Un respiro internazionale
Gian Maria Vian è figlio d’arte. Suo padre – coltissimo segretario della Biblioteca Vaticana – aveva frequentazioni d’alti prelati e passava ore in dotti conversari con vescovi e cardinali. Non si trattava di discussioni laiche, bensì di sottili disquisizioni in cui aleggiavano santi e devoti, mistici e teologi, padri della Chiesa e grandi eretici, Papi riformatori e Papi peccatori. La domenica, invece di giocare in cortile, il padre Nello lo portava ad ascoltare la messa solenne in San Pietro così che, della sua infanzia, Gian Maria ha un solo, indimenticabile ricordo: il fruscio di vesti scarlatte e l’odore di incenso. Con questi precedenti, la carriera era già tracciata. A ventisette anni ha vinto la Cattedra di filologia patristica e a cinquantacinque è stato chiamato dal Papa a dirigere il prestigioso organo della Santa Sede: «L’Osservatore Romano».
«Ho di mio padre, e di tutta la mia famiglia – confida – un ricordo indimenticabile. Mi hanno lasciato un’eredità preziosa e impegnativa. Capisco bene perché Marco Aurelio abbia cominciato i suoi ricordi dichiarando i debiti affettivi verso la famiglia. Che resta il luogo fondamentale di formazione».
Msa. Quando penso a «quel» Vaticano e a certi laici esemplari come Raimondo Manzini, Federico Alessandrini e come, appunto, Nello Vian, uomini che hanno servito la Chiesa anche con grandi sacrifici personali, mi viene in mente il famoso vaticanista Silvio Negro. Lui oggi avrebbe scritto: «È tutto un mondo scomparso».
Vian. Sì, è un mondo molto cambiato. «Quel» Vaticano non c’è più. Per molti aspetti lo si può rimpiangere, ma bisogna dire che aveva anche i suoi limiti, come ogni realtà umana. Il Vaticano di oggi, in confronto, ha un vantaggio: quello di essere più internazionale e di avere uno sguardo più largo. Un merito da ascrivere a Pio XII, che già nel 1946 avviò questo processo nel collegio cardinalizio.
Ma forse si è abbassato il livello culturale?
Come dappertutto. Essendo la cultura più diffusa, il livello è sceso. Da questo osservatorio privilegiato sono però colpito dall’eccellente preparazione sia del personale diplomatico, sia di quello che lavora nella Segreteria di Stato.
Ma come funziona la comunicazione in Vaticano? Si sente dire che è sempre in ritardo sul proprio tempo.
A dire la verità, qui al giornale siamo spesso noi ad anticipare il dibattito, come abbiamo fatto in diverse occasioni, per esempio sulla morte cerebrale. Ma bisogna evitare quel fenomeno che ha indotto Bernard Lecomte – l’intelligente biografo di Giovanni Paolo II – a scrivere addirittura un libro sul fatto che il Papa ha una cattiva stampa («Pourquoi le Pape a mauvaise presse»). Certo, vi sono state bufere mediatiche: sul vescovo lefebvriano che nega la Shoah, sulla lotta all’Aids in Africa, su Papa Pacelli. È stato proprio Benedetto XVI a dire, con molta franchezza e semplicità, che si può e si deve migliorare.
Voglio insistere su questo punto: perché le associazioni, le stesse diocesi, perché il mondo cattolico in generale è così allergico alla comunicazione?
Credo che vi sia un atteggiamento di chiusura, direi di diffidenza nei confronti della modernità. E così nel dibattito si tende a essere autoreferenziali anche nell’uso del linguaggio.
Vuole dire che si parla troppo «ecclesialese», come i politici parlano il «politichese»?
Sì, in parte. Ma è una realtà che va cambiando. Anche per merito di tanti laici che si stanno avvicinando al cattolicesimo.
Il problema è più ampio. È tutta la stampa cattolica che non fa presa sulla realtà italiana.
Su questo si può discutere. Vi sono motivi storici che spiegano molto. La stampa cattolica in Italia era tradizionalmente legata – lo dico con un’espressione che oggi va di moda – al territorio, cioè alle realtà locali. Negli anni Cinquanta la Chiesa aveva molti giornali cattolici, «Il Quotidiano» a Roma, «L’Italia» a Milano, «L’Avvenire d’Italia» a Bologna, «L’Eco di Bergamo» a Bergamo, «L’Ordine» a Como. Poi c’è stato il progetto di Paolo VI di dare vita a un grande giornale cattolico nazionale. È nato così «Avvenire», che nel 2008 ha festeggiato quarant’anni di vita e che è diventato una testata sempre più autorevole. E poi bisogna considerare i tanti fogli diocesani e i periodici, importanti e diffusi. Credo che l’impatto sulla realtà italiana sia maggiore di quanto appaia, ma certo anche in questo ambito si può e si deve fare di più. Anche per quanto riguarda il giornale vaticano.
C’è una ricetta per migliorare?
Si tratta, a mio parere, di trovare nuovi sistemi di distribuzione, per esempio abbinamenti con altre testate: come, dal 2008, facciamo la domenica con «L’Eco di Bergamo» e da pochi giorni in Spagna, dove la nostra edizione settimanale in lingua spagnola è stampata e diffusa con il quotidiano «La Razón». In questo modo abbiamo triplicato la nostra tiratura complessiva.
So che il suo predecessore, Mario Agnes, passandole il timone del giornale, le ha fatto l’augurio di una lunga direzione. Come vede il giornale in prospettiva?
Le prospettive di rinnovamento sono già in atto: un giornale presente in rete, abbinamenti con altre testate e, soprattutto, la possibilità di aumentare i suoi lettori – ancora troppo pochi – sia in Italia sia nel mondo. Insomma che possa sviluppare tutte le sue potenzialità, che sono davvero enormi.
A parte lo storico direttore, il conte Giuseppe Dalla Torre, a chi si sente più legato tra i suoi predecessori?
Manzini è stato il più grande direttore de «L’Osservatore Romano». Lo dico forse anche per ragioni personali, perché era amico di mio padre e io ho cominciato a scrivere sotto di lui. Manzini rimane, comunque, una figura leggendaria: quest’uomo alto, elegante, con i capelli d’argento, gli occhi azzurri, sempre sereno, sempre sorridente, sempre ottimista. Un grande giornalista. E un vero cristiano.
Adesso si dice: «L’Osservatore di Vian».
No, non è «L’Osservatore di Vian», è «L’Osservatore» di sempre, cioè il giornale della Santa Sede al servizio del Papa. Certo, ho avuto un incarico preciso: soprattutto quello di dare un respiro internazionale al giornale, che guardava forse un po’ troppo alla realtà italiana.
E come si comporta il direttore de «L’Osservatore» con questa realtà italiana?
Con molta cautela e con molto rispetto per le istituzioni italiane, e ovviamente anche con molto rispetto per le competenze della Conferenza episcopale italiana. Sono i vescovi italiani – come quelli degli altri Paesi – ad avere di norma titolo per intervenire nelle rispettive realtà.
Forse vi sentite più sicuri sulla politica internazionale? Là è più facile fare polemiche…
Il nostro giornale offre un vasto panorama internazionale per esplicita richiesta di Benedetto XVI e del suo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. Ma poi, anche su alcune questioni internazionali sono gli episcopati a prendere posizione. Pensi alle questioni etiche e biopolitiche poste dalla presidenza Obama. Noi per gli Stati Uniti seguiamo ovviamente la linea dei vescovi americani.
Ma tutti questi organi di stampa contribuiscono alla diffusione della cultura cattolica, o della cultura tout court?
La cultura è una sola. «L’Osservatore» ha dilatato i suoi orizzonti e oggi vi scrivono persone che cattoliche non sono: scrivono cristiani di diverse confessioni, ebrei, laici. E tutto questo per volontà del Papa. Come vede, per riprendere un titolo di Alberto Cavallari quando intervistò Paolo VI, anche «il Vaticano cambia».
La scheda. Gian Maria Vian
Nato a Roma il 10 marzo 1952, Giovanni (Gian) Maria Vian viene nominato direttore de «L’Osservatore Romano» nel 2007. Insigne studioso di storia della Chiesa,si è occupato di interpretazione della Bibbia nel giudaismo e nel cristianesimo antichi, di giudaismo ellenistico e di arianesimo latino, del problema della santità e dei simboli nel cattolicesimo tra Ottocento e Novecento, del papato in età contemporanea. Ha pubblicato una settantina di studi, tra cui l’edizione critica di Testi inediti dal commento ai Salmi di Atanasio e il volume Bibliotheca divina. Filologia e storia dei testi cristiani.Ordinario di filologia patristica presso l’Università «La Sapienza» di Roma e professore a contratto di storia della tradizione e della identità cristiane all’Università «Vita-Salute San Raffaele» di Milano, è stato editorialista di «Avvenire» e del «Giornale di Brescia». Ha collaborato con il «Corriere della Sera» e con «Il Giornale».Dal 1999 è membro del Pontificio comitato di scienze storiche e dal 1976 collabora con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.