ragioni del cattolicesimo. Rivolgo questo invito e ricerco questa interlocuzione con grande disponibilità al confronto, senza complessi di superiorità, ma nemmeno di inferiorità. Del resto, già dal titolo si capisce che c’è soprattutto una volontà provocatoria da parte mia. Ai cattolici sono richiesti sì buoni propositi, ma soprattutto buone azioni. La provocazione è questa: ripartiamo segnalando le priorità dei temi su cui far riflettere l’opinione pubblica. Honorè de Balzac diceva che «la volontà può e deve essere motivo d’orgoglio, molto più dell’ingegno».
I temi affrontati nel suo libro sono molti e molto impegnativi: valori, matrimonio, fede e scienza, diritto alla vita, laicità e laicismo. Nel metterli in ordine, però, non ha dubbi: al primo posto sta il tema della «famiglia». Perché?
Perché la famiglia è la prima vera camera di compensazione delle contraddizioni del nostro tempo. È la prima sede per un’oculata gestione del conflitto valoriale, per lo sviluppo delle capacità di relazione sociale. È la forma di mediazione per eccellenza, il nucleo fondante della società, l’alveo più protettivo. Per questo non si può far finta di nulla quando essa si trasforma da famiglia dei valori in famiglia degli affetti. Senza la famiglia è difficile porre al centro della riflessione pubblica la persona, con le sue aspirazioni e le sue fragilità. È la famiglia, in quanto agenzia di socializzazione, il luogo nel quale contribuire a costruire il giusto approccio rispetto al tema della speranza cristiana, tema al quale faccio più volte riferimento nel libro.
Lei parla con chiarezza, nel solco del magistero di papa Benedetto XVI, di una necessaria «sana laicità». Quale sarebbe la laicità malata?
Una laicità che degenera in laicismo. Una laicità che mortifica il bisogno di trascendenza, fino a relegarlo nelle retrovie dell’esperienza umana. Che non ne riconosce la legittimità. Una laicità che non consente la formazione e, soprattutto, la maturazione di chiavi interpretative rilevanti sotto il versante della morale. Se non vogliamo istituzionalizzare l’individualismo e l’egoismo umano, dobbiamo accettare che la Chiesa, in quanto comunità di valori, eserciti il suo diritto-dovere di testimonianza sociale.
Il libro è impreziosito da una vibrante prefazione del cardinal Paul Poupard. Una delle parole che ritorna con più insistenza è «dialogo». Cosa significa oggi dialogare tra culture e religioni?
Significa innanzitutto conoscere e conoscersi meglio. Le religioni hanno sostituito le ideologie, che sono state, anche con effetti devastanti per l’umanità, le vere protagoniste del ventesimo secolo. Occorre andare oltre ogni possibile pregiudizio, ragionando senza emozionalità, senza soluzioni stereotipate. Le religioni, se vissute tenendo lontani fanatismi e integralismi, possono essere ponti solidissimi e straordinari per traghettare persone, idee, pensieri, manifestazioni tangibili di un rinnovato umanesimo. Servono i ponti, non le strade e le autostrade, se vogliamo che il multiculturalismo, anche grazie al dialogo interreligioso, diventi interculturalismo.
Prendendo liberamente spunto da alcuni passaggi del libro, le chiediamo in modo un po’ impertinente: a cosa servono i giornalisti in tempi, come i nostri, di relativismo, di informazione spesso truccata, di molte opinioni e di nessuna verità?
Mi sembra che la sua domanda, pur stimolante e interessante, ecceda in pessimismo. Il relativismo culturale ed etico viaggia di pari passo con la centralità che nella postmodernità ha assunto la comunicazione, specie se essa sostituisce quasi completamente le tradizionali forme di acquisizione della conoscenza umana. Tuttavia sarebbe sbagliato, almeno a mio avviso, affrontare il problema seguendo la logica dei giudizi omologanti. I giornalisti servono a ricercare la verità, a dare notizie, a far prendere atto della realtà quando essa non è percepibile attraverso l’esperienza diretta. Servono a controllare che la democrazia, specie se complessa (qual è quella che viviamo nella società «a rete»), funzioni al meglio. I giornalisti servono anche a segnalare valori e disvalori. Certo non sempre la verità viene a galla, non sempre si riesce a fermare l’assedio della soggettività all’obiettività, ma oggi barare è più difficile che in passato: il pubblico è più avveduto di quanto si creda e nell’era della personal communication nascondere qualcosa è impresa davvero ardua.
In conclusione, quali sono i «buoni propositi» di Francesco Giorgino?
Associare agli atti di coraggio atti di coerenza. Io in questo libro ci provo, con molta umiltà ma con altrettanta determinazione. Ci provo nella consapevolezza che, come dice John Galbraith, coloro che si credono intensamente impegnati a riflettere in privato di solito non stanno facendo nulla. Nulla di buono.
Chi è Giorgino
Francesco Giorgino, nato ad Andria (Bari) nel 1967, è giornalista professionista dal 1991. Attualmente conduce l’edizione delle 13.30 del Tg1, dove ricopre l’incarico di vice caporedattore della redazione cronaca.Dal 2001 è docente presso la facoltà di Scienze della comunicazione dell’università «La Sapienza» di Roma, dove insegna Teorie e tecniche del newsmaking. Svolge attività di ricerca nell’ambito della sociologia del giornalismo.
Buoni propositi. I cattolici nella società postmoderna, (Emp, 2007, euro 10,00), è il suo settimo libro. Ha pubblicato inoltre: Intervista alla Prima Repubblica (1993), L’un contro l’altro armati (1994), Gli eredi di Sturzo (1995), Dietro le notizie: il mondo raccontato in sessanta righe e novanta secondi (2004) con Mursia editore; Giornalisti agli arresti redazionali? (2005) e Buone notizie. Ricerca quanti-qualitativa su selezione, gerarchia e trattamento delle good news nei media italiani e stranieri (2006) per le Edizioni Kappa.