Un ospedale chiamato «santantonio»
Nel «Messaggero di sant’Antonio» (nr. 12, dicembre 2021, p. 61) è riportato l’articolo Un ospedale chiamato santantonio della scrittrice prof.ssa Antonia Arslan, che fa riferimento all’articolo del «Gazzettino» del 7 luglio 2020 dal titolo L’appello del Cappellano: salvate la statua del Santo all’ingresso dell’Ospedale dI Nicola Benvenuti. Il cappellano don Massenzio Lazzari lamentava lo stato di abbandono in cui versava la statua, in particolare lasciata in balia dei piccioni, e diceva «Fu donata nel 2006 dai medici... È una bella statua realizzata in pietra di Vicenza, di cui non è noto l’autore». La scrittrice concludeva il suo articolo: «… possibile, per un’opera di pochi anni fa? E di chi sarà la mano che l’ha scolpita?».
Interessato dalla notizia, ho contattato la dott.ssa A. Fede, che nel 2006 era in servizio all’Ospedale sant'Antonio e che era stata la promotrice per la realizzazione del simulacro in questione. Mi riferì che era stato realizzato nel laboratorio Morseletto di Vicenza. Guardando la base della statua si nota la sigla L M., che vuol dire Laboratorio Morseletto, una azienda sita in via dell’Economia n. 97 a Vicenza. Si tratta del laboratorio artistico dove si lavora la pietra di Vicenza, fondato da Pietro Morseletto, scultore vicentino, oggi proprietà di Barbara, Deborah e Paolo Morseletto.
La statua del Santo di Padova, quindi, è stata realizzata in questo laboratorio. Dopo aver inviato una mail a tale laboratorio per conoscere l’autore della statua, ho ricevuto la seguente risposta firmata Deborah Morseletto: «… può indicare genericamente Laboratorio Morseletto - Vicenza (non ricordo quale degli scultori, peraltro ora in pensione, ha scolpito la statua». Con queste brevi note penso di aver dato una risposta, sia pure parzialmente, al quesito della prof.ssa Arslan.
dr. Rocco Orlando
Qui di seguito l'articolo di Antonia Arslan a cui fa riferimento il lettore.
Un ospedale chiamato «santantonio»
di Antonia Arslan
Per i padovani «andare all’ospedale» e «andare al santantonio» sono frasi dal significato parallelo, entrambe un po’ allarmanti per la sensibilità del cittadino comune. Il secondo ospedale della città è stato, infatti – dal 2006 – dedicato al Santo, e a chiunque può capitare di doverci andare, per un esame prenotato, perché ha bisogno di un medico che ci lavora, oppure perché l’altro è pieno. A me non era quasi mai successo. Devo confessare che, pur interessatissima a cercare ovunque le più curiose e inedite immagini di Antonio (e usando anche, spesso, quelle che gentili e interessati lettori mi mandano sollecitamente), non avevo mai riflettuto sull’ospedale e sul suo nome.
Qualche mese fa ho dovuto cominciare a frequentarlo e ad apprezzarne lo stile, un po’ più familiare dell’altro grande ospedale, onusto, cioè carico, di storia antica e moderna; e tuttavia ci entravo di corsa, sempre all’ultimo minuto, e non mi ero mai soffermata a osservare davvero lo spiazzo davanti all’ingresso, non mi ero mai seduta su una panchina, guardandomi intorno con calma. L’ho fatto di recente, dovendo aspettare l’amica con la quale mia figlia Cecilia e io avevamo appuntamento dopo la mia visita. Ma tutto avviene a suo tempo. Quel giorno la mia amica era in ritardo. Cecilia e io stavamo chiacchierando quando lei improvvisamente mi disse: «Ma tu l’hai visto il Santo?». Mi condusse, allora, verso la scintillante teca di vetro in cui è custodita la grande statua del dedicatario dell’ospedale, il nostro Antonio.
C’era un gran sole. Il vetro rifletteva minuziosamente il mobile paesaggio attorno, di auto in movimento, di muri, finestre, terrazzi, gente che entrava e usciva, in un flusso continuo di colori e persone. Dentro le pareti e il tettuccio triangolare trasparente, sormontato dalla croce, come isolata ma non distratta, ecco la statua di pietra bianca, alta, sorridente, col Bambino paffuto seduto sul braccio destro, che si attacca con la mano sinistra alla cocolla della veste del Santo: un gesto bellissimo, confidente e affettuoso. Gli umili omaggi di fiori e piante portati dai pazienti, coi loro vivaci colori, erano poggiati a terra fuori della parete di vetro, protetti da una catenella tutto intorno, come minuscoli, rispettosi ex voto. Tutto dava l’idea di una piccola ma intensa oasi di quiete spirituale, cui faceva cornice il verde degli alberi e dei cespugli sullo sfondo. Poi mi accorsi che il Santo e il Bambino avevano entrambi capelli ricci, pettinati in avanti a grosse ciocche sulla fronte come le teste delle statue romane, di cui riprendevano anche la pacatezza austera. Forse il loro misterioso sorriso, appena accennato eppure deciso, era stato pensato apposta per dare forza, come a trasmettere un viatico benevolo a chi entrava nell’ospedale.
Facemmo un paio di fotografie. Riguardandole adesso, mentre sto scrivendo, mi sono accorta che tutto l’insieme sembrava restaurato da poco. Mi sono incuriosita, e ho trovato in rete un articolo del «Gazzettino» del 7 luglio 2020. Riportava l’indignazione del cappellano dell’ospedale, che è là da 18 anni, per le condizioni di abbandono in cui era lasciato il Santo, in balia di vandalismi e di piccioni. Raccontava dei suoi ripetuti tentativi di smuovere le autorità per ottenerne un decente restauro (che, nel frattempo, è avvenuto!). Così imparai che la statua era un’opera recente in «pietra di Vicenza», donata nel 2006 dai medici che lavoravano all’ospedale, quando da Cto divenne il secondo nosocomio di Padova e assunse il nome attuale. Dice ancora l’articolo: «L’autore non è noto». Possibile, per un’opera di pochi anni fa? E di chi sarà la mano che l’ha scolpita?