Un sorriso dal Cgie
New York
Si chiama Augusto Sorriso, vive da quindici anni negli Stati Uniti, ma è siciliano di Licata, dove ha ricoperto, negli anni Ottanta, la carica di sindaco. Vecchio democristiano – come ama definirsi – oggi è in forza al partito di Berlusconi, nel quale è stato candidato al Senato per la circoscrizione Nord America. Alle ultime elezioni politiche è risultato il primo dei non eletti, con circa 10 mila di voti di preferenza. Successivamente, è stato eletto al Consiglio generale degli italiani all’estero e oggi è membro del Comitato di presidenza, in rappresentanza degli Usa e dei Paesi anglofoni.
Augusto Sorriso è anche impegnato nella circoscrizione consolare di New York e New Jersey, sia attraverso il coinvolgimento con la comunità italiana, sia mediante la sua partecipazione al Comites. Dal punto di vista più propriamente professionale, infine, Sorriso, negli Stati Uniti, si occupa di ristorazione e gestisce in franchising diversi punti vendita di prodotti alimentari.
Lo abbiamo intervistato, per meglio comprendere il ruolo, le prospettive e le criticità di un ente come il Cgie, specie in un momento storico come quello attuale, in cui le Istituzioni sembrano lontane dal trovare dei progetti condivisi e realmente fattivi per l’italianità all’estero.
Pascale. Da più parti si avverte una sorta di inutilità del Cgie, sia per i costi che per la sua reale incisività. Lei, Sorriso, cosa ne pensa?
Sorriso. «Secondo me il potere del Cgie andrebbe accresciuto, perché i suoi costi sono minimi. Quest’anno ammontano a meno di un milione e mezzo di euro, per una struttura in cui lavorano sessanta persone, più quelle di nomina governativa. Gradirei evidenziare solo alcune attività recenti che il Cgie ha portato avanti. Innanzitutto la grande Conferenza dei giovani italiani nel mondo. Senza le nuove generazioni non abbiamo futuro. Per questo il Cgie ha destinato parte del suo bilancio alla conferenza, tenutasi nel dicembre del 2008 a Roma. Poi ci sono la lingua e la cultura italiana. Personalmente, nel Cgie, sono sempre stato portatore di queste istanze, affinché le nostre comunità possano salvaguardare la propria identità. Il Cgie si fa portatore di richieste e protesta sempre per tutti i tagli che, in genere, vengono apportati ai finanziamenti per l’estero. Si pensi che, nell’ultimo Comitato di presidenza, anche le rappresentanze parlamentari ci hanno dato una mano a far sì che i fondi fossero reintegrati.
Per non enfatizzare situazioni che riguardano la comunità statunitense o nordamericana, voglio qui parlare degli interventi a favore delle comunità sudafricane o sudamericane. Ad esempio, la comunità sudafricana, senza un organo come il Cgie, sarebbe priva di voce. Trentamila italiani si troverebbero senza nessuna rappresentanza. E non avrebbero neppure la possibilità di essere rappresentati in parlamento».
In merito alla lingua, alla cultura e alle politiche per i giovani italiani all’estero, oltre che alle policies per l’emigrazione, sembra che il Cgie sia avanti rispetto all’attuale governo ma anche a quello precedente. Com’è possibile dialogare meglio con gli organi istituzionali, che sembrano poco attenti a queste tematiche?
«Su questi argomenti vorrei riallacciarmi allo spirito tremagliano: la rappresentanza parlamentare dovrebbe avere una voce univoca, all’interno del parlamento, e avere un rapporto privilegiato con il Cgie. Spesso e volentieri i deputati e i senatori sono impegnati in lavori parlamentari e in tutt’altre faccende, per cui l’organo che è più portato a pensare alle nostre comunità è il Consiglio generale. Esso mantiene relazioni ben strette con i deputati e i senatori eletti all’estero, ma non solo. Già, perché moltissimi deputati e senatori eletti in Italia sono interessati a questi temi. Anzi, in alcuni di loro c’è uno specifico interesse, che va anche al di là di quello che è il loro incarico. Spesso, la loro competenza supera anche quella dei parlamentari italiani eletti all’estero».
L’emigrazione è stata una delle pagine più importanti della storia italiana del ‘900. Ha prodotto grandi successi, soprattutto qui in America, dove ci sono milioni di italiani. Adesso questo fenomeno tocca l’Italia. Che cosa può insegnare la storia dell’emigrazione italiana in Usa, al Paese Italia e alle Istituzioni che oggi hanno difficoltà a gestire i flussi migratori in entrata?
«Io credo che l’emigrazione italiana in Usa (anche se la mia esperienza è recente), ma in genere la storia dell’emigrazione italiana nel mondo dovrebbe essere di insegnamento a tutto il Paese. Perché grazie alla nostra operosità, la nostra comunità, nel giro di tre generazioni, si è affermata in maniera straordinaria in ogni settore della vita professionale americana. E questo con molta umiltà e molto lavoro. Io amo dire che in America ci sono due tipi di americani: gli italiani e quelli che vorrebbero essere italiani. Questo per rendere un’idea di quanto la nostra comunità è invidiata. Il nostro stile di vita è apprezzato dai nostri connazionali attuali, i nordamericani».
Lei è molto attivo anche nella sua comunità di origine, quella siciliana. Ci dica un po’ come partecipano i suoi corregionali, soprattutto nel New Jersey, e quali attività avete in corso con l’Italia e le varie Province siciliane.
«Tre anni fa abbiamo creato la Confederazione siciliana del Nord America. In tre anni abbiamo già avuto diverse manifestazioni, con la partecipazione sia di personalità siciliane che americane. Attori e uomini d’affari, che hanno dato lustro alle nostre rappresentanze. La cosa più bella, che credo si stia portando avanti, è dare alle nostre comunità, soprattutto per quando riguarda i giovani, delle borse di studio. Quindi guardiamo al futuro, ma siamo molto attivi anche verso coloro che si recano negli Stati Uniti per necessità mediche. Per cui, quando ci propongono questi casi, ci prodighiamo in maniera fattiva sia nell’aiutarli economicamente, sia nello stimolare la raccolta di fondi per aiutarli. Ovviamente, per il futuro, noi miriamo soprattutto a coinvolgere i giovani».
Alla luce della sua esperienza nel Cgie, oltre che nelle associazioni culturali e sociali dei siciliani, quali suggerimenti offrirebbe alle Istituzioni italiane? Cosa possono fare Comuni, Regioni e Province per rendere più concreto e incisivo il loro intervento negli Usa?
«Io credo che le Regioni – che sono quelle che dispongono di più fondi – dovrebbero impegnarsi di più, per quanto riguarda la promozione della lingua e della cultura italiana, rispetto a certe manifestazioni folcloristiche che ogni anno ci vengono propinate per il Columbus Day. Sono bellissime ma sproporzionate rispetto al frutto che poi ne traiamo. Credo che sia importante investire nella lingua e nella cultura. Perché c’è un ritorno anche economico. Dato che i giovani studiano l’italiano, possono fornire benefici all’Italia. Più si investe più l’Italia ne beneficia».