Trecento60gradi. Editoriali

28 Settembre 2009 | di

Politica di Francesco Jori

S’è sdrucito il tricolore


Fratelli d’Italia, l’Italia s’è sciolta. Mentre il Paese si prepara a celebrare i 150 anni dalla sua unità (non a caso tra aspre polemiche: perfino su questo…), dal Brennero a Capo Lilibeo la deriva dei territori di un sempre più sdrucito Stivale alimenta una fiera delle identità – vere o presunte – da cui esce un esplicito messaggio: tutto, fuorché una patria condivisa. Dove al tricolore si chiede di convivere con i marchi regionali. Dove ci si riesce a dividere anche sull’inno. E dove a colpire, di fronte alle esternazioni a catena dei soliti noti, non è tanto il furore di chi dichiara quanto l’inerzia di chi ascolta: quasi che l’opinione pubblica, strategica in ogni democrazia, si sia liquefatta in una poltiglia gelatinosa impermeabile ai valori fondanti di una comunità. Ma non è un virus recente: ha un’incubazione di lungo periodo. Già nel 1958, il politologo americano Edward Banfield, dopo studi sul campo in un paesino dell’Italia meridionale, aveva elaborato il concetto di «familismo amorale»: una regola di condotta in base alla quale gli individui di una comunità coltivano i vantaggi materiali e immediati del proprio clan, supponendo che tutti gli altri si comportino allo stesso modo. Mezzo secolo dopo, questo stile di vita sembra aver contagiato l’intero Paese: al punto da indurre a pensare che, a 150 anni dall’unità, l’Italia rimanga fondamentalmente uno Stato senza nazione. Una dirompente sfiducia nella cosa pubblica accentua le fratture territoriali, alimentando un rischio ben più concreto e pericoloso dell’improbabile minaccia secessionista in salsa padana, agitata dalla Lega: la secessione silenziosa degli italiani dall’Italia, segnalata su versanti diversi da due moderati del valore di Sergio Romano e Riccardo Illy. Le cronache di questi mesi autorizzano a temere che sia in atto un distacco senza rumore tra le diverse aree del Paese: dato quasi per scontato, come se fosse stato ormai assorbito dal senso comune.

«La nostra bandiera nazionale dovrebbe recare una grande scritta: “Tengo famiglia”», scriveva sessant’anni fa quella penna al vetriolo di Leo Longanesi. Annotazione valida più che mai. Magari integrata con l’aggettivo di Banfield: famiglia sì, ma amorale.



Esteri di Carmen Lasorella

La Sanità secondo Obama


Le battaglie politiche oramai si vincono sui media, nell’enfasi di slogan e di capacità dialettica, mentre gli interessi – quelli veri – restano sul fondo, mistificati e nascosti ai più. Non fa eccezione lo scontro americano sulla riforma della Sanità, tema sul quale Obama si gioca il prestigio personale e il consenso politico. Quel prestigio e consenso che, sullo stesso tavolo, giocò e perse uno dei suoi predecessori, Bill Clinton, costretto frettolosamente ad archiviare la pratica nel 1993. Il motto «Yes, we can», che ha fatto il giro del mondo, ha restituito speranza al sogno americano. «You lie», che significa tu menti, è la frase che Joe Wilson, deputato repubblicano al Congresso, ha scagliato contro Obama, mentre il presidente illustrava le linee della sua riforma e che ora, neanche un anno dopo, rischia di affossarlo. In questa disputa sulla punta di coltello, non si lesina il ricorso alle tattiche della paura né alla macchina della disinformazione. Su internet e in tv dilagano sondaggi, interviste, spot, notizie tendenziose. Il cavallo di Troia dei repubblicani è il fantasma di una legge che porterà l’eutanasia per gli anziani, lo spreco di risorse americane a vantaggio degli immigrati illegali, il Paese alla bancarotta. Obama replica che il deficit dello Stato non aumenterà, che il diritto alla salute costerà meno delle guerre di Bush, che chi ha perso il lavoro non può perdere anche l’assistenza, che in una grande democrazia non si nega un diritto fondamentale. Dunque, mobilitazione in grande stile, con l’opinione pubblica aizzata pro e contro e usata come un maglio nei sondaggi che sembrano impazziti. Ma quali sono i numeri della Sanità in America e quali gli interessi? In uno schema semplificato, si può dire che la spesa per la salute negli Stati Uniti ha ampiamente superato i duemila miliardi di dollari l’anno, ovvero il 16 per cento del Pil; troppo, considerando che 45 milioni di americani non sono coperti né da polizze private né dall’assistenza pubblica, mentre il numero degli indigenti con la crisi finanziaria si è moltiplicato. Nel sistema prosperano in troppi: compagnie assicurative con soluzioni «cadillac», ovvero esose e, dunque, inaccessibili ai più; medici legati al capitale, ovvero azionisti degli stessi ospedali dove lavorano; industrie farmaceutiche, come quelle del business delle apparecchiature biomediche; avvocati che vivono di denunce contro la classe medica, con la quale tuttavia sono spesso collusi. Insomma, acque infestate dai pescecani, vale a dire dai poteri forti.

La strada di Obama è in salita. Il suo, forse, è un progetto ancora troppo vago, anche perché, per non incorrere negli errori di chi l’ha preceduto, il presidente si limita a fissare l’obiettivo, lasciando al Congresso la scelta della soluzione migliore. Obama come Icaro? Qualcuno, sulla stampa americana, ha evocato il paragone: solo velleità di un presidente con le ali di cera che saranno sciolte dal sole. Ma non è detto: con le stesse ali, volando basso, Dedalo riuscì invece ad attraversare il mare.



Economia di Leonardo Becchetti

Fare con il cuore


I principi e i valori della Chiesa sono immutabili, ma le loro applicazioni richiedono sempre nuove attualizzazioni. L’ultima enciclica sociale, Caritas in veritate, riconosce che, negli ultimi anni, di novità ne sono accadute veramente molte e tali da rivoluzionare il modo di concepire il sistema socioeconomico, il funzionamento del mercato e il ruolo di imprese e cittadini. L’enciclica dichiara il proprio sostegno ad alcune delle pratiche più innovative, ispirate in molti casi dall’azione dei credenti e, nello stesso tempo, apre scenari profetici, ponendo l’asticella della speranza un po’ più in là rispetto a quanto già raggiunto oppure ormai in vista.
Un primo caposaldo è la critica al mito che le istituzioni da sole possano risolvere i problemi sul tappeto con un sistema di regole ottimali, e che una complessa architettura istituzionale possa prevenire tutte le conseguenze negative dei comportamenti individuali, esimendoci in pratica dalle nostre responsabilità. Forte, quindi, la presa di posizione sull’impossibilità da parte del binomio tradizionale stato-mercato di risolvere efficacemente i problemi della povertà, della sostenibilità ambientale e della crisi di senso delle società contemporanee. Queste due considerazioni creano le premesse per comprendere l’importanza dell’ingresso di un nuovo attore principale, la società civile. Essa genera dal basso nuove esperienze imprenditoriali che perseguono scopi primari mutualistici e sociali, non dimenticando di creare valore economico. All’interno della stessa società civile, cittadini responsabili riconoscono il potere che essi hanno di indirizzare le imprese verso comportamenti sempre più socialmente e ambientalmente sostenibili, attraverso le loro scelte di consumo e di risparmio.

Infine, di grande rilievo è il riconoscimento che fattori immateriali come quelli della fiducia, del dono, della fraternità e gratuità non sono solo la chiave per vivere relazioni di qualità nell’ambito dei rapporti primari (famiglia, comunità, associazioni), ma divengono anche cruciali per il buon funzionamento e la produttività delle imprese. Vanno dunque spesi con intelligenza nella dimensione professionale.
Sembrano principi astratti, ma in realtà non sono altro che riflessioni su iniziative che si sono conquistate già spazio e successi sul campo. Circoli virtuosi e buone pratiche hanno tracciato la strada; sta adesso alla maggioranza imparare a cogliere le interrelazioni profonde tra saper fare e saper essere, produttività fisica e motivazioni intrinseche, per costruire le coordinate di un sistema socioeconomico che ponga le giuste premesse per la realizzazione del bene comune.
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017