Un modello di convivenza
Segafreddo. Come si esprime l’italianità in Sudafrica?
Pinna. Si esprime con molta evidenza. Bastano alcuni dati: 49 associazioni italiane a Johannesburg, 15 a Cape Town, 10 a Durban, 3 Consolati, 3 Comites, 2 membri nel Cgie, il sottoscritto e il collega Giuseppe Nanna che è anche membro del Comites di Gauteng. Insomma è una piccola ma attivissima comunità con una Casa per anziani a Johannesburg, centri di assistenza nelle tre regioni dello Stato; una serie di strutture culturali, sportive e sociali; una bellissima sede della Società Dante Alighieri con sedi dislocate a Cape Town e a Durban. Johannesburg è il centro più importante per le nostre attività perché vi risiede il maggior numero di connazionali. Siamo molto legati alla madrepatria anche perché, fino al 1994, avevamo il problema dell’apartheid: un fenomeno che non ci ha discriminato – come la gente di colore, gli indiani o gli asiatici – ma ci ha reso dei «White B»: dei bianchi di serie B. Con la proibizione di partecipare a cariche amministrative, municipali o governative. Tale situazione ha reso il Sudafrica l’unica comunità al mondo dove, pur essendoci una consistente presenza di italiani, non c’è nessun loro rappresentante al Parlamento e al governo del Paese. Veniamo, infatti, ancora considerati «White»: anche se nel referendum del 1992-93 la comunità minoritaria degli italiani ha sostenuto la campagna «One man, one vote», cooperando alla vittoria del Sudafrica rainbow-nation, uno stato democratico, molto ben rappresentato da colui che ne fu il padre: Nelson Mandela. Ora stiamo cercando d’inserire alcuni nostri rappresentanti nella vita politica sudafricana.
Che avvenire si prospetta per le nuove generazioni italiane in Sudafrica?
I nostri giovani sono molto responsabili. Professionalmente ben preparati. Come artigiani e imprenditori di grande livello seguono con onore le orme dei padri. Purtroppo tanti devono ri-emigrare per la difficoltà di trovare un’occupazione adeguata. Hanno però la fortuna – che per noi residenti è una «sfortuna» – di essere richiesti da altri Paesi come la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, l’Australia o la Nuova Zelanda dove, grazie alla conoscenza della lingua, possono facilmente inserirsi. Ma questo esodo crea un duplice problema: la perdita di tanti giovani che potevano preferire l’Italia da dove sono partiti i loro genitori o nonni, agli altri Stati se ci fosse il riconoscimento dei loro titoli di studio; e la conseguente solitudine – a volte tremenda – dei loro genitori, costretti ad avere i figli sparsi nel mondo.
Riguardo al futuro nutre qualche speranza?
Nonostante tutto sono ottimista perché credo che il Sudafrica sia una terra baciata da Dio. Il miracolo del passaggio dall’apartheid alla Repubblica democratica è l’unica testimonianza di un «passaggio» senza una guerra civile, fatto a tavolino tra i Premi Nobel Nelson Mandela e l’ultimo presidente bianco, Frederik De Klerk. Nel 2009 ci sarà la Confederations Cup che per il Sudafrica è un test di prova; ma abbiamo la speranza che si possano ospitare anche i Mondiali del 2010. Sono eventi che possono far conoscere il Sudafrica, nonostante le sue problematiche e contraddizioni, come un Paese al quale il mondo intero deve rivolgere la sua attenzione perché può essere un punto di rilancio del continente africano.
Come si compone il mondo delle associazioni?
Come negli altri continenti, ci sono associazioni attivissime e altre «dormienti». Dopo la Conferenza di Roma, anche noi cerchiamo un recupero generazionale. È sorta un’associazione di italo-sudafricani con 600 membri, oltre al Gruppo Giovani Cgie, che ha l’impegno specifico di «informare e coinvolgere», per creare un’associazione nazionale di giovani, dando linfa nuova alle istituzioni, agli enti, ai Comites, al Cgie, con la speranza di far rinascere l’italianità e nuovi sensi d’appartenenza alla terra dei padri.