Trasmettere la storia
Arrivato mezzo secolo fa a Vancouver, con i genitori e le due sorelle, oggi rievoca quelle esperienze di vita che hanno caratterizzato il suo percorso umano e professionale. E si raccomanda: raccontate la vostra vicenda a figli e nipoti.
11 Ottobre 2011
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Il professor Francesco Loriggio è una specie di libro aperto su un percorso di vita esemplare. Trasmette il desiderio di conoscere meglio e di più, comunica idee originali, e indica traguardi tuttora conseguibili. Da Ottawa, dove vive, e dove per decenni è stato docente alla Carleton University, viene periodicamente a Vancouver in visita alle sorelle Mattea Dalessandro e Rosa Citton, e alle rispettive numerose famiglie. Qui incontra anche qualche amico dei tempi della scuola e del gioco del calcio, quando non era ancora stato quasi totalmente assorbito dagli impegnativi studi all’Università della British Columbia per conseguire la laurea in Lettere, e alla University of California per perfezionarsi in italiano. «Ci volle del tempo per assuefarmi alla solitudine richiesta dal lavoro intellettuale – rammenta oggi –. Con la partenza per Los Angeles, la separazione dalla famiglia e dal mondo di Commercial Drive (all’epoca, cuore della comunità italiana, ndr), ebbi a riflettere sulla lontananza e sull’assenza, e mi venne in mente di collegare l’intera esperienza universitaria all’emigrazione. Avevo intrapreso un secondo esodo».
«In che senso?» gli chiedo. «Appartengo – prosegue – a quella generazione, cresciuta nel secondo dopoguerra, che è diventata adulta negli anni Sessanta del secolo scorso. Tra gli italocanadesi, quelli come me costituiscono un gruppo ancora più ristretto, non avendo noi scelto di emigrare in Canada, come invece hanno fatto i nostri genitori; e non essendo noi nati qui, come lo sono i nostri figli. Il mio percorso personale non è, probabilmente, molto diverso da quello di tanti altri emigranti della mia generazione che si sono trovati in Canada nello stesso periodo, eccetto che per un dettaglio: io, a un certo punto, cominciai a frequentare l’università, cosa a quell’epoca ancora abbastanza insolita tra gli emigranti, e soprattutto tra quelli italiani. Ma se da un lato gli studi e la carriera ebbero come effetto quello di allontanarmi dalla famiglia e da Vancouver, perché, per motivi professionali, mi sono poi stabilito a Ottawa, da un altro lato mi hanno avvicinato a quello che è stato l’itinerario dei miei genitori».
Da Vibo Valentia
a Vancouver
Per quanto riguarda la terra natia, il professor Loriggio racconta di aver attraversato l’Italia in lungo e in largo, nel corso degli anni, portando con sé immagini diverse di epoche, luoghi e persone.
«Ma il nocciolo della questione – precisa – è sempre stato l’Italia dell’infanzia. Noi siamo di Vibo Valentia, in Calabria. I miei erano proprietari di un piccolo podere a ridosso del municipio. I ricordi più remoti mi restituiscono scene di una campagna quasi cittadina: visioni di terre coltivate e di terre brade, una convivenza di fauna e flora, di esseri umani, ma accanto al mondo civile, con il cinema, il giornalaio, i negozi a portata di mano. A volte mi pare che, sia sul piano privato che professionale, io non abbia fatto altro che cercare di capire cosa possa voler dire essere stato contadino e meridionale durante gli anni Cinquanta del secolo scorso, nel bene e nel male, in modo da poter infine tirare le somme, e determinare ciò che va cancellato per sempre, e ciò che sarebbe possibile – e forse auspicabile – recuperare».
E la Vancouver degli anni Cinquanta? «La città di oggi – osserva Loriggio – è una bellissima metropoli cosmopolita, di eccezionale vivibilità, nonostante l’ampiezza della superficie, quasi ai limiti del sostenibile, e sempre in espansione. Nella Vancouver della mia adolescenza, l’edificio più alto era l’Hotel Vancouver, che ora è sovrastato da una selva di grattacieli che lo circondano, tanto da non essere più distinguibile. Non cambierei la città di allora, che era abbastanza provinciale, con quella di oggi. Ma nella Vancouver di cinquant’anni fa c’era molto più verde e molto meno cemento. Era più a misura d’uomo».
Con una punta di nostalgia, Loriggio aggiunge: «Non credo ci sia, a Vancouver, un parco con le apposite attrezzature, che io non abbia conosciuto. Quando mi capita di girare in automobile per la città, i miei figli e mia moglie mi fanno notare che indico i campi di calcio con fin troppa compiacenza». La moglie di Loriggio, Anne-Marie Demers, è «una quebecchese di Montréal, italofila e italofona»; i loro figli sono il trentenne plurilaureato Vanni, la cui vocazione sono il disegno e i fumetti, e la ventottenne Paola, giornalista della «Canadian Press New Agency», sede di Toronto.
«Tutti parlano italiano, inglese e francese – ci informa Loriggio, con orgoglio –. Ritorno volentieri con loro nei luoghi in cui ho vissuto, e con il tempo l’esercizio della memoria, anch’esso una tendenza di solito associata agli emigranti, è diventato, per me, un’irrinunciabile consuetudine».
Viene spontaneo chiedere al professore se egli abbia mai chiesto a suo padre le ragioni della scelta di emigrare. E Loriggio risponde: «Mio padre era un piccolo proprietario. Quindi non aveva il bisogno impellente che, magari, avevano altri conterranei suoi coetanei. Anche nei momenti difficili dell’immediato dopoguerra non abbiamo mai patito la fame. Per lui non era ipotizzabile, nella Calabria degli anni Cinquanta, nessuna pur minima mobilità sociale, né nell’immediato, né nel futuro. Non saremmo, altrimenti, emigrati tutti insieme, dopo aver venduto casa e podere. Tagliando, cioè, i ponti. È interessante rilevare che i contadini che emigravano all’inizio del Novecento, partivano principalmente per poter poi rientrare, e per comprarsi un loro pezzo di terra. E non importa se molti abbandonarono l’idea per strada. Ho l’impressione che i contadini, come mio padre, non ne volevano più sapere della campagna, della terra che aveva sì procurato loro i beni primari, ma nient’altro. Con molta probabilità, non furono estranei alla sua decisione il mito dell’America e il servizio militare; l’aver avuto, durante la Seconda guerra mondiale, un primo, veloce contatto con il mondo metropolitano al di là della Calabria».
Un messaggio
per i giovani
Ho chiesto al professor Loriggio di lanciare un messaggio ai giovani, ma anche a genitori e nonni. «La storia, la storia, la storia! – esclama –. Sapere da dove si viene e perché. Senza tramutare la memoria in ossessione. La storia italocanadese si dipana su due binari: sorvolare sull’uno o sull’altro la mutilerebbe. Mi spiego meglio: con un canadese di un’altra origine etnica, è la mia italianità che dovrebbe risaltare; con un italiano, invece, la mia canadesità. Ecco perché avere la Rai, in casa, a Montréal, a Toronto o a Vancouver, è stato un enorme progresso. Ma sarebbe un progresso ancora più grande se ci fosse una reciprocità, se l’informazione sulla comunità italocanadese, fatta da fonti italocanadesi, arrivasse in Italia».
Una maggiore consapevolezza storica, da parte degli italocanadesi, dissiperebbe, forse, alcuni degli equivoci che aleggiano sulle relazioni all’interno della famiglia. «La mia generazione – precisa –, quella di chi è approdato giovanissimo in Canada, ha avuto un potere eccezionale di fronte ai propri genitori. Siamo stati i loro ministri degli esteri, i loro traduttori, i loro mediatori con la realtà non-italiana. Come risultato, per certi versi, i ruoli sono stati rovesciati: noi siamo stati via via i genitori dei nostri genitori. I nonni? Le nonne? Sono i depositari di tante storie. Dovrebbero approfittare del fatto di non essere i genitori dei nipoti, e raccontare. Mi auguro che le loro narrazioni possano non essere solo racconti di successi o fallimenti. Sono un laico, ma riconosco l’importanza delle virtù teologali: vorrei che in ciò che viene raccontato alle nuove generazioni ci fosse posto per la carità, oltre che per la fede e la speranza». (1 – Continua)
«In che senso?» gli chiedo. «Appartengo – prosegue – a quella generazione, cresciuta nel secondo dopoguerra, che è diventata adulta negli anni Sessanta del secolo scorso. Tra gli italocanadesi, quelli come me costituiscono un gruppo ancora più ristretto, non avendo noi scelto di emigrare in Canada, come invece hanno fatto i nostri genitori; e non essendo noi nati qui, come lo sono i nostri figli. Il mio percorso personale non è, probabilmente, molto diverso da quello di tanti altri emigranti della mia generazione che si sono trovati in Canada nello stesso periodo, eccetto che per un dettaglio: io, a un certo punto, cominciai a frequentare l’università, cosa a quell’epoca ancora abbastanza insolita tra gli emigranti, e soprattutto tra quelli italiani. Ma se da un lato gli studi e la carriera ebbero come effetto quello di allontanarmi dalla famiglia e da Vancouver, perché, per motivi professionali, mi sono poi stabilito a Ottawa, da un altro lato mi hanno avvicinato a quello che è stato l’itinerario dei miei genitori».
Da Vibo Valentia
a Vancouver
Per quanto riguarda la terra natia, il professor Loriggio racconta di aver attraversato l’Italia in lungo e in largo, nel corso degli anni, portando con sé immagini diverse di epoche, luoghi e persone.
«Ma il nocciolo della questione – precisa – è sempre stato l’Italia dell’infanzia. Noi siamo di Vibo Valentia, in Calabria. I miei erano proprietari di un piccolo podere a ridosso del municipio. I ricordi più remoti mi restituiscono scene di una campagna quasi cittadina: visioni di terre coltivate e di terre brade, una convivenza di fauna e flora, di esseri umani, ma accanto al mondo civile, con il cinema, il giornalaio, i negozi a portata di mano. A volte mi pare che, sia sul piano privato che professionale, io non abbia fatto altro che cercare di capire cosa possa voler dire essere stato contadino e meridionale durante gli anni Cinquanta del secolo scorso, nel bene e nel male, in modo da poter infine tirare le somme, e determinare ciò che va cancellato per sempre, e ciò che sarebbe possibile – e forse auspicabile – recuperare».
E la Vancouver degli anni Cinquanta? «La città di oggi – osserva Loriggio – è una bellissima metropoli cosmopolita, di eccezionale vivibilità, nonostante l’ampiezza della superficie, quasi ai limiti del sostenibile, e sempre in espansione. Nella Vancouver della mia adolescenza, l’edificio più alto era l’Hotel Vancouver, che ora è sovrastato da una selva di grattacieli che lo circondano, tanto da non essere più distinguibile. Non cambierei la città di allora, che era abbastanza provinciale, con quella di oggi. Ma nella Vancouver di cinquant’anni fa c’era molto più verde e molto meno cemento. Era più a misura d’uomo».
Con una punta di nostalgia, Loriggio aggiunge: «Non credo ci sia, a Vancouver, un parco con le apposite attrezzature, che io non abbia conosciuto. Quando mi capita di girare in automobile per la città, i miei figli e mia moglie mi fanno notare che indico i campi di calcio con fin troppa compiacenza». La moglie di Loriggio, Anne-Marie Demers, è «una quebecchese di Montréal, italofila e italofona»; i loro figli sono il trentenne plurilaureato Vanni, la cui vocazione sono il disegno e i fumetti, e la ventottenne Paola, giornalista della «Canadian Press New Agency», sede di Toronto.
«Tutti parlano italiano, inglese e francese – ci informa Loriggio, con orgoglio –. Ritorno volentieri con loro nei luoghi in cui ho vissuto, e con il tempo l’esercizio della memoria, anch’esso una tendenza di solito associata agli emigranti, è diventato, per me, un’irrinunciabile consuetudine».
Viene spontaneo chiedere al professore se egli abbia mai chiesto a suo padre le ragioni della scelta di emigrare. E Loriggio risponde: «Mio padre era un piccolo proprietario. Quindi non aveva il bisogno impellente che, magari, avevano altri conterranei suoi coetanei. Anche nei momenti difficili dell’immediato dopoguerra non abbiamo mai patito la fame. Per lui non era ipotizzabile, nella Calabria degli anni Cinquanta, nessuna pur minima mobilità sociale, né nell’immediato, né nel futuro. Non saremmo, altrimenti, emigrati tutti insieme, dopo aver venduto casa e podere. Tagliando, cioè, i ponti. È interessante rilevare che i contadini che emigravano all’inizio del Novecento, partivano principalmente per poter poi rientrare, e per comprarsi un loro pezzo di terra. E non importa se molti abbandonarono l’idea per strada. Ho l’impressione che i contadini, come mio padre, non ne volevano più sapere della campagna, della terra che aveva sì procurato loro i beni primari, ma nient’altro. Con molta probabilità, non furono estranei alla sua decisione il mito dell’America e il servizio militare; l’aver avuto, durante la Seconda guerra mondiale, un primo, veloce contatto con il mondo metropolitano al di là della Calabria».
Un messaggio
per i giovani
Ho chiesto al professor Loriggio di lanciare un messaggio ai giovani, ma anche a genitori e nonni. «La storia, la storia, la storia! – esclama –. Sapere da dove si viene e perché. Senza tramutare la memoria in ossessione. La storia italocanadese si dipana su due binari: sorvolare sull’uno o sull’altro la mutilerebbe. Mi spiego meglio: con un canadese di un’altra origine etnica, è la mia italianità che dovrebbe risaltare; con un italiano, invece, la mia canadesità. Ecco perché avere la Rai, in casa, a Montréal, a Toronto o a Vancouver, è stato un enorme progresso. Ma sarebbe un progresso ancora più grande se ci fosse una reciprocità, se l’informazione sulla comunità italocanadese, fatta da fonti italocanadesi, arrivasse in Italia».
Una maggiore consapevolezza storica, da parte degli italocanadesi, dissiperebbe, forse, alcuni degli equivoci che aleggiano sulle relazioni all’interno della famiglia. «La mia generazione – precisa –, quella di chi è approdato giovanissimo in Canada, ha avuto un potere eccezionale di fronte ai propri genitori. Siamo stati i loro ministri degli esteri, i loro traduttori, i loro mediatori con la realtà non-italiana. Come risultato, per certi versi, i ruoli sono stati rovesciati: noi siamo stati via via i genitori dei nostri genitori. I nonni? Le nonne? Sono i depositari di tante storie. Dovrebbero approfittare del fatto di non essere i genitori dei nipoti, e raccontare. Mi auguro che le loro narrazioni possano non essere solo racconti di successi o fallimenti. Sono un laico, ma riconosco l’importanza delle virtù teologali: vorrei che in ciò che viene raccontato alle nuove generazioni ci fosse posto per la carità, oltre che per la fede e la speranza». (1 – Continua)
Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017