Per un cibo sostenibile
Attualmente il mercato globale del cibo è in mano a dieci multinazionali, che controllano la filiera alimentare mondiale. Spesso senza regole ben precise per quanto riguarda la produzione. Spendiamo magari pochi soldi per mangiare, ma il conto ambientale è salato.
Nell’ultimo secolo, le potenti aziende del settore alimentare hanno aumentato enormemente i loro profitti, servendosi di terre e lavoro a basso costo, spesso a danno dell’ambiente. Ciò è avvenuto mentre milioni di persone hanno fornito i beni necessari alla produzione – terra, acqua e lavoro – affrontando crescenti difficoltà. Lo scorso novembre papa Francesco, intervendo alla riunione planetaria della Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura), ha richiamato l’attenzione sulla grave responsabilità dell’uomo nel garantire il rispetto dell’ambiente e una produzione alimentare equa. E «il tempo per trovare soluzioni globali si sta esaurendo» ha ricordato ancora il Pontefice nel suo appello rivolto ai partecipanti al recente Vertice Onu sul clima, svoltosi a Lima (Perù).
Ma qual è oggi il rapporto tra uomo e ambiente e com’è cambiato nel secolo scorso? Lo abbiamo chiesto a Matteo Mascia, esperto di politiche ambientali e sviluppo sostenibile. «C’è una parola – spiega – che sintetizza al meglio il cambiamento avvenuto: antropocene. Essa esprime il tempo nuovo nel quale viviamo, fortemente caratterizzato dall’intervento umano. Per la prima volta nella storia dell’impatto dell’uomo sull’ambiente, abbiamo alterato il ciclo dell’acqua, dell’azoto, del carbonio, spingendoci oltre i limiti ecologici.
Msa. Questo che cosa ha comportato?Mascia. La grande emergenza planetaria è certamente rappresentata dalla rottura degli equilibri climatici e dal progressivo riscaldamento globale che condizionerà la vita e lo sviluppo delle nostre società in tutto il XXI secolo e oltre.
Con quali conseguenze? Il cambiamento climatico è inestricabilmente legato ad altri drammatici problemi globali, come la perdita di biodiversità, la scarsità idrica, l’emergenza alimentare, la riduzione delle terre coltivabili e, di conseguenza, alla lotta alla povertà e alla necessità di garantire un futuro equo e sostenibile per tutti. Per chi vive oggi e per chi verrà domani.
Al tema della custodia del creato è particolarmente attento papa Francesco. Come si pone la sua riflessione in relazione alla situazione ambientale? Fin dal primo intervento, in occasione del suo insediamento, papa Francesco ha richiamato la centralità del custodire il creato, del prendersi cura dell’ambiente nel suo insieme. Leggendo i suoi numerosi interventi e in attesa di conoscere la sua enciclica su questo tema, di prossima pubblicazione, si può già dire che il Pontefice abbia colto la centralità del tema ambientale e abbia fatto della prospettiva ecologica, che si fonda sulle interrelazioni tra sistemi naturali e umani, la lente con cui leggere questo nostro tempo.
Francesco parla di una diffusa «cultura dello scarto»… Esattamente. Definendo questa «cultura dello scarto» non si riferisce solo alle eccedenze alimentari e allo spreco di cibo e natura, ma contemporaneamente agli esclusi, a chi sta ai margini della società, ai giovani senza lavoro.
Cibo e ambiente. Come incide la produzione alimentare sui beni naturali? La ricerca scientifica e l’enorme mole di dati raccolti negli ultimi decenni ci offrono una conoscenza del funzionamento degli ecosistemi e delle interrelazioni con le società umane come mai avvenuto in passato. Vi sono oggi strumenti, riconosciuti a livello internazionale, come il metodo dell’analisi del ciclo di vita, Life Cycle Assessment (LCA). Questo strumento calcola il consumo di natura in tutte le fasi di vita di un bene o servizio. Per comunicare i dati, inevitabilmente complessi, di tali metodi sono poi stati elaborati indicatori di sintesi, semplici ed efficaci, che forniscono la dimensione dell’impatto ambientale delle società umane.
Che cosa significa? Ci sono indicatori che consentono di misurare, tra l’altro, la correlazione tra produzione di cibo e ambiente: l’impronta ecologica, l’impronta del carbonio, l’impronta idrica. Quella ecologica (ecological footprint) misura la superficie di terra biologicamente produttiva, necessaria a fornire le risorse e assorbire le emissioni di un sistema produttivo ed è misurata in ettari o metri quadri. L’impronta del carbonio (carbon footprint) calcola la quantità di emissioni di gas serra responsabili dei cambiamenti climatici ed è misurata in massa di anidride carbonica equivalente, mentre quella idrica (water footprint) quantifica i consumi e le modalità di utilizzo delle risorse idriche ed è misurata in volume (litri) d’acqua.
Parametri importanti per una regolamentazione della produzione di cibo in relazione all’impatto ambientale… Queste conoscenze sono fondamentali per far crescere la consapevolezza del rapporto esistente tra produzione di cibo e consumo di natura e promuovere scelte sostenibili a livello politico ed economico, ma anche personale e familiare. Grazie a questi indicatori, oggi sappiamo in modo scientifico che, per esempio, produrre e mangiare carne ha un impatto ambientale, in termini di consumo di terra, acqua e di emissioni, molto maggiore rispetto ad altri prodotti alimentari come legumi, verdura, frutta e gli stessi latticini. Possiamo fare un rapido confronto a titolo esemplificativo. Confrontiamo l’impatto di 1 chilogrammo di carne rossa con quello di 1 chilogrammo di pomodori: impronta ecologica 109 contro 1,5 metri quadri; idrica a 15.500 contro 214 litri; carbonio 26 contro 1,1 chilogrammi di anidride carbonica equivalente.
Dovremo cambiare le nostre abitudini sul cibo... È del tutto evidente che la nostra dieta dovrà cambiare per ridurre l’impronta ecologica sul pianeta. Anche perché l’alto impatto attuale dei sistemi alimentari non potrà che aumentare come conseguenza del miglioramento delle condizioni di vita e, dunque della dieta alimentare, di molti popoli in Asia, America Latina, Africa.
Si parla molto, a proposito dell’aumento della popolazione e del miglioramento della dieta alimentare dei Paesi emergenti, della necessità di aumentare la produzione globale di cibo. La questione della produzione alimentare va affrontata prima di tutto dal punto di vista della lotta allo spreco alimentare. Secondo la Fao, infatti, nel mondo più di un terzo del cibo prodotto viene sprecato. Il volume globale annuo dello spreco è stimato in 1,6 miliardi di tonnellate di «prodotti primari», mentre quello di cibo commestibile è pari ad 1,3 miliardi di tonnellate. Sempre la Fao stima che questa quantità di prodotti alimentari non utilizzati sia quattro volte superiore alla quantità di cibo necessaria a sfamare gli oltre 868 milioni di persone malnutrite. Oltre a una enorme questione di giustizia, lo spreco evidenzia anche gravi inefficienze del mercato nella gestione dei beni alimentari e un inutile consumo di natura legato alla produzione di beni che poi vengono gettati.
In che termini la questione ambientale si incrocia con quella economica e sociale? Una prima questione, come accennato, riguarda le implicazioni economiche, sociali e ambientali dello spreco alimentare. Un secondo paradosso è il fatto che un terzo della produzione mondiale di cibo è destinata all’alimentazione animale e che una quota crescente di terreni agricoli sono destinati alla produzione di biocarburanti. E ancora, l’industria alimentare è controllata per il 70 per cento da dieci grandi multinazionali, e nello stesso tempo il 70 per cento del cibo prodotto nel mondo dipende dal lavoro di 500 milioni di piccoli agricoltori. A ciò si aggiunge la finanziarizzazione, o meglio la deregulation finanziaria, del mercato alimentare che fa del cibo una fonte di investimento e non invece un diritto fondamentale dal quale dipendono tutti gli altri diritti, in primis quello alla vita.
Che cosa si sta facendo, concretamente, per cambiare questa situazione? Le risposte, a livello politico, sono deboli e contraddittorie, troppo spesso condizionate e limitate dai grandi gruppi dell’industria alimentare. Vorrei segnalare, invece, l’azione dal basso delle comunità: penso ai prodotti a «km 0», al commercio equo e solidale, ai farmers market (i mercati dei contadini), ai gruppi di acquisto solidale. A livello urbano, allo sviluppo degli orti sociali come riscoperta dell’agricoltura non solo come produzione, ma anche come socializzazione e recupero di spazi abbandonati. Alla crescita del biologico e delle certificazioni che consentono ai consumatori di «votare con il portafoglio» premiando con le proprie scelte di consumo le imprese e i produttori responsabili dal punto di vista sociale e ambientale. Chi èMatteo Mascia Laureato in scienze politiche e specializzato in Istituzioni e tecniche di tutela dei diritti umani presso l’Università di Padova, Mascia è coordinatore del Progetto etica e politiche ambientali per la Fondazione Lanza (che si propone lo scopo specifico di entrare nel dibattito fede-cultura, con particolare attenzione alla riflessione etica) e direttore dell’Associazione diritti umani - sviluppo umano di Padova. Fa parte del gruppo «Custodia del creato» della CEI, del Comitato di redazione delle riviste «Ecoscienza» e «Etica per le professioni».
È autore di articoli e testi in materia di politiche ambientali e sviluppo sostenibile. Ha curato i volumi Business Style and Sustainable Development (Gregoriana, 2008) e Ethics and climate change. Scenarios for Justice and Sustainability (Cleup, 2010). Con Simone Morandini ha appena scritto il libro L’etica nel mutamento climatico in corso di pubblicazione con l’editrice La Scuola. Sta inoltre curando, con Chiara Tintori di «Aggiornamenti Sociali», il volume che raccoglie alcuni dei contributi presentati in occasione del percorso «Nutrire il pianeta? Ciclo di seminari verso Expo 2015».