Tunisia. Democrazia, sogno da condividere
Docente all’Università di Monuba, direttrice del «Corriere di Tunisi», l’unico giornale in lingua italiana del mondo arabo, Silvia Finzi – tra l’altro neoeletta presidente del Comites di Tunisi – ha tutti i titoli per rappresentare gli italiani in Tunisia e per testimoniare il grave momento che il Paese sta attraversando, dopo gli attentati islamisti al Museo del Bardo e alla spiaggia di Sousse della scorsa estate. Il turismo, grande fonte di introiti per il Paese, è in ginocchio, mentre la situazione critica nella vicina Libia fa tremare i polsi. «È quello che volevano» dice senza nascondere l’amarezza, temendo che la sua bella e amata terra, «l’unica democrazia laica del mondo arabo», sprofondi nel caos delle guerre mediorientali, nella barbarie dello stato islamico. Quest’ultimo «un anno fa era una minaccia arginabile», oggi è una pugnalata nel cuore della culla di ogni civiltà, «tra il Tigri e l’Eufrate, dove tutto è nato». E chiosa: «Come ha potuto il mondo democratico accettare tutto questo? È una follia».
La sua famiglia è in Tunisia da cinque generazioni, da quando, nel 1820, il bisnonno carbonaro e, poi, mazziniano vi andò in esilio: «La Tunisia gli ha sempre concesso di continuare a far politica per il suo Paese, ricevendo personaggi del calibro di Garibaldi». È proprio il bisnonno a fondare la prima tipografia della Tunisia, contribuendo in modo significativo alla storia industriale e culturale del Paese. Con il nonno era invece il tempo del fascismo: «Aiutava gli antifascisti da qui, portando, per esempio, i fogli clandestini». Al padre va invece il merito di aver fondato il «Corriere di Tunisi», che l’anno prossimo compirà 60 primavere, nell’ultimo anno del protettorato francese, periodo post bellico in cui tutto remava contro gli italiani colpevoli di essere entrati nell’Asse. «Durante il protettorato giornali e scuole italiane sono state chiuse. Io stessa ho dovuto frequentare la scuola francese. Tanti italiani della prima ora se ne andarono da qui». Oggi la comunità italiana è molto composita: pochi gli italiani della prima ondata, più numerosi quelli arrivati negli anni ’70-’80, con la fioritura degli intensi rapporti commerciali tra Italia e Tunisia: «Qui c’erano più di mille aziende italiane». Ma anche gran parte di questi italiani se ne sono ormai andati. Tra coloro che sono rimasti ci sono quelli sposati con tunisini e i tunisini di ritorno dall’Italia con passaporto italiano. Un bel pot-pourri.
Poi l’ultima sfida, la rivoluzione del 2011, che ha aperto la stagione delle rivoluzioni arabe, ma anche quella della deriva fondamentalista. «Sono rimasta in Tunisia perché mi sento coinvolta da ciò che succede in questo Paese. Perché questo Paese mi piace, ha grandi possibilità, una società civile che ancora crede e lotta per la sua democrazia». L’Italia e l’Europa viste da qui hanno perso tutto il loro smalto: «Leggo i vostri giornali: nessuno fa un’analisi seria, cerca di dissipare la disinformazione che c’è rispetto a quanto sta avvenendo in Medio Oriente, rispetto agli interessi in gioco in queste guerre. Possibile che i Paesi che producono armi non sapessero che stava costituendosi uno Stato armato fondamentalista tra Siria e Iraq? C’è qualcuno che ha indagato per capire chi pagava i biglietti aerei dei giovani jihadisti»?
C’è ancora qualcosa da fare? «Non abbandonate la Tunisia. Dopo i morti sulla spiaggia di Sousse non posso dirvi “venite”, anche se è giusto dire che gli attentati a Parigi o a Londra non hanno bloccato il turismo, come sta avvenendo qui. C’è però una cosa che si può fare: non accontentatevi della superficie, cercate di sapere davvero che cosa sta accadendo. All’indomani delle rivoluzioni arabe, gli intellettuali, anche noi italiani all’estero, avevamo indicato chi erano i veri democratici da appoggiare. Nessuno ci ha mai ascoltato».