Tra polenta e kebab
Percorrendo cento metri in una zona qualunque di una grande città, ci si imbatte in due pizzerie, un take away di kebab, un ristorante chic, un locale di sushi e un’«osteria» che espone il menù con i piatti della migliore tradizione locale. Sulla qualità di ciascuno non garantiamo, sulla varietà sì. Ognuno di essi ha una clientela affezionata e «mangiatori» curiosi che possono entrare una volta qui e una là. Le nostre cene fuori casa diventano sempre più varie, l’offerta stimola la curiosità della domanda. Piatti tradizionali del Sud che emigrano a Nord e viceversa, ristoranti di cucina regionale che hanno successo in regioni diverse da quella d’origine, spostamenti di decine di chilometri per assaggiare quei ravioli o quel formaggio tipici, che si trovano solo in quel posto.
Non solo successo dei locali che riscoprono le tradizioni cittadine o regionali ma un proliferare di ristoranti etnici dove scoprire sapori che una volta si incontravano solo fuori dall’Europa. Tutto è contaminato, eclettico, «glocal»: globale e locale.
«Il cibo una volta era soltanto nutrimento, al massimo piacere del palato – spiega Giampaolo Fabris, il maggior sociologo dei consumi italiano –. Oggi si è arricchito di tutta una serie di valenze come la socialità, il rapporto con la salute, la ricerca dell’inedito, la sperimentazione. Questi significati sono poi fortemente potenziati dal ruolo che la gastronomia ha sui mass media e in televisione».
Anche i numeri dimostrano che l’attenzione al cibo è più grande che in passato: se, a causa della crisi economica, nel 2009 l’industria nel suo complesso è arretrata del 18 per cento, il settore alimentare ha avuto un calo di appena l’1,8 per cento, mentre il consumo di prodotti biologici è addirittura cresciuto.
Sono numeri che riguardano la grande produzione, ma pure quella piccola e media. Il cibo italiano – grazie anche al fenomeno Slow Food che in poco più di vent’anni è diventato ambasciatore nel mondo del nostro stile di vita quasi quanto la moda – rimane una specialità della quale possiamo continuare a vantarci e che aiuta l’economia.
La forza della tradizione
«Con la dieta mediterranea siamo un punto di riferimento nel mondo del mangiare sano e buono – osserva Giampaolo Fabris –. Consumare prodotti del territorio, che non sono frutto di un’agricoltura intensiva ma del rispetto per la biodiversità, è un comportamento che si è decisamente sviluppato negli ultimi anni. Così come sono valori emergenti il recupero del passato, il rallentamento del tempo, l’autenticità, il rapporto con il territorio».
Se riflettere su ciò che mangiamo ha influenzato il nostro modo di andare al ristorante, ci sono grandi ristoratori che hanno fatto un punto d’onore nel mettere la loro abilità al servizio di prodotti locali, di stagione, persino «poveri». L’antesignano e il maggior esponente di questa filosofia in cucina è senz’altro Davide Oldani, 41 anni, uno dei grandi chef italiani della generazione venuta dopo i Gualtiero Marchesi e i Gianfranco Vissani. La sua formazione è stata internazionale e a livelli altissimi: ha lavorato proprio con Gualtiero Marchesi, e poi con Michel Roux del leggendario «Gavroche» a Londra, con Alain Ducasse a Montecarlo. Quando ha deciso di aprire un proprio ristorante in Italia, nel 2003, lo ha fatto a Cornaredo, nella cintura milanese, non in centro città. Ha scelto da subito di cucinare prodotti della zona, di stagione «perché sono prodotti normalmente reperibili – spiega – e perché sono un cuoco: il cuoco è tale perché lavora tutti i prodotti, non solo quelli costosi».
Il riconoscimento è arrivato in fretta: al ristorante di Oldani, il «D’O», oggi bisogna prenotare con quasi un anno d’anticipo per poter gustare, per esempio, la «cipolla caramellata con parmigiano caldo e freddo» o l’«uovo affogato con finocchi, pangrattato e alloro in brodo». Ciò perché da Oldani – il cui ristorante si fregia di una stella Michelin – il prezzo medio di una cena, vini esclusi, si aggira intorno ai 30 euro.
«Anche il consumo etico sta influenzando le proposte gastronomiche» fa notare il sociologo Fabris, che di questo e molto altro parla nel suo nuovo libro, La società post-crescita, edito da Egea. «Adesso ci sono tantissimi operatori del territorio, per esempio dei ristoratori, che fanno del km 0, della filiera corta, del biologico un elemento qualificante della loro proposta gastronomica. Noi siamo alla prima generazione, le strutture sono ancora piccole, ma è una grande tendenza in sviluppo. Un paio d’anni fa ho visitato a Los Angeles uno dei più grandi farmers’ market del mondo, i mercati dove i contadini vendono direttamente i loro prodotti: all’interno, una trentina di ristoranti davano da mangiare prodotti del territorio, piatti buoni e puliti, senza le schifezze che compriamo tutti i giorni».
Il fascino dell’esotico
«L’aumento dei locali etnici – continua Ragusa – non dipende solo dalla maggiore presenza di immigrati. A parte alcune cucine del Sud America, frequentate quasi esclusivamente da connazionali, in genere l’offerta è proprio rivolta agli italiani. Lo rivelano gli ambienti un po’ stereotipati che inducono curiosità e, soprattutto, i sapori proposti, che sono addomesticati rispetto all’origine e più vicini a quello che mangiamo di solito. Pian piano ci stiamo aprendo: nonostante la crisi, si va spesso a mangiare fuori, e la curiosità cresce».
Giampaolo Fabris ha una sua opinione in proposito: «Credo che alla base del fenomeno ci sia una società che sta diventando multietnica. Infatti le cucine etniche di prima generazione sono povere, nate per i primi immigrati arrivati; solo in seguito diventano oggetto di una curiosità venata di esotismo da parte della popolazione locale, un modo per evadere, un aspetto del tempo libero». Il fenomeno esiste, ma come valutarlo? «Io ho un atteggiamento un po’ ambivalente – continua Fabris –: da una parte è giusto che queste cucine si esprimano, ma dall’altro occorre tener presente che sono spesso modi di mangiare meno controllati degli altri».
Quanto alle tradizioni preferite, «il cinese» spopola ancora, magari rivisitato «in versione giapponese»: il sushi è ormai un classico d’Oriente. Il tex mex e il sudamericano in genere riscuotono sempre successo. Capita persino di vedere ristoranti che propongono nell’insegna una cucina «cinese latina» e non si tratta di una stramberia, ma del fatto che in secoli passati si è avuta una forte migrazione di orientali verso il Sud America, la quale poi, a sua volta, è migrata in Italia. La contaminazione che propongono è solo il frutto del loro passaggio in continenti diversi.
Ci si aspetterebbe che siano soprattutto i giovani a frequentare i locali etnici, ma non è esattamente così: «È difficile stabilire una fascia di età, perché questi ristoranti sono molto diversi tra loro – precisa Sara Ragusa –. L’età della clientela può dipendere tantissimo dal locale. In quello cinese si trovano spesso dei giovani, ma nel grande argentino, dove si pagano almeno 40 euro, va una clientela più attempata, che può permettersi di spendere. In realtà, molti ristoranti etnici sono belli, costosi, puntano sull’atmosfera e quindi attraggono anche un pubblico adulto».
Un po’ diverse sono le radici del «fenomeno kebab», più negozietti che ristoranti, locali spuntati come funghi in pochissimi anni, dove ci si vede affettare davanti, in diretta, la carne avvolta intorno a un enorme spiedo per poi addentarla fuori, camminando o chiacchierando sul marciapiede.
«Sicuramente stiamo andando anche noi verso lo “street food”, “il cibo di strada” – osserva ancora la curatrice di Pappamondo –. Milano in particolare è una città abbastanza frenetica e costosa, e le due cose aiutano lo street food, che in genere è a basso prezzo. Per un kebab si spende poco, meno di un panino al bar, si fa un pasto e si mangia velocemente».
Insomma, se la polenta può convivere nel nostro stomaco con il kebab (in momenti diversi, si spera) e le lenticchie di Castelluccio con la churrasca, vuol dire che a tavola, per citare il titolo di un album di Guccini, ormai ci sentiamo piacevolmente collocati «tra la via Emilia e il West». n
Slow Food. La sapienza antica del cibo buono
In Italia si mangia bene: lo sanno in tutto il mondo, anche se si finisce per riassumere
la magnifica varietà delle nostre ricette regionali nel binomio «pasta e pizza». Poi sono arrivati i consensi salutistici internazionali alla nostra «dieta mediterranea». Più di recente, però, spopolano le diete più varie e balorde, enfatizzate dai media di tutto il mondo. In questo caos gastronomico, Slow Food e il suo fondatore, Carlo Petrini, sono riusciti a fare del cibo e del modo di mangiare all’italiana un brand mondiale paragonabile alla moda. Non solo «pasta e pizza», ma un mix ben dosato di valorizzazione di prodotti e ricette locali, di educazione del gusto e di filosofia sulla produzione, l’ambiente e la terra. A poco più di vent’anni dalla nascita a Parigi, Slow Food conta nel mondo 100 mila soci e Carlo Petrini è molto ascoltato da ambienti vicini all’amministrazione Obama, preoccupata di contrastare l’abitudine al cibo spazzatura che fa esplodere obesità e costi sanitari negli Stati Uniti.
Osserva il sociologo Giampaolo Fabris: «Slow Food oggi rappresenta nel mondo una presenza significativa senza che nessuno l’abbia sponsorizzata. “Slow Food” non vuol dire soltanto “mangiare lentamente”, ma mangiare prodotti del territorio, che non siano frutto di un’agricoltura intensiva ma di un’attenzione alla biodiversità». Quel cibo «buono, pulito e giusto» che dà anche il titolo a un libro di Carlo Petrini.
Slow Food ha influenzato la cultura del mangiare anche nel nostro Paese.
410 Condotte (le sedi locali) presenti in Italia indicano altrettanti circoli di appassionati, competenti e persino idealisti gastronomi,
in grado di coinvolgere amici e conoscenti e mantenere, ampliandolo, quel «passaparola» che ha creato il successo del movimento. I ristoranti indicati nella Guida osterie d’Italia, edita da Slow Food, sono considerati per ciò stesso con un pregiudizio favorevole dai clienti. Si conta di mangiare prodotti genuini e specialità locali, ben cucinati, a prezzi ragionevoli.
Queste «osterie», oltre alla cucina del territorio offrono spesso ambienti curati e di gusto, lontani anni luce da certi lussi un po’ cafoni che ammorbano tanti ristoranti ricchi più di pretese che di piatti eccellenti. Rappresentano, insomma, tutto un modo di gustare il cibo e di stare a tavola che soddisfa bocca, portafogli e socialità.
Questo successo non si spiega solo con la sapienza di chi lo ha creato.
È come se il movimento avesse intercettato
un bisogno sotterraneo e una lunga tradizione italiana di equilibrio e armonia. Quella bellezza turistica legata alla diversità e alla diffusione di tanti territori che hanno fatto la nostra storia e il nostro paesaggio, a tavola si è espressa negli innumerevoli sapori che il benessere aveva appiattito nella produzione industriale e seriale. Andando alla scoperta di prodotti e piatti particolari, lavorati secondo sapienze di secoli, in un rispetto della terra e dell’ambiente che fa bene anche alla salute, in realtà ci riappropriamo della nostra identità italiana, impastata proprio di varietà e sfumature.
Questa accresciuta sensibilità a ciò che si mangia rappresenta di fatto un piacere di stare a tavola post-moderno: riscopre il passato con tutte le conoscenze e le esperienze dei tempi d’oggi. Non è questa una caratteristica solo di Slow Food, ma il movimento ha saputo ricreare una sintonia con la terra che si stava perdendo nelle generazioni, contribuendo a conservare quella civiltà del vivere che ci ha reso giustamente famosi nel mondo.
Il libro.
Il cibo è sempre più omologato, di scarsa qualità, prodotto senza rispettare agricoltori e ambiente, ridotto a pura merce. Come riconquistare un rapporto sano ed equilibrato con la terra?
Carlo Petrini,Terra Madre, Giunti/Slow Food editore, pagine 173 con Dvd, € 12,00.