Per un lembo di terra

04 Marzo 2001 | di


   
   

   

   Etiopia ed Eritrea hanno da poco, obbligate dall' Onu, posto fine a un conflitto che più inutile non si può. Ma la situazione non si è ancora chiarita del tutto. Anche la Somalia ha i suoi guai...      È stata definita  «una guerra tra due calvi che si battono per un pettine», cioè per qualche cresta di montagne e per l' arido altopiano di Bademme. Una guerra tra  fratelli-nemici che ha provocato solo morti e fame. E non finita...

Se tutte le guerre sono inutili ' a parte quelle decise da organizzazioni internazionali a tutela di popoli aggrediti, secondo il «diritto di ingerenza umanitaria», sostenuto anche da Giovanni Paolo II - quelle africane, le «guerre fra i più poveri», sono particolarmente inutili e fonte di perduranti sofferenze. È durata trenta mesi la guerra di frontiera fra Eritrea ed Etiopia, dal maggio 1998 al giugno 2000, e ha causato 50 mila morti, 400 mila profughi, ingigantendo gli effetti di una carestia per siccità  che ha colpito 16 milioni di persone in Etiopia e 850 mila eritrei.
È stata definita «una guerra tra due calvi che si battono per un pettine», cioè per qualche cresta di montagne e per l' arido altopiano di Bademme. Impegnando eserciti degni della prima guerra mondiale, 600 mila uomini, e costando 1 milione di dollari al giorno.
Certo, sullo sfondo ci sono motivazioni più profonde: la mancanza per l' Etiopia di uno sbocco al mare dopo l' indipendenza dell' Eritrea, il fatto che il governo eritreo aveva cancellato le facilitazioni al governo etiopico per i due porti di Massaua e di Assab ed era uscito da una specie di «mercato comune» con il potente vicino. Ma problemi tutti che si potevano risolvere con un arbitrato internazionale, con il dialogo e non con le armi. Se non fosse emersa una rivalità  accesa fra i due capi di governo, l' eritreo Isaias Afeworki e il tigrino Meles Zenawi, al potere ad Addis Abeba.
Sono due «fratelli-nemici», alleati per lunghi anni nella guerriglia contro il «ras rosso» Menghistu - appoggiato dall' Unione Sovietica - che erano riusciti a rovesciare con le armi nel 1991. Il Tigré è la regione etiopica che confina con l' Eritrea, e tutto faceva presagire, in quel 1991, una proficua collaborazione fra i due capi guerriglieri che si apprestavano a reggere i due stati l' uno, l'Etiopia, antichissimo, che aveva tenuto testa al colonialismo italiano, l' altro, l'Eritrea, che si preparava a muovere i primi passi.
Simile era anche la loro formazione, tutti e due, Afeworki e Zenawi, avevano adottato il marxismo-leninismo al tempo della guerriglia, per poi avvicinarsi al liberismo alla caduta del comunismo.
Ma i due uomini avevano forti ambizioni e, una volta al potere, da «fratelli» si sono trasformati in «nemici», puntando entrambi, per sé e per il proprio stato, a un' «egemonia regionale», all' egemonia del cosiddetto «Corno d' Africa», la punta orientale del continente che ha una forte importanza strategica e comprende, oltre a Eritrea ed Etiopia, anche la Somalia. Chi ne ha fatto le spese sono stati i popoli: il ricavato delle privatizzazioni etiopiche è finito nelle casse delle multinazionali delle armi, l' Eritrea non ha neppure iniziato a risanare le ferite della lunghissima lotta per l' indipendenza, e ha conosciuto (ma anche provocato) altre ferite e altre distruzioni.
La guerra fratricida fra i due ex-compagni d' arme e fra popoli che hanno tradizioni in comune - i tigrini parlano una lingua simile all' eritreo - è terminata solo il 12 dicembre dell' anno scorso, con un accordo di pace che si vorrebbe «globale».

Costretti alla pace

 

Un presidente dell' Algeria dal volto radioso, Abdelaziz Bouteflika, «obbliga», al Palazzo delle nazioni di Algeri, un Aferworki e uno Zenawi alquanto reticenti a una stretta di mano. Alla presenza del segretario dell' Onu, l' africano Kofi Annan, che esclama: «L' Africa non può permettersi il lusso di altre guerre».
L' accordo tocca tutti i punti in contestazione: come arrivare a definire la frontiera fra i due stati sulla base del «tracciato storico», le facilitazioni all' Etiopia per l' uso dei porti eritrei, le agevolazioni commerciali fra i due paesi. Il segretario dell' Onu è presente e mallevadore perché 4 mila «caschi blu» formeranno una fascia di interposizione e perché la ricostruzione sarà  sostenuta da ingenti aiuti internazionali: 400 milioni di dollari dalla sola Banca Mondiale. La pace sopravvenuta quando ormai c' era molto scetticismo, sembra rilanciare le possibilità  di un' analoga composizione per l' altro grande paese del Corno d' Africa, la Somalia, travagliato dal 1991da un' interminabile guerra civile fra capi e capetti.                                                                                                        

Il paradosso Somalia

La Somalia è il «buco nero» dove sono state inghiottite le buone volontà  della comunità  internazionale, dove non sono valse né le spedizioni militari dell' Onu (ricordate il fallimento della operazione multinazionale «Restore hope» nel 1992-95?) né gli sforzi umanitari delle Ong a riportare sicurezza e ordine. Il paese ha continuato per dieci anni a essere ingovernabile, sottoposto alla sola legge del più forte, disgregato da mille clan e decine di «signori della guerra».
Intanto il Nord - Somaliland - e il Nordest - Puntland - hanno fatto secessione. Il paradosso è che in mezzo a quest' anarchia dello stato la società  civile ha continuato a sopravvivere e addirittura a muoversi: è vero che un bambino su quattro è denutrito, ai limiti della vita, ma la Somalia è anche il paese africano che ha forse il maggior numero di «telefonini», una rete efficiente di telefonia satellitare, banche fra le più celeri nel trasferire il denaro.
È per iniziativa della società  civile che a Gibuti, nell' agosto 2000, è stato messo in opera un parlamento su base dei clan (cabile) che ha eletto finalmente un presidente della repubblica, Abdikassim Salad Hassan, e un primo ministro, Alì Khalif Galaydh.
Sono due tecnocrati con competenze di governo, capaci di rimettere in piedi un' amministrazione centrale. Se glielo consentiranno i «signori della guerra»: dopo aver minacciato di impedirgli l' ingresso nella capitale Mogadiscio, Hussein Aidid - figlio ed erede del capo, probabile responsabile dell' uccisione di militari e civili italiani - ha finalmente accettato la mediazione del leader libico Gheddafi e firmato, almeno sulla carta, un «patto di riconciliazione» nazionale.
L' Italia, senza clamori, sta facendo la sua parte: il sottosegretario agli Esteri, Rino Serri, era presente all' «Accordo di pace globale» ad Algeri fra Eritrea ed Etiopia, e sta mediando, con azione silenziosa e paziente, fra i capo-clan somali. Il nostro paese ha già  stanziato aiuti consistenti per i tre paesi del Corno d' Africa.
Oggi la situazione è lontana dall' essere soddisfacente: le truppe etiopiche non si sono ancora mosse dalle creste di montagne conquistate, le truppe di interposizione dell' Onu si stanno dispiegando con troppa lentezza. E in Somalia l' autorità  del governo centrale resta più formale che sostanziale. Ma i primi passi sono stati fatti e, in una situazione così disperata e disperante, è già  questo un segno di buona volontà  e di riconciliazione sperata.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017