Un mondo che ha sete

Dal 16 al 22 marzo a Istanbul si terrà il quinto Forum mondiale dell’acqua. Un summit importante, anche se da più particriticato, al quale approda anche la battaglia dei gruppi che combattono per il riconoscimento dell’acqua come diritto umano universale.
25 Febbraio 2009 | di

«E non venite a dirmi che l’Italia soffre di siccità!». Al quindicesimo giorno di pioggia, la signora di ritorno dal mercato, in cerca di un difficile equilibrio tra i sacchetti della spesa e l’ombrello, dà voce alla drammatica contraddizione che il nostro Paese, e l’intero pianeta, vive ormai da qualche anno. Precipitazioni intense e prolungate alternate a lunghe fasi di emergenza idrica. Banalizzando, troppa acqua in certi periodi, troppa poca in altri. Basterebbe riuscire a conservarla, verrebbe da dire, e si potrebbero far quadrare i conti. Evidentemente la cosa non è così semplice, anche se è proprio sulla possibilità di portare il «bilancio» in pareggio che ormai gli esperti discutono a tutti i livelli. Infatti, come pochi lungimiranti profeti nel deserto avevano predetto oltre trent’anni fa, l’acqua è diventata preziosa, è «oro blu», terreno di speculazione e miniera per le grandi multinazionali, campo su cui si combatte una battaglia senza esclusioni di colpi. In prima linea sono schierati migliaia di gruppi che, in un movimento trasversale senza colore – da alcuni Comuni ai pacifisti storici, dalle comunità di base ai comitati di quartiere, dalle chiese cristiane ai movimenti popolari –, stanno dando filo da torcere alle grandi imprese, ai governi e ad amministrazioni compiacenti.

I dati raccontano, infatti, che il consumo dell’acqua – bene comune indispensabile per la sopravvivenza degli esseri viventi, risorsa finita, che condiziona sempre di più lo sviluppo economico e sociale –, negli ultimi tempi è aumentato a dismisura: all’inizio del ’900 nel mondo si consumava un decimo dell’acqua che si consuma attualmente, con l’aggravante che adesso l’inquinamento ne rende inutilizzabile per uso potabile una sempre maggiore quantità.
Già oggi si calcola che un miliardo di persone al mondo beva acqua sporca con conseguenze catastrofiche per la salute: ogni anno, infatti, muoiono circa cinque milioni di persone (dei quali almeno 1,6 sono bambini) per malattie causate dall’acqua inquinata. La World Health Organization (Who) ha valutato che il consumo di mille metri cubi/anno d’acqua pro capite, costituisce il limite al di sotto del quale è impossibile avere uno sviluppo economico e garantire la salute e il benessere delle persone. Situazioni critiche (quantità medie disponibili intorno a mezzo metro cubo/giorno di acqua per persona) erano già presenti dal 1990 in quattro Paesi (Libia, Malta, Arabia Saudita e Yemen) che si prevede diventeranno sette nelle proiezioni del 2025 (ai Paesi già menzionati si aggiungono Giordania, Siria ed Emirati Arabi). Attualmente il 40 per cento della popolazione mondiale vive in aree afflitte dalla scarsità d’acqua e si prevede, in mancanza di nuove politiche, che questa percentuale salirà al 65 per cento nel 2025. Medio Oriente, Africa Settentrionale e Asia Meridionale sono le regioni a più alto rischio. È evidente che la disponibilità di acqua dolce nel mondo non è ugualmente distribuita sul pianeta. Le zone soggette a scarsità e difficoltà idriche sono in crescita particolarmente nel Nord Africa e nell’Asia Occidentale, aree queste in cui la disponibilità di acqua pro capite è al di sotto del limite indicato dalla Who.
Nel corso dei prossimi due decenni si prevede che il mondo avrà bisogno del 17 per cento di acqua in più per la coltivazione dei prodotti agricoli necessari a sfamare le popolazioni in crescita dei Paesi in via di sviluppo, e che, di conseguenza, l’impiego complessivo delle risorse idriche registrerà un incremento pari al 40 per cento.
A rendere più drammatico il quadro, si aggiunge la constatazione che anche la quantità di acqua dolce pro capite disponibile è destinata a crollare: dai 16.800 metri cubi a persona nel 1950, ai 7.300 del duemila, ai 4.800 previsti nel 2025. Una diminuzione dovuta essenzialmente a tre fenomeni. In primo luogo l’aumento della popolazione mondiale che determina una vertiginosa crescita della domanda. È un problema, questo, che si avverte soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. La popolazione mondiale continua a crescere rapidamente, ma sulla terra non c’è più acqua di quanta ce ne fosse migliaia di anni fa, quando il numero di individui era notevolmente inferiore rispetto a quello attuale. Secondo fattore è l’inquinamento dell’acqua, causato da scarichi civili (che sversano nei fiumi materia organica in quantità tali da superare le potenzialità autodepurative dei corsi d’acqua); da scarichi industriali (che immettono nell’ambiente acquatico metalli pesanti e altre sostanze tossiche per gli organismi vegetali e animali, uomo compreso); fertilizzanti e pesticidi (veicolati dalle acque di scolo provenienti dai campi coltivati e dagli scarichi industriali, che provocano rispettivamente fenomeni di eutrofizzazione, cioè di crescita eccessiva di alghe, e sono altamente nocivi per i corpi idrici ricettori e difficilmente eliminabili con i trattamenti convenzionali di depurazione); ricaduta tramite pioggia di sostanze emesse da industrie e veicoli a motore e trasportate attraverso l’atmosfera. E, infine, i cambiamenti climatici globali. Anche l’effetto serra, causato dall’aumento della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera, avrà ripercussioni sull’assetto idrico del pianeta. Si stima che nelle regioni aride un aumento annuale delle temperature pari a 1-2 gradi porterà a una diminuzione del 10 per cento nelle precipitazioni, mentre nelle zone a clima freddo e temperato si prevede uno stravolgimento della distribuzione delle portate dei fiumi nel corso dell’anno.
Se non interverranno inversioni di tendenza, scrivono gli esperti, la domanda supererà la disponibilità prima del 2050. Si assisterà allora a una grave crisi che coinvolgerà la maggior parte della popolazione mondiale, con abbassamento della qualità della vita e ritardi nello sviluppo economico e sociale. Saranno questi numeri a tener banco al quinto Forum mondiale dell’acqua che si aprirà a Instanbul il 16 marzo per poi concludersi il 22, Giornata mondiale dell’acqua. Un forum importante, dove approderà anche la battaglia delle migliaia di gruppi che, a livello mondiale, sono contro la privatizzazione della gestione idrica e combattono per il riconoscimento dell’acqua come diritto umano universale. «L’Onu ha rinviato il riconoscimento del diritto all’acqua al 2011, lanciando un brutto segnale proprio nel sessantesimo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» ha dichiarato Emilio Molinari, presidente del Comitato italiano per il contratto mondiale sull’acqua. Il quale, partecipando al convegno tenutosi a fine novembre a Milano su questi temi, ha ricordato come «in Italia una legge obbligherà le amministrazioni locali a privatizzare i servizi idrici» mentre nel mondo le cose vanno diversamente. In America Latina, per esempio, dove le lotte contro la privatizzazione e il diritto di accesso all’acqua sono state il motore di cambiamenti sociali e politici epocali (Uruguay, Bolivia, Venezuela, Ecuador hanno rescisso i contratti con le grandi multinazionali e inserito nelle proprie costituzioni l’acqua come diritto umano universale e la gestione partecipativa e comunitaria al servizio idrico); o in Francia, dove il Comune di Parigi ha deciso che entro il 2010 solo il pubblico garantirà tutto il ciclo dell’acqua, dalla produzione alla distribuzione, togliendola a Suez e Veolia, i due più importanti operatori mondiali privati del settore. Nel nostro Paese è stato messo sotto accusa l’articolo 23 bis della legge 133, che rende sempre più difficile per i Comuni evitare la privatizzazione delle loro reti entro il 2010. Una legge duramente contestata dalle decine di comitati per l’acqua nati in tutta Italia che hanno raccolto 440 mila firme, depositate nel luglio 2007, per presentare una proposta di legge che favorisca «la definizione di un governo pubblico e partecipativo del ciclo integrato dell’acqua, in grado di garantirne un uso sostenibile e solidale» (art.1, comma 2).
E mentre gli esperti discutono delle soluzioni da trovare per una gestione intelligente delle acque, a livello locale si moltiplicano le proteste: a Milano, per esempio, 144 Comuni hanno chiesto un referendum per cancellare una legge della giunta Formigoni del 2006, che anticipava il 23 bis e separava erogazione e gestione del servizio; ad Aprilia settemila famiglie da due anni continuano a pagare le bollette al Comune, mantenendo la tariffa pubblica e respingendo quella di Acqualatina (la spa mista controllata dalla multinazionale Veolia) che comporta aumenti anche del 300 per cento.
 
Per una gestione integrata
 
«È indispensabile definire un’attenta strategia per un uso sostenibile delle risorse idriche, basata sul principio che l’acqua non costituisce un “bene di tutti”, ma una “necessità di tutti”. L’unica politica possibile è l’applicazione di una gestione integrata dell’acqua, che significa una gestione del ciclo idrologico secondo logiche tecnico-economiche» spiega Marina Prisciandaro, professore associato titolare a L’Aquila del corso di Impianti Biochimici presso la Facoltà di Biotecnologia e dell’insegnamento di Ingegneria Chimica Ambientale alla Facoltà di Ingegneria. La svolta è «passare dal concetto di ciclo aperto a quello di ciclo integrato chiuso. Questo implica un cambiamento di prospettiva che si pone come obiettivo la costanza nel tempo delle riserve acquifere». In altre parole, il mantenimento delle riserve di acqua diviene l’indicatore di una corretta gestione integrata del ciclo. Per garantire ciò, il consumo di acqua deve uguagliare il flusso di precipitazioni, al quale si aggiunge la quantità necessaria di acqua riutilizzata e/o dissalata.
L’unica strada percorribile è quella di una gestione integrata delle risorse idriche a livello mondiale e nazionale, ma anche locale. Sembra, però, improbabile che essa possa essere delegata alla comunità internazionale, sotto la guida della Commissione per lo Sviluppo Sostenibile. Realizzare i programmi, indicati al capitolo 18 di Agenda 21 sotto il titolo «Conferenza sullo sviluppo e inquinamento. Impatto del cambiamento climatico sulle risorse idriche», tenuta a Rio De Janeiro nel 1992, significherebbe partire da due condizioni al momento difficili: un generale consenso tra tutti i Paesi partecipanti che risulta praticabile solo se si considerano strategie e programmi attuativi sulle sostenibilità e disponibilità delle risorse idriche, al di là dei singoli interessi nazionali e politici; in secondo luogo, la disponibilità di adeguate risorse finanziarie, costantemente decurtate dai vari Paesi. Per questo motivo bisogna investire anche a livello locale. «Sono diverse le strategie che sono state sviluppate per sopperire alla mancanza di acqua: una consiste nella costruzione di acquedotti per il trasferimento dell’acqua da bacini idrografici ricchi a zone con deficienza idrica (canale di Provenza in Francia, che collega la regione con il Tajo-Segura in Spagna)» sostiene Prisciandaro. «Progetti di questo genere richiedono, però, un impegno economico e ingegneristico notevole, senza considerare l’impatto ambientale. Altre soluzioni possono essere quelle di limitare le perdite di acquedotti, dissalare l’acqua di mare e quella salmastra». La dissalazione, spiega l’esperta, «pur essendo un processo tecnologicamente maturo, risulta piuttosto costoso. E tra gli addetti ai lavori c’è accordo sul fatto che non sia la soluzione per la crisi idrica mondiale, o meglio lo diventa solo nel momento in cui le altre risorse di acqua disponibili per il riuso siano esaurite». Non è un caso che nel mondo l’acqua dolce ottenuta tramite dissalazione ammonta a 4.82 km cubi/anno e più del 60 per cento appartiene ai Paesi del Medio Oriente, i quali non hanno problemi di costi energetici. La soluzione più fattibile dal punto di vista economico per fornire le necessarie integrazioni di acqua dolce per usi civili, è «sicuramente il riutilizzo delle acque reflue, cioè delle acque di scarico dei depuratori che attualmente finiscono in mare o nei fiumi, median­te te­cnologie che hanno subìto sviluppi tali da renderle industrialmente affidabili e largamente impiegate. Il riuso delle acque reflue ha l’importante beneficio di basarsi su una risorsa supplementare affidabile e comporta il contenimento dell’impatto ambientale dovuto alla riduzione o eliminazione degli scarichi. Inoltre il riuso in agricoltura riduce la necessità di fertilizzanti chimici, in quanto i nutrienti sono già contenuti nell’acqua, anche se per poter essere riutilizzata l’acqua effluente dai depuratori necessita di ulteriori trattamenti». In questo settore della ricerca siamo comunque ancora in ritardo, perché, grazie alle sue abbondanti risorse idriche, l’Europa non ha ancora investito pesantemente sul riutilizzo.
Nel nostro Paese questo tipo di strategia è stato promosso da un Decreto del ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio (12 giugno 2003, n. 185), che intende dare impulso a tecnologie con lo scopo di «limitare il prelievo delle acque superficiali e sotterranee, riducendo gli impatti degli scarichi sui corpi idrici recettori e favorendo il risparmio idrico mediante l’utilizzo multiplo delle acque reflue».
Un lavoro di ricerca che deve andare di pari passo con la cura delle condutture idriche: «Mi fanno sorridere le campagne contro la dispersione dell’acqua che invitano a chiudere il rubinetto mentre ci si lava i denti: certo sono educative per uno stile di sobrietà, ma ricordiamoci che dovremmo incidere a ben altri livelli: in Italia la rete idrica disperde il 40 per cento dell’acqua dolce per l’inadeguatezza delle condutture» conclude Prisciandaro.
Lavorare su questo fronte è un’impresa non da poco, se si calcola che gli Stati Uniti e il Canada per modernizzare le loro reti idriche dovranno spendere, nei prossimi venticinque anni, 36 mila miliardi di dollari.
 
I numeri
5 litri: il fabbisogno minimo pro capite nelle 24 ore. Senza cibo si può vivere un mese, senz’acqua non più di una settimana;
1 miliardo: le persone nel mondo che bevono acqua «non sicura»;
1, 2 miliardi: gli abitanti, pari a 1 su 5, che non dispongono di sufficiente acqua potabile;
5 milioni: i morti ogni anno a causa dell’acqua inquinata;
5 mila: i bambini al di sotto dei 5 anni di età che muoiono ogni giorno per l’acqua inquinata o insufficiente;
71%: la superficie terrestre coperta d’acqua, per il 97,5% salata;
29: i Paesi in cui i due terzi della popolazione sono ancora al di sotto del fabbisogno idrico vitale.
 
 
 
Oltre i parametri economici di Sabina Fadel
 
Fare pace con l’acqua
 
Un nuovo modello politico di gestione del «bene comune acqua» basato sul concetto di condivisione e solidarietà. Lo hanno auspicato oltre 500 esperti riuniti di recente a Bruxelles.
 
Riccardo Petrella è uno dei maggiori esperti a livello mondiale delle tematiche correlate all’acqua. Professore di mondializzazione presso l’Università Cattolica di Lovanio, fondatore e segretario del Comitato Mondiale dell’Acqua e autore del Manifesto dell’Acqua, Petrella è anche presidente dello Ierpe. E proprio l’Istituto europeo di ricerca sulla politica dell’acqua ha organizzato (insieme con il World Political Forum, e col sostegno dei gruppi politici del Parlamento Europeo) il 12 e 13 febbraio scorsi, a Bruxelles presso la sede del Parlamento Europeo, la conferenza «Fare pace con l’acqua». «La Conferenza – spiega Riccardo Petrella – ha riunito oltre 500 persone, tra parlamentari e amministratori locali, organizzazioni internazionali, sindacati e imprese che si occupano di gestione dell’acqua, rappresentanti del mondo della ricerca e dell’educazione, associazioni e movimenti, con l’obiettivo prioritario di elaborare un “memorandum” per un Protocollo mondiale sull’acqua, centrato su alcune priorità: la prevenzione dei conflitti, la promozione del diritto all’acqua per tutti e la salvaguardia del patrimonio idrico mondiale, per una gestione responsabile ed efficace del “bene comune acqua”. Non si può continuare a organizzare conferenze per poi lasciare alle multinazionali o agli Stati più forti, quelli cioè che a livello mondiale possono incidere sull’effettivo modo in cui si utilizza l’acqua, la scelta delle politiche di gestione di questo bene fondamentale, perché essi perseguono interessi che, seppur legittimi, sono settoriali e corporativistici».
 
La situazione nel mondo sta diventando drammatica, ogni giorno muoiono 5 mila bambini al di sotto dei 5 anni a causa di malattie dovute ad assenza di acqua potabile o disservizi sanitari. «È necessario – sostiene ancora Petrella – che si realizzi subito un piano mondiale, perché ormai tutte le regioni, anche quelle teoricamente ricche di risorse, si devono confrontare con problemi di penuria idrica. I casi più urgenti sono rappresentati da Cina e India: stati molto popolosi, che hanno sfruttato le loro già scarse risorse in maniera sconsiderata (hanno fatto sparire più di 30 mila laghi e i loro principali fiumi non portano quasi più acqua al mare) e che si troveranno a fare i conti con un’emergenza idrica quantitativa e qualitativa. Ma anche gli Stati Uniti non se la passano bene: hanno praticamente seccato le loro falde e i loro corpi idrici. In questo caso il problema è legato agli alti consumi: basti pensare che in Belgio ogni giorno si utilizzano 106 litri di acqua per persona (per usi domestici), mentre negli Stati Uniti si sale a 801 litri al giorno che, negli ambienti urbani, diventano 1117. D’altra parte gli Usa non sono disponibili a mettere in crisi il loro stile di vita: l’approvvigionamento, quindi, sarà sempre più problematico. E poi c’è l’Africa. Un incubo: ci troviamo di fronte a un continente ricco di acqua (a parte alcune zone desertiche non significative), ma troppo povero per avere gli strumenti per utilizzarla.
 
Se poi usciamo da un’analisi per zona geografica, due saranno le categorie di popolazione particolarmente indebolite dall’aggravamento della crisi idrica mondiale: le popolazioni urbane delle grandi baraccopoli (si pensa che nel 2030 ci saranno più di 2 miliardi e 400 milioni di persone negli slums, prive di servizi e acqua) e gli abitanti dei villaggi rurali». Quali, allora, le soluzioni? «Attualmente – conclude Petrella – le priorità delle agende politiche in materia di ambiente e di acqua gravitano soprattutto intorno alle strategie di adattamento al cambiamento climatico, di cui l’asse centrale è l’energia. È importante, invece, che la questione idrica venga messa nell’agenda dei negoziati che gli Stati porteranno avanti tra il 2010-2012, in vista dei nuovi accordi post-Kyoto del 2013. La nostra speranza è che si riesca a creare un nuovo paradigma politico dell’acqua, che parta da alcune considerazioni come il diritto alla vita e il considerare l’acqua un bene comune per tutte le specie viventi. L’acqua è di tutti, e va con tutti condivisa e gestita. Non si può agire solo a livello nazionale. Noi auspichiamo, in definitiva, un modello politico basato sul concetto di condivisione e solidarietà, e non su parametri puramente economici»
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017