Tutti in vetrina

Analisi di un fenomeno che, a partire dal ’700, ha coinvolto sempre più le società occidentali. E che con l’avvento della televisione, e dei recenti reality show, ha assunto forme paradossali.
28 Novembre 2007 | di


Con l’inizio dell’Ottocento, però, la produzione di grandi quantità di merci, resa possibile dalla seconda Rivoluzione industriale, e l’intensa fase di sviluppo attraversata dalle metropoli e dalle città europee hanno progressivamente moltiplicato i consumi e i luoghi d’acquisto. Sono nati così i grandi magazzini, cioè luoghi di notevoli dimensioni, spesso articolati su più piani, che promettevano ai clienti di potervi trovare qualunque cosa. L’opera di seduzione e convincimento del consumatore, anche in questo caso, è stata esercitata dalle merci adeguatamente messe in scena e il grande magazzino si è fatto teatro.

Dunque, la logica comunicativa della vetrina, basata sulla messa in scena spettacolare dei prodotti, si è progressivamente estesa durante l’Ottocento all’intera superficie di vendita e a luoghi sempre più grandi. Nel XX secolo, con la nascita e il sempre più intenso successo a livello planetario del modello statunitense del centro commerciale, il processo di vetrinizzazione si è ulteriormente rafforzato, diffondendosi a tutte le principali tipologie di luoghi del consumo: centri commerciali, alberghi, ristoranti, cinema, musei, parchi a tema, aeroporti, internet, ecc. Ma, più in generale, negli ultimi decenni si è presentato soprattutto un processo di progressiva vetrinizzazione della società, cioè l’adozione da parte dei principali ambiti sociali di quella particolare logica di rappresentazione visiva che contraddistingue, a partire dal Settecento, le modalità comunicative che appartengono alla vetrina.


Neotelevisione: il pubblico in tv

È però nell’ambito dei media, e in particolare in quello della televisione, che si è creato il luogo ideale per la diffusione del processo di vetrinizzazione. Lo schermo televisivo, cioè, ha funzionato come una sorta di vetrina in grado di amplificare e spettacolarizzare la realtà sociale. Non a caso la presenza della realtà all’interno dei programmi è una costante di tutta la storia della televisione. Probabilmente ha preso avvio nel 1948, cioè agli albori della tv, con la creazione del programma Candid Camera da parte della rete statunitense Cbs. Ma la televisione nella sua prima fase di esistenza si è limitata ad avere un ruolo distaccato rispetto allo spettatore, caratterizzandosi soprattutto come un semplice canale in grado di trasmettere spettacoli definiti.

A partire dagli anni Ottanta, però, è gradualmente emersa quella che all’epoca è stata definita da Umberto Eco «neotelevisione», la quale ha cercato di inglobare lo spettatore al suo interno. Dapprima con la semplice presenza di un pubblico in studio o con la partecipazione attiva degli spettatori al programma mediante le telefonate in diretta. Poi, nel corso degli anni Novanta, pezzi della realtà quotidiana dell’individuo sono andati a costituire l’ossatura di parecchi programmi televisivi, definendo progressivamente il nuovo genere del reality show.

Nel momento in cui però cercava di mostrare la realtà, la televisione si è accorta di non poter fare a meno di mostrare anche se stessa mentre la riprendeva. È così emerso in maniera crescente ciò che è diventato uno dei contenuti primari del reality show. Questo genere riafferma infatti la centralità della presenza del mezzo televisivo all’interno del programma e lo fa anche mediante il ricorso alla visibilità degli apparati tecnici (telecamere, microfoni, ecc.).

Il modello del reality show funziona soprattutto perché presenta una vita che appare più convincente della vita vera. È pensata a tavolino e sceneggiata nella maniera più dettagliata allo scopo di evitare accuratamente tutti i possibili inconvenienti. Cerca cioè di mettere ordine nel caos della vita quotidiana. Dunque, il reality appare allo spettatore più vero del vero e la televisione, non più considerata un mero strumento di rappresentazione, diventa uno dei principali luoghi che nelle società forniscono modelli interpretativi, valori e temi attraverso i quali l’individuo può costruire la sua identità e dare un senso alla sua vita.

Nel reality show lo spettatore è spesso affascinato anche dal fatto che una persona sconosciuta come lui possa diventare celebre. Perché nella società domina il mito del successo facile, ottenuto senza sforzi e senza la necessità di possedere particolari competenze. Anche a coloro che partecipano al programma, pertanto, non è richiesta nessuna competenza. Non è un caso, dunque, che per i provini di selezione dei vari programmi si presentino abitualmente alcune centinaia di migliaia di candidati.

Nessuna meraviglia, allora, che negli ultimi anni sia stato tutto un moltiplicarsi di programmi per guardoni ed esibizio­nisti. Oltre all’ormai celeberrimo Grande Fratello, un programma che vede dieci giovani rinchiudersi per cento giorni in un ap­partamento per essere costantemente tenuti sotto l’occhio vigile delle telecamere, e che ha avuto più di due miliardi di spettatori, in televisione in questi ultimi anni si è visto di tutto: L’isola dei famosi, che ha costretto alcuni vip a vivere in una località selvaggia; La fattoria, dove i concor­renti erano rinchiusi in un casale in Sudafrica o in Marocco e dovevano dimostrare di poter sopravvivere nelle con­dizioni elementari in cui si viveva cent’anni fa; Vero Amore, dove il grado di fedeltà reciproca dei membri di alcune coppie è stato messo a dura prova; Cambio moglie, con due madri che si scambiavano di ruolo e andavano a vivere per un certo periodo di tempo nella famiglia dell’altra; I fantastici cinque, in cui cinque raffinati gay dovevano rendere alla moda l’im­magine antiquata di un ragazzo eterosessuale. E si potrebbe continuare a lungo.


Reality: è corsa al rialzo

Più procede però l’evoluzione del reality, più gli spettatori si abituano a quello che vedono e dunque cresce la necessità di introdurre delle novità per tenere vivo l’interesse. Ciò induce i produttori di questo tipo di programmi televisivi a inseguire l’originalità e l’eccesso. Lo stesso Grande Fratello ha dovuto intensificare la presenza di situazioni erotiche tra i concorrenti.

Il reality, dunque, tende a non avere limiti e persegue una corsa al rialzo che lo porta ad assumere forme sempre più estreme. Se ciò succede è perché il reality non cerca di costruire un reale processo di comunicazione con il pubblico, ma cerca invece in maniera ossessiva di non perdere il contatto con esso. Non stupisce allora che concentri sempre più la sua attenzione sulla vita quotidiana.

Da finestra sul mondo, la televisione, attraverso il reality, si è trasformata insomma in una finestra sull’intimità delle persone, le quali sono sempre più indotte a mostrarsi senza problemi a chi si trova al di là del vetro.



Glossario. Parole per capire


Format

È un modello di produzione televisiva. Si può definire come un insieme di regole che determina lo svolgersi di un programma. I format ideati dalle case di produzione vengono acquistati dalle emittenti nazionali e adattati alle caratteristiche particolari del loro mercato.


Reality tv

La televisione dei reality: programmi senza un copione preciso, che documentano eventi reali vissuti da gente comune. Il primo esempio di reality tv risale al 1948 quando la rete statunitense Cbs mandò in onda il programma Candid Camera.


Reality show

Termine inglese (letteralmente, spettacolo della realtà). È una tipologia di programma televisivo che prevede la messa in onda di situazioni reali, libere da copioni. Il più noto tra i reality è Big Brother (Grande Fratello), la cui prima edizione (Olanda, 1999) può essere considerata apripista del nuovo e fortunato genere di reality a eliminazione detto anche game show.


Davvero

Ideato da Giovanni Minoli, fu il primo tentativo di reality show italiano. Andò in onda su Raidue nel 1995. Documentava la convivenza quotidiana di otto giovani a Bologna. Non c’era nessuna diretta, poiché le quarantacinque puntate erano state montate dopo il completamento delle riprese, e i ragazzi erano liberi di entrare o uscire a loro piacimento dalla casa che condividevano.


Outlet

È un negozio specializzato nella vendita sottocosto di prodotti di marche famose. Ne esistono varie tipologie: la più frequente è la formula del centro commerciale outlet, vale a dire una galleria di negozi inseriti in una medesima struttura.


Vetrinizzazione

È un concetto che permette di interpretare in modo unitario numerosi fenomeni sociali. Chiarisce infatti il processo di progressiva spettacolarizzazione e valorizzazione che negli ultimi due secoli ha investito alcuni aspetti e ambiti delle società occidentali: gli affetti, il corpo, l’attività sportiva, i media, il tempo libero, i luoghi del consumo.


(Fonte: «Glossario» curato da Alessandro Scarano a conclusione del volume di Paolo Martini Reality Shock, Aliberti editore, 2007, euro 11,00).



Il libro


La tesi del libro è netta, ben dimostrata e quindi credibile: «La vetrina, con la sua trasparenza che crea relazioni, è una perfetta metafora del modello di comunicazione che tende oggi a prevalere», scrive Codeluppi. La vetrina porta con sé caratteristiche riconoscibili: istantaneità, varietà, richiamo alla gratificazione immediata, invito alla fruizione, stimolo al sogno. Quando l’attenzione cala, non si fa altro che accrescere la spettacolariz­za­zio­ne delle merci, per meglio nutrire la passione voyeuristica dei nostri contemporanei, soprattutto in Occidente.

Ma il discorso va oltre: a un certo punto i media sono diventati la vetrina per eccellenza. Anche per gli stessi individui oggi la vetrinizza­zione è davvero difficile da evitare. Una traiettoria che fa pensare.

La vetrinizza­zio­ne sociale Vanni Codeluppi, Bollati Boringhieri, euro 11,00



Outlet: quando il Paese è in vetrina

A colloquio con Aldo Cazzullo, inviato speciale del «Corriere della Sera», autore del recente Outlet Italia. Viaggio nel paese in svendita (Mondadori, 2007, euro 16,00).

Msa. Cazzullo, da dove nasce l’idea del libro?

Cazzullo. L’idea non è nata dagli outlet pieni, ma dalle piazze vuote. Non solo nelle grandi città. Che a Milano la sera in giro non ci sia nessuno, tranne che nelle osterie finte a 60 euro a persona, vini esclusi, sui navigli, alle colonne di san Lorenzo o in corso Como, è sconfortante ma noto. Ma che ceda anche la provincia, questo è preoccupante. E la domenica pomeriggio in piazza a Pistoia, a Piacenza, a Latina, ad Alessandria, non c’era nessuno. Erano tutti all’outlet. In giro c’erano solo extracomunitari, che non hanno case comode dove rifugiarsi, devono lavorare molto, sono attivissimi, anche nella vita sociale. A Piacenza ricordo di aver vagato un’ora per chiedere di un’osteria dove mangiare i piatti locali. Alla fine un senegalese che portava sulla canna della bicicletta la fidanzata albanese mi ha portato dove va lui a mangiare i pisarei e fasò (ottimi peraltro). E potrei fare molti altri esempi.

Non solo l’outlet ha sostituito la piazza: spesso la piazza si è trasferita negli outlet. Panettieri e artigiani chiudono le loro botteghe e le riaprono nei centri commerciali.

Se la vita degli italiani è passata in gran parte dalla piazza di paese all’outlet, qual è il significato di questo luogo emblematico?

Gli outlet sono costruiti come paesi. Finti. Borghi medievali con le mura, le porte, le fontane, le case; finte anche quelle ovviamente, visto che non ospitano persone ma negozi. C’è spesso la musica ad alto volume, come in discoteca, che rende il parlare fastidioso e superfluo. Sono luoghi di incontro in cui nella realtà non ci si incontra, non ci si confronta, non si scambiano idee. Si compra, o si guardano le vetrine.

Non solo: le insegne «outlet» si sono moltiplicate in tutte le città. Anche in via Montenapoleone a Milano e in via Frattina a Roma. C’è un outlet pure nella piazzetta di Capri. Outlet è sinonimo di svendita. Di mercificazione. Della crisi delle relazioni tra le persone, che per me è il vero segno dei tempi, più di internet o del telefonino.

Nelle dinamiche di compravendita legate agli outlet, lei legge l’impoverirsi e il degradarsi dei rapporti umani. Come contrastare questa tendenza?

Il degrado dei rapporti umani è evidente; l’ultimo capitolo di Outlet Italia è dedicato proprio a questo tema. Nel traffico, ad esempio: le risse, la maleducazione, la violenza di un Paese nella cui capitale, Roma, in un lunedì d’autunno nello stesso giorno due discussioni al semaforo sono finite una a coltellate, l’altra a colpi di mazza da baseball. Dove mettono sotto sulle strisce davanti al Quirinale la moglie del presidente della Repubblica. Dove un peruviano ha tentato di scendere la scalinata di Trinità dei Monti in macchina. Ma il degrado dei rapporti umani ha molti volti. L’esibizionismo dei corpi modellati dalle palestre, dagli anabolizzanti, dalla chirurgia estetica. L’esibizionismo degli amori, dei sentimenti, dati in pasto ieri alla tv verità e oggi a You Tube. I cani trattati come figli, e i figli degli immigrati trattati come cose. Lo scandalo dei delitti impuniti: violenze sessuali, usura, estorsioni.

Non so indicare una cura. Ma qualche antidoto a ben vedere c’è. Vie di fuga. Le piccole patrie. I luoghi «lontani dall’out­let», come si intitola l’ultimo paragrafo, nel quale tento di concludere il mio viaggio in Italia con una nota di speranza. Paesi. Santuari. Posti dove ancora ci si incontra, per davvero. Si prega. O ci si parla.

S. F.

L’intervista

 
Rflessioni. Vivere la vita senza recitarla

Abbiamo chiesto a padre Ugo Sartorio, direttore della nostra rivista, cosa pensa del fenomeno vetrinizzazione.

Quando si parla dei reality si sentono termini come narcisismo, esibizionismo e via dicendo. Secondo lei, direttore, sono appropriati?

Sartorio. In uno dei suoi ultimi film, Scoop, un giallo-rosa esilarante, Woody Allen, rispondendo alla domanda «di che religione sei?», tira fuori un frizzante motto di spirito: «Ero di fede ebraica, ma poi mi sono convertito al narcisismo». Il regista newyorchese, a quanto pare, non è l’unico a essersi convertito alla religione di Narciso, nella quale l’esibizione soddisfatta dell’io esige solo spettatori e non interlocutori, come accade nei reality.

Come giudica il meccanismo dei reality, soprattutto quello di esclusione?

Di una violenza incredibile. Tutto bianco o tutto nero, a favore o contro, dentro o fuori. O sei primo o non sei nessuno. Non esiste la dignità del piazzamento, ad esempio un terzo posto del tutto onorevole. Si gioca per vincere, per emergere, non disdegnando qualche sgomitata. Il peggio della realtà umana viene esibito in modo «esemplare». E poi generazioni di genitori, maestri, professori e formatori si affannano a dire che «importante è partecipare…». In ogni caso il meccanismo esclusione-inclusione, soprattutto quando è in gioco il mondo privato delle relazioni e dei sentimenti, suscita interesse. L’individuo viene sollecitato a identificarsi, a misurarsi, anche se l’unità di misura è piuttosto scarsa.

Cosa direbbe a un giovane che vuole partecipare a un reality?

In Italia ogni anno circa 200 mila giovani si presentano ai provini per essere ammessi a questo genere di format, una vera folla in cerca di fortuna. Siamo di fronte, però, solo alla punta dell’iceberg, perché molti di più sono i giovani che coltivano il desiderio più o meno segreto di concorrere. Ciò che colpisce è la circolarità tra questi spettacoli d’intrattenimento e la realtà: non si sa più chi imiti che cosa, se siano i reality a imitare la vita reale o viceversa. Vengo al suggerimento: guardarsi di più dentro e guardare di più fuori, senza perdere troppo tempo a guardarsi allo specchio, magari sognando di mettersi in posa davanti alle telecamere. La vita va vissuta, non recitata.

S. F.

Riflessioni

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017