Treu: alcune proposte per arginare la precarietà
Che siano o meno laureati, oggi molti giovani approdano al «porto sicuro» del lavoro fisso solo dopo una lunga e tribolata navigazione nel mare infido della precarietà. Vivendo la quale è assai arduo per loro (e sono l’11,9 per cento della forza lavoro) progettare un futuro che vada oltre la scadenza dell’ennesimo contratto a termine, di solito di breve, brevissima durata. Con intuibili conseguenze personali (delusioni, frustrazioni, depressione...), ma anche sociali. Per un sociologo attento come Sabino Acquaviva, infatti, il lavoro precario è tra i principali ostacoli alla formazione delle famiglie, oltre che causa della loro disgregazione.
Sotto accusa, a tale riguardo, la legge 30/2003, meglio conosciuta come «legge Biagi», dal nome del suo ispiratore, assassinato a Bologna la sera del 19 marzo 2002 dalle Brigate Rosse. Non piacciono i tipi di contratto introdotti da questa legge, in particolar modo i lavori «a progetto», che favoriscono sì un primo approccio con il mondo del lavoro, ma in un contesto di protratta precarietà e spesso di sfruttamento.
La legge 30 riprende e riforma, con elementi di continuità e altri di diversità, la legge 196/97, nota come «pacchetto Treu». Ideata dall’allora ministro del Lavoro, Tiziano Treu, per regolare il fenomeno della flessibilità, la legge 196/97 aveva modificato profondamente le precedenti normative e istituito nuovi strumenti e incentivi per favorire l’occupazione e la formazione, come il lavoro interinale, le agevolazioni fiscali per il part time, la promozione degli stages...
Tiziano Treu, vicentino, è stato ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, e ministro dei Trasporti nei governi Prodi, Dini e D’Alema. Ora è senatore della Margherita e presiede la Commissione Lavoro e Previdenza sociale del Senato. Lo abbiamo intervistato.
Msa. Senatore, quando si critica la legge Biagi accusandola di avere indotto la precarietà nel lavoro, qualcuno risponde: «È stato Treu, con il suo “pacchetto” e la sua flessibilità, a mettere in moto tutto»: è vero?
Treu. Non è vero. I nostri interventi avevano lo scopo di regolare una flessibilità già esistente, non certo creata da noi. La legge Biagi non è tutta sbagliata. Alcune sue scelte si sono inserite nella linea da noi tracciata, e funzionano. Altre hanno aggravato la situazione, introducendo troppe forme di contratto inutili, e per certi versi pericolose, le quali hanno favorito una precarietà che andava invece disincentivata. La legge 30 non ha dato una possibilità reale di regolare e limitare la flessibilità e non ha creato compensazioni sul piano delle sicurezze e degli ammortizzatori sociali. Ha prodotto, invece, situazioni esagerate, che ora noi vogliamo in parte correggere e riportare alla normalità.
Tra le diverse indicazioni del suo «pacchetto», quali ritiene abbiano avuto più senso e migliori risultati?
Soprattutto tre: il lavoro interinale, al quale si è fatto ricorso solo in casi eccezionali e che riguarda solo l’1 per cento del mercato del lavoro; gli incentivi per il part time, utilizzati già subito dopo la nostra legge, e ora recepiti anche dalla legge 30 con buoni risultati; infine, il decentramento e la riorganizzazione del vecchio ufficio di collocamento; ritengo che questa riforma abbia funzionato, tanto che la legge Biagi ha voluto proseguire nella strada da noi aperta.
Crede che le forme contrattuali previste dalla legge Biagi, come job call, job sharing, «lavoro a progetto», staff leasing... siano risposte valide al problema dell’occupazione o solo ripieghi?
Noi non condividiamo queste forme di contratto, le consideriamo dannose o, nella migliore delle ipotesi, del tutto inutili, perché favoriscono il lavoro precario. Sono queste le cose che vogliamo veramente cancellare.
Si ha l’impressione che le aziende stiano applicando la legge 30 con furbizia, interessate soprattutto a sfruttare le agevolazioni e non a creare posti di lavoro veri: è così?
In realtà, le forme contrattuali di cui abbiamo parlato prima non vengono applicate perché sono confuse e marginali. A essere utilizzati molto, anzi troppo, sono i contratti di collaborazione e i lavori «a progetto», cioè quei contratti con i quali una persona viene assunta solo per il tempo che serve a realizzare un determinato progetto. Ma tali contratti sono in larga parte rapporti di lavoro dipendente mascherati, legati, cioè, a progetti finti. Questo avviene perché quando un datore di lavoro assume stabilmente un dipendente, deve pagare il 33 per cento di contributi sociali, mentre se ne assume uno con un contratto «a progetto», paga solo il 18 per cento. Sta qui la fonte della precarietà. Ecco perché abbiamo avanzato la proposta, che è tra gli impegni più urgenti del governo, di ridurre di cinque punti i contributi da versare per il lavoratore dipendente, e di aumentare progressivamente quelli per i lavoratori assunti con contratti «a progetto». Così viene meno la convenienza di ricorrere, magari in modo fraudolento, a queste tipologie contrattuali.
Una volta in un’azienda si rimaneva per anni: si acquisivano esperienza e professionalità, considerate un tesoro da conservare gelosamente. Oggi i giovani devono cambiare lavoro anche più volte in un anno. Questa precarietà, però, non può nuocere anche alle aziende?
Non c’è dubbio: un eccessivo cambiamento nuoce a tutti. Se non si investe nelle persone e nella formazione, non si può fare un lavoro serio. Anche per questo siamo convinti che bisogna rendere stabili i contratti. Per un giovane, un contratto a termine va anche bene per un paio d’anni; ma se egli per sette-otto anni continua a lavorare di tre mesi in tre mesi, passando da un’azienda all’altra, diventa uno «spostato». E intanto l’azienda non ha investito in niente. Questi eccessi vanno assolutamente corretti. La proposta del governo di ridurre di cinque punti il costo del lavoro, dovrà valere solo per i rapporti a tempo indeterminato. In questo modo, il contratto a termine non sarà più conveniente e l’imprenditore vi farà ricorso solo quando gli è strettamente necessario.
Questo vale anche per il lavoratore. Nelle economie moderne, più dinamiche rispetto a quelle di un tempo, è facile passare da un’esperienza lavorativa all’altra. Se a farlo per qualche anno è un giovane, soprattutto nella prima parte della vita lavorativa, può essere positivo, soprattutto se segue dei percorsi professionali che hanno un senso. In altri casi, rischia di essere solo tempo perso.
La precarietà è sotto accusa, anche da parte della Chiesa: impedisce ai giovani di progettare il proprio futuro, finisce con l’essere una seria minaccia all’istituto familiare…
Io ho due figli. Uno, laureato in Fisica, vive in America, lavora stabilmente (così come la moglie) e non ha problemi. Mia figlia, che è una letterata, si è sposata perché un po’ di soldi li aveva: ora, lavorando con brevi contratti a termine, prima di mettere al mondo un figlio ci pensa due volte. Se oggi i giovani si sposano tardi, mettono al mondo dei figli ancora più tardi, e spesso si accontentano di uno solo, non è sempre una questione di egoismo.
Il segretario della Cgil, Epifani, di recente ha detto che la legge Biagi è tutta da rifare, facendo arrabbiare gli industriali per i quali, invece, non va toccata: lei che ne pensa?
Epifani poi si è calmato. I problemi dell’Italia sono molto più seri. Dobbiamo far ripartire lo sviluppo, perché se l’economia non cresce, non c’è nemmeno lavoro. Dobbiamo risanare i conti. Pensando solo a buttare all’aria la legge 30, si dimostra di non aver capito quali sono i veri problemi del nostro sistema. Alcune correzioni alla legge sono necessarie, come detto: le inseriremo creando gli ammortizzatori sociali per dare sicurezza alla gente.
Una ripresa dell’economia porterà anche alla fine della precarietà?
La ripresa economica aiuta, perché se la crescita è precaria, anche il lavoro è incerto. Però non è automatico che con la ripresa dell’economia tutto si aggiusti. Occorrono una buona politica economica e delle oculate scelte per il mondo del lavoro, come quelle che abbiamo annunciato: incentivare i lavori stabili, rendere meno convenienti i contratti a breve termine, creare gli ammortizzatori sociali.