Tragico laboratorio

Quali sporchi interessi hanno messo l’uno contro l’altro popoli abituati a convivere? Nella tragedia dei «Grandi Laghi» anche la pista dell’oro?
04 Gennaio 1997 | di

Al centro dell'Africa nera, nella regione dei Grandi Laghi che già  evoca immagini di paesaggi da sogno, ci sono i piccoli stati del Ruanda e Burundi. Terre fertili e clima mitigato dall'altopiano hanno favorito una concentrazione di popoli e offrirebbero condizioni ideali se non fosse per lo scatenamento dei contrasti etnici.

Gli storici africani dicono che gli hutu, abitanti di più vecchia data e agricoltori, avevano convissuto con i tutsi, pastori-guerrieri scesi nel XIII secolo dal Nord - che noi una volta chiamavamo vatussi - , senza eccessivi problemi sino alla vigilia dell'indipendenza, ottenuta nel 1962. Da allora gli scontri etnici si sono moltiplicati, precipitando nella tragedia degli ultimi anni, segnata dal tentativo di genocidio nei riguardi dei tutsi e nelle successive ondate di profughi hutu dopo la reazione armata dei tutsi. Ora la situazione sembra essersi stabilizzata in un precario equilibrio che richiede l'impegno di tutti per sfociare in vera pace di riconciliazione.

Nel dramma dei popoli dei Grandi Laghi sono concentrati tutti gli elementi che provocano e attizzano i conflitti etnici in tante parti del mondo: il vero e più grave problema di questi ultimi anni di secolo e di millennio. Proviamo a individuarne alcuni. I popoli di Ruanda e Burundi, siano essi tutsi oppure hutu, parlano la stessa lingua e hanno una cultura affine, mentre la contrapposizione etnica è stata fomentata e amplificata da capi e gruppi armati ristretti che se ne sono serviti per imporre sulla maggioranza il dominio di regimi autoritari, per lo più militari. Su questo elemento locale si è poi inserita la rivalità  fra le potenze mondiali. Terminata la contrapposizione epocale Est-Ovest, che però qui non ha mai inciso molto, si è sostituita una più velata ma non meno reale concorrenza egemonica tra Francia - quale erede in versione aggiornata di un grande impero - e Usa, che contiene motivi cultural-linguistici (la divisione fra Africa che parla francese e Africa che parla inglese), economici e politico-militari.

Più volte parà  francesi sono sbarcati dal cielo per puntellare le traballanti armate degli estremisti hutu, mentre il capo militare carismatico dei tutsi, il ruandese Paul Kagamé, ha seguito corsi di addestramento alla base militare Usa di Fort Leavenworth. Accanto alle potenze extra africane, giocano un ruolo deteminante anche gli stati confinanti: l Uganda che parla inglese a fianco dei tutsi ruandesi, e il francofono Zaire del dittatore Mobutu a sostegno degli hutu.

Una volta iniziata la guerra etnica, alle interferenze delle grandi potenze o di quelle regionali si sono aggiunti gli sporchi affari dei commercianti e produttori di armi, che ovviamente tendono a far perpetuare i conflitti. Ultimo ma non minore elemento, quello dello sfruttamento economico.

All'inaugurazione del vertice Fao sull alimentazione che lo scorso novembre ha riunito a Roma un centinaio di statisti da tutto il mondo, il nostro presidente Scalfaro, con la passione morale che lo anima, ha esclamato con chiaro riferimento alla tragedia della zona dei Grandi Laghi: «C'è qualcuno che aspetta la fine delle stragi per tirare le fila degli interessi economici?».

Il giornalista Roberto Cavallari ha puntato il dito sulla cosiddetta «pista dell'oro» che passa attraverso il Burundi e fa gola a molti potentati economici. Secondo la sua inchiesta, il Burundi sarebbe il crocevia dei commerci e dei traffici di oro, pietre preziose e minerali provenienti da Uganda e Zaire. Oro che una società  belga raffina poi in una zona franca, istituita presso la capitale Bujumbura. Un giro di affari che giustifica colpi di stato e l'assassinio di statisti che volevano vederci chiaro nella vicenda.

È stato detto che la tragedia dei Grandi Laghi colpisce anche, dal suo interno, la chiesa cattolica, che sia in Ruanda che in Burundi è la chiesa della maggioranza delle popolazioni. Ci sono stati purtroppo coinvolgimenti di ecclesiastici e laici nei dissidi etnici. È grave che genti che si dichiarano cristiane, seguaci della parola di fratellanza del vangelo, cedano poi ai venti e alle psicosi della discordia razziale. Ma molti sono stati anche i testimoni, i nuovi martiri dalle fila della chiesa. Due vescovi: il primate della chiesa in Burundi, monsignor Ruhuna, che aveva paragonato i responsabili di genocidio a Caino, «assassini che errano come figli maledetti»; e in Zaire l'arcivescovo di Bukavu, monsignor Munzihirwa, il difensore dei profughi. Tanti sacerdoti e laici, fra cui i missionari saveriani italiani, padre Marchiol e padre Maule, e la laica Katina Gubert.

Ora, cristiani impegnati sono in prima fila per riannodare il dialogo inter-etnico e avviare la difficile riconciliazione. Citeremo solo il centro Kamenge aperto dai saveriani in un quartiere della capitale burundese già  dilaniato dai conflitti, dove giovani tutsi e giovani hutu imparano a vivere e a crescere insieme. Mentre la Caritas italiana ha lanciato sin dall'ottobre la campagna «Grida Burundi», per cooperare agli aiuti e alle soluzioni.

Abbiamo, dunque, visto che i piccoli paesi di Ruanda e Burundi sono stati il tragico laboratorio della guerra etnica, con tutti i suoi compositi elementi, che vanno affrontati uno ad uno per estinguerla. Oggi però la situazione si sta aprendo alla speranza più che in altri luoghi, dove la riconciliazione tarda a venire. Nella zona dei Grandi Laghi i profughi, a differenza della Bosnia dove continuano a essere respinti, sono ritornati e sono stati accolti. Da noi si attende un grande slancio di solidarietà , per facilitare il difficoltoso inserimento. Rimangono interrogativi sulle condizioni politiche, per la presenza nel vicino Zaire da dove tornano i rifugiati di uno dei più longevi dittatori africani, Mobutu Sese Seko.

Il processo di pacificazione, che sarà  lungo e complesso, richiede stabilità , e la vera stabilità  può venire solo dalla democratizzazione dei regimi africani. Più in profondo: dalla riconciliazione degli animi.

Il problema dei rifugiati

Quale soluzione?

Lo abbiamo chiesto a Pascal Firmin Ndimira, primo ministro del Burundi e al suo collega ruandese, Pierre Celestin Rwigena. Le loro risposte.

· Il Burundi ha 5,5 milioni di abitanti: hutu 80 per cento, tutsi 18 per cento; profughi: circa 1 milione, fra profughi interni e fuori dalle frontiere.

Ndimira: «L'unica soluzione durevole consiste nel reinserimento di tutti i profughi; e quando non riusciamo a farli ritornare nei loro luoghi di origine, creiamo dei campi il più possibile vicini a questi luoghi. Circa 250 mila vivono attualmente nei campi: ma si tratta, ovviamente, di una situazione transitoria, che va superata con l'aiuto dell'assistenza umanitaria».

· Il Ruanda ha 7,5 milioni di abitanti: 85 per cento hutu, 14 per cento tutsi; profughi: 1 milione e mezzo-2 milioni, in maggioranza sulla via del ritorno.

Rwigena: «La nostra popolazione vive quasi esclusivamente di agricoltura, e con la guerra c'è stato un crollo nelle coltivazioni. Ora però stiamo riprendendo, anche se con le nostre forze riusciamo a far fronte solo al 62 per cento dell'alimentazione. Per questo abbiamo bisogno dell'aiuto umanitario, non di interventi armati».

Come fate a reinserire i profughi che tornano, specie se le loro abitazioni, come spesso accade, sono state occupate da altre famiglie?

Rwigena: «Abbiamo consumato molto tempo per stabilire le modalità  giuridiche del reinserimento, ma ora agiamo con notevole efficacia: nel giro di due settimane riusciamo a reinstallare i profughi in forma decente».

Quando prevede di risolvere definitivamente il problema dei profughi?

Rwigena: «Ci siamo dati un obiettivo Duemila. Sembra molto, ma io sono stato in Germania, e ho visto che anche in un paese così sviluppato c'è voluto tempo per il reinserimento completo di milioni di profughi».

Cosa avverrà  dei tutsi bagnamulenghe che vivono in Zaire e sono stati i vostri alleati?

Rwigena: «Il loro paese è lo Zaire, dove vivono da duecento anni; il loro posto è in uno Zaire democratico e delle autonomie. Solo se li vedessimo minacciati da un altro genocidio chiederemmo la loro annessione al Ruanda, ma questo non è il nostro programma, sarebbe solo la soluzione per mali estremi». V.O.

Conflitti razziali

La ricetta Sant'Egidio

A colloquio con Mario Marazziti della comunità  romana da tempo impegnata a far da paciere nei conflitti in corso. Con il Mozambico c'è riuscita. E ora?

La comunità  di Sant'Egidio, sorta nel 1968 a Roma da un gruppo di giovani del liceo Virgilio che si riunivano a leggere assieme il vangelo, per metterlo in pratica, con gli anni ha moltiplicato i suoi impegni ed è diventata famosa per la sua capacità  a far da paciere nei conflitti, soprattutto africani, là  dove la diplomazia degli stati si è rivelata impotente. Il suo capolavoro è stato la pace in Mozambico, seguita da libere elezioni fra gli ex contendenti, nel 1994. A uno dei fondatori della comunità , Mario Marazziti, abbiamo chiesto qual è il segreto del «metodo Sant'Egidio».

Marazziti: «Innanzitutto un gran lavoro di prevenzione, con strumenti adeguati, prima che le crisi precipitino. È questo il settore più scoperto; è clamoroso il caso della crisi dei Grandi Laghi, dopo quello della Bosnia, dove la presenza di monitoraggio a livello internazionale (Onu, Unione europea) non ha portato a esiti tempestivi e adeguati. Secondo punto: parlare con tutte le parti in conflitto, senza mettere come precondizione di risolvere le situazioni di ingiustizia. È ben vero che ogni conflitto è generato da situazioni di ingiustizia, ma abbiamo appreso che la cosa più importante è avviare il dialogo con e fra tutti, senza discriminazione o veti, in quanto ci sono i 'cattivi', gli estremisti, all'interno di ogni parte, e sovente i 'cattivi' di oggi erano i 'buoni' di ieri e viceversa, come il Ruanda e il Burundi insegnano. Sant'Egidio non ha nulla, per suo conto, da offrire, se non questo metodo di ragionevolezza e ascolto, questa possibilità  di iniziare a parlare in maniera non impegnativa dal punto di vista diplomatico, ma in forma autentica. I suoi punti di forza sono proprio la sua apparente debolezza, il non avere strumenti mondani di pressione, o interessi diretti da difendere, ma solo una forte credibilità . Ad esempio, dopo la pace in Mozambico non investiamo e non guadagniamo in quel paese. Infine, a Sant'Egidio c'è una sintesi di conoscenze culturali, religiose e umane non del tutto comune, l'abitudine a muoversi all'interno della complessità ».

Ma esistono casi irrisolvibili malgrado la buona volontà ? Penso alla Somalia, all'Algeria, dove pure voi vi siete impegnati ma senza risultati tangibili.

«Ci sono quando gli errori accumulati diventano troppi e i costi della pace appaiono 'troppo alti' per il benessere del 'grande nord' del mondo».

Che fare in questi casi?

«Investire comunque nella pace, perché è anche più economico - se vogliamo usare questa categoria così cara al nostro Occidente - che dover cancellare interi paesi dalle carte geografiche, farli diventare quelle che una volta erano le terrae incognitae dove nessuno può più entrare con la speranza della propria sicurezza. L'unico costo veramente insostenibile sono le centinaia di migliaia di persone in fuga dalla guerra e dalla fame in tante parti del nostro pianeta».

V.O.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017