Trascendenza, fonte di dignità e diritti
ROMA
Tra le scelte significative del primo anno di pontificato di Benedetto XVI, c’è quella di porre il Pontificio Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti sotto la guida del cardinale Renato Raffaele Martino che è altresì presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace.
Segafreddo. Eminenza, cosa significa essere alla guida di due Consigli così importanti?
Martino. La decisione di Benedetto XVI di riunire in un’unica persona, in questo caso la mia, le presidenze dei due Consigli non rivela una diminuita considerazione di questi ultimi, ma proprio il contrario. L’immensa tematica della mobilità umana chiama a una riflessione approfondita e a un impegno rafforzato nella tutela dei diritti dell’uomo. In questo la dottrina sociale della Chiesa, che nell’azione del Pontificio Consiglio per la Giustizia e per la Pace trova uno dei suoi principali strumenti, si sposa con la pastorale della mobilità umana e offre alle strutture e alle comunità locali, dalle Conferenze episcopali alle singole diocesi fino alle parrocchie, un prezioso contributo di indirizzo e di unità. In questo può risultare utile una guida comune ai due Consigli che mantengono comunque intatti i propri compiti e le proprie strutture.
Sembrano motivazioni già presenti nel Messaggio per la Giornata del Migrante e del Rifugiato dello scorso 15 gennaio, il primo firmato da Benedetto XVI.
Sì, è vero. Benedetto XVI sottolinea che il fenomeno delle migrazioni «ha assunto una configurazione, per così dire, strutturale, diventando una caratteristica importante del mercato del lavoro a livello mondiale, come conseguenza, tra l’altro, della spinta poderosa esercitata dalla globalizzazione», e si sofferma in particolare su alcuni aspetti come la condizione, spesso drammatica, della donna migrante, chiedendo un impegno per «il suo giusto trattamento, il rispetto della sua femminilità, il riconoscimento dei suoi uguali diritti». Parlando poi del traffico di esseri umani, il Papa ribadisce la condanna contro «la diffusa cultura edonistica e mercantile che promuove il sistematico sfruttamento della sessualità». Sui richiedenti asilo e sui rifugiati, invita ad interrogarsi «sulle ragioni del loro fuggire dal Paese d’origine». Infine, sottolinea l’importanza del fenomeno degli studenti esteri come occasione di arricchimento spirituale e di slancio pastorale per l’intera comunità ecclesiale.
Tra questi temi, spicca quello della crescente dimensione dello sfruttamento della donna nella prostituzione. Come deve operare la Chiesa di fronte a questa forma di schiavitù moderna?
Lo sfruttamento sessuale, la prostituzione e il traffico di esseri umani sono atti di violenza contro le donne, e costituiscono un’offesa alla loro dignità e una grave violazione dei diritti umani fondamentali. Proprio il Consiglio per la Pastorale dei Migranti e degli Itineranti, già lo scorso anno, sotto la guida dell’allora Presidente, cardinale Stephan Fumio Hamao, e del tuttora segretario, l’arcivescovo Agostino Marchetto, aveva dedicato un incontro internazionale su tale dramma, ponendo in rilievo l’urgente necessità di un’azione pastorale in sinergia, per superare l’attuale difficoltà delle strutture ecclesiali a fronteggiarlo. Le Conferenze Episcopali dei Paesi coinvolti devono assumere la responsabilità di denunciare questa piaga sociale e di promuovere rispetto, comprensione, compassione e un atteggiamento di astensione dal giudizio – nel giusto senso – verso le donne cadute nella rete della prostituzione. Servono scuole e parrocchie che forniscano programmi educativi e si debbono formare gli operatori pastorali. Occorre rafforzare una «rete» tra tutti i gruppi impegnati in questo campo, vale a dire i volontari, le associazioni, le Congregazioni religiose, le Organizzazioni non governative (Ong), i gruppi ecumenici e interreligiosi. È chiaro, comunque, che lo sfruttamento sessuale ormai pervasivo del tessuto sociale, è conseguenza di molti sistemi ingiusti. Dirò di più: l’aspetto macroscopico di tale ingiustizia è prodotto dalla sempre maggiore forbice tra Nord ricco e Sud devastato del mondo.
Sembra evidente che tra migrazioni e traffico di esseri umani si sia costituito un legame perverso.
Quanti emigrano per far fronte a necessità di vita, e le vittime del traffico di esseri umani condividono molti aspetti di vulnerabilità. Il legame tra migrazione, diritti e traffico di esseri umani è stato scoperto gradualmente e sono state riconosciute e analizzate forme più ampie di traffico, come vincoli da debito, schiavitù, sfruttamento sessuale o di lavoro. Il «Protocollo delle Nazioni Unite per la prevenzione, la soppressione e la punizione del traffico di persone, specialmente di donne e bambini» e la Convenzione del Consiglio d’Europa sull’azione contro il traffico, lo considerano grave violazione dei diritti umani. Ciò detto, esistono anche rilevanti differenze. Gli sforzi per contrastare il traffico di persone non devono tradursi in ostacoli al desiderio di donne – spesso lasciate nei debiti e senza lavoro dalle politiche di macrosviluppo – di emigrare per migliorare la propria vita e quella delle loro famiglie.
Qualche mese fa, presentando a Siena il volume L’Europa di Benedetto, scritto dal cardinale Joseph Ratzinger, lei sottolineava il pericolo che, riguardo alla questione sociale, finissero per prevalere visioni strumentali – lei disse «tecnologiche» – e non l’aspetto antropologico.
Ritenevo e ritengo opportuno, per un’adeguata comprensione storica e culturale non solo di quel volume, ma del magistero di Benedetto XVI così come va delineandosi – compresa la questione della «dittatura del relativismo» – collegarlo nella continuità con l’Enciclica Centesimus annus, scritta da Giovanni Paolo II nel 1991. Dopo gli eventi del 1989, l’Enciclica affrontava in via «preventiva» la questione sociale della nuova epoca appena iniziata e ne faceva una lettura teologica: il totalitarismo nasce dalla volontà di togliere Dio dal cuore dell’uomo, l’intero sviluppo va ripensato a partire dalla «questione dell’uomo davanti a Dio». Oggi, siamo già in fase consuntiva. La storia di questi anni ci dice che in un mondo liberato dalla camicia di forza delle ideologie e della politica dei blocchi, si sono sprigionate minacce all’identità dell’uomo più ancora che in passato. Si sono aperti spazi di libertà e di recupero religioso, ma anche spazi per il nichilismo allo stato puro. Il nichilismo, che in passato si era espresso mediante ideologie distruttrici, ora si esprime mediante la pura tecnica.
Si sta passando ad una nuova mercificazione dell’essere umano?
Sì, c’è questo pericolo, anzi purtroppo questa tendenza. Assolutizzare nichilisticamente la tecnica significa fare dell’uomo un «prodotto». Emerge quindi con forza la questione antropologica, in quanto bisogna ribadire culturalmente che l’uomo «non è un prodotto». La questione antropologica è anche oggi la questione sociale per eccellenza e viceversa. La versione nichilistica della tecnica fa dell’uomo un prodotto storico e culturale, recidendo il nesso con la natura e con la tradizione, oltre che con la creazione. Il terrorismo, una concezione tecnica della politica, la laicità, o meglio il laicismo inteso come luogo neutro da valori e assoluti, la democrazia solo come procedura, la finanziarizzazione dell’economia, il relativismo delle culture, la tecnicizzazione del diritto e dei diritti umani, sono nuovi assoluti negativi.
Lei sottolineava anche la strettissima correlazione, stabilita dal cardinale Ratzinger, tra politica e verità. Può approfondire questo concetto?
Mi pare che occorra interrogarsi su quali basi avviare l’impegnativa impresa di ricostruire la grammatica della convivenza sociale e politica. Questo termine, grammatica, è stato adoperato da Giovanni Paolo II nel famoso discorso rivolto all’Assemblea generale dell’Onu nel 1995 per definire una verità dell’uomo e un’autenticità delle relazioni umane fondate sul bene, che dovrebbe essere punto di riferimento normativo per le relazioni umane. Rispetto a questa grammatica non è possibile alcuna neutralità, né dei singoli, né degli Stati o della Comunità internazionale. Scambiare la neutralità ideologica dello Stato di diritto con la sua presunta neutralità etica sarebbe agnosticismo. Il cardinale Ratzinger afferma che l’esito naturale di questo agnosticismo è la disponibilità verso il più forte. Anche lo Stato di diritto non deve essere neutrale rispetto ad una grammatica che attesta come gli uomini non siano un mucchio di cose, ma esseri in relazione tra loro in vista di un bene comune.
La libertà religiosa è una garanzia del nesso tra organizzazione politica e libertà?
Una garanzia primaria, direi. Se è nella dimensione trascendente della persona che si trova la fonte della sua dignità e dei suoi diritti inviolabili, allora la libertà di religione garantisce che i diritti umani non siano collocati sulla sabbia di mutevoli convenzioni. Per questo motivo, il rispetto da parte dello Stato del diritto alla libertà di religione è segno del rispetto degli altri diritti umani fondamentali, perché supera la dimensione politica dell’esistenza. Purtroppo, anche nei Paesi democratici e liberali, il diritto alla libertà religiosa non è sempre rispettato nella sostanza. Questo chiama in causa la questione dell’autorità che dovrà essere pensata e articolata in modo nuovo, più orizzontale e flessibile, con una maggiore coerenza al principio di sussidiarietà, e una capacità del tutto nuova nel governo della complessità se vogliamo vincere le dinamiche centrifughe della società di oggi, e sviluppare invece dinamiche aggreganti e solidali.