Un uomo giusto

Tra i nuovi martiri di cui lo scorso maggio Giovanni Paolo II ha fatto memoria, c’è anche il direttore del Petrolchimico di Marghera assassinato dalle Brigate Rosse, persona di grande umanità e coerente con la sua fede sino alla fine.
07 Novembre 2000 | di

«Era l' ora di pranzo di mercoledì 20 maggio 1981. Bianca, Cesare, mamma Lella e papà  Pino sedevano a tavola, in cucina. Lucia era al lavoro, Antonio a scuola ed Elda all' università .
Suonano alla porta. Va ad aprire la mamma. Ritorna dicendo: 'Pino, è la finanza, ti vogliono'. Ci sono quattro persone, il papà  ne riceve due in salotto, uno dei quali in uniforme, mentre altri due entrano in cucina. All' improvviso, tirano fuori le pistole: 'Siamo le Brigate Rosse!'. Legano e imbavagliano la mamma, Bianca e Cesare. A quel punto non sappiamo che cosa succeda a papà . Riusciamo a liberarci solo dopo mezz' ora. E diamo subito l' allarme.
La sera, ci siamo raccolti in preghiera nel salotto, con la mamma e tanti amici della nostra parrocchia del Sacro Cuore di Mestre, con il parroco padre Maurizio Stedile, francescano, dei frati del Santo».

Così la famiglia ci ha descritto il momento tragico del sequestro dell' ingegnere Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico (Montedison) di Portomarghera. L' avevo incontrato, solo una settimana prima e mi aveva confidato un timore: «L' anno scorso hanno ucciso l' ingegnere Sergio Gori, vice direttore. Fu un errore. Miravano a me».
Il suo segretario, e amico, Giuseppe Centenaro, è ancora convinto che l' assassinio di Gori fosse un preavviso per Pino (come affettuosamente veniva chiamato in famiglia e dagli amici). L' assassinio di Gori non aveva ottenuto sufficiente clamore, che era quello che le BR cercavano per creare panico tra la gente e, quindi, credenziali sufficienti per arrivare alla destabilizzazione. Niente di meglio che puntare sul direttore della Montedison, per di più cattolico. Taliercio lo era cattolico, e convinto. Lo aveva dimostrato come presidente della «San Vincenzo» aziendale (visitava a domicilio gli operai più bisognosi) e in pubblico. Nella comunità  cristiana godeva di notevole stima. Alle messe in fabbrica - testimonia l' amico Centenaro - su ottocento partecipanti circa, era tra i dieci che si accostavano alla comunione. Non aveva paura di essere cristiano retto e coerente, anche con gli amici, che gli suggerivano il compromesso.

Italo Sbrogiò, ex leader di Potere operaio (movimento di estrema sinistra) all' interno del Petrolchimico di Portomarghera, si meraviglia, ancora oggi, per la nomina dell' ingegnere Taliercio a direttore: «Non era il suo posto. Era un grande tecnico, ma troppo leale e coerente con la sua fede cristiana per occupare il vertice di una multinazionale, fatto di furberie e fondato sulle bugie. Mi sono incontrato più volte con lui: era un uomo di una gentilezza e competenza estreme. Nella sua coscienza sentiva lo stridore del 'sistema'».
Taliercio amava la sua fabbrica come una terra di missione... «Devo vincere me stesso - scriveva a un amico - . La vittoria sul proprio egoismo è garanzia del presente e del futuro da onesti, dovunque».
Ai figli consigliava di non barattare mai la coscienza. Avevano compreso la lezione anche gli operai della fabbrica. Si racconta che a un dirigente amico, licenziato, che gli rinfacciava il suo mancato interessamento, egli abbia risposto: «Non ho steso io la lista dei licenziati, ma se dovessi sostituirti non saprei chi mandare a casa al tuo posto. Vieni, guarda i nomi e dimmi: chi avresti il coraggio di sacrificare al tuo posto?». In un altra occasione, con gli operai in cassa integrazione, la direzione di Milano, dopo una revisione amministrativa, punì un dirigente giovane, promettente e onesto. Taliercio minacciò le proprie dimissioni se il suo dipendente non fosse stato reintegrato.
Era un uomo fermo, riservato, profondamente umano, giusto, che separava i problemi del lavoro da quelli della famiglia, dove vi tornava anche con i desideri.

Le radici. Pino Taliercio proveniva da una famiglia provata dalla fatica e dalla sofferenza. I suoi genitori - il papà  era commerciante - da Ischia si erano trasferiti a Marina di Carrara. La mamma, rimasta molto presto vedova, mantenne i quattro figli con un negozio di terraglie e oggetti vari. Pino apprese in famiglia l' esperienza cristiana e l' orgoglio dell' impegno, della serietà  e onestà  di vita. Si distinse al Liceo «G. Marconi» della città  e si laureò (110 e lode) in Ingegneria all' università  di Pisa. Nel 1952 lo troviamo già  occupato all' Edison di Portomarghera. Fa la «gavetta» fino ad arrivare, meritatamente, ai vertici della direzione.
Spiritualmente si formò nell' Azione Cattolica, dove incontrò Gabriella, futura sposa, anche lei orfana. Fedele al motto, molto diffuso allora tra i giovani cattolici, «Frangar non flectar» («Mi spezzerò ma non mi piegherò»), si costruì un sistema di vita solido e ben fondato sull' adesione a Cristo Gesù. Lo testimoniano le lettere alla fidanzata, i suoi interventi mirati, e a volte profetici, all' interno dei gruppi di animazione cristiana. Non capiva l' utilità  della sovversione, che faceva passi sempre più lesti verso la violenza.

Perché la violenza? Forse non c' è mai stato un terreno così favorevole alla sovversione come tra gli anni ' 70 e ' 80. Però, all' inizio, il ricorso alla violenza non faceva parte del programma della contestazione. Ce lo conferma padre Carmelo Di Giovanni, un sacerdote pallottino che ha vissuto le tensioni di quegli anni all' interno dei movimenti sovversivi e seguito spiritualmente alcuni appartenenti alle BR. «Era molto sentito - ci ha detto - il senso della giustizia tra i giovani, come ero io allora, e si avvertiva un bisogno di maggiore sincerità  e pulizia. I politici e le istituzioni rispondevano alle richieste dei giovani in genere con diffidenza e indifferenza».
«La violenza non è stata la prima forma di espressione delle BR - sostiene padre Carmelo - . Ricordo il loro continuo bisogno di confrontarsi, di dibattere, di assemblee in scuole, fabbriche, università . Io partecipai a tante manifestazioni pacifiche, soprattutto a Roma: erano occasioni per esprimere i bisogni di cambiamento. Quando si comprese che tutto cadeva nel vuoto, incominciò a crescere una mentalità  di violenza. 'Bisogna farli fuori... da soli non cambieranno mai'. Occorreva distruggere per ricostruire. Alcuni avviarono la lotta armata, aderendo ai progetti di violenza e sovversione. All' inizio della stagione di 'Mani pulite', quando si verificarono i primi arresti e le cronache parlavano di grossi scandali, uno dei capi storici delle BR mi fece notare: 'Carmelo, è proprio quello che desideravamo noi con la nostra lotta', ovvero la pulizia della società  e della politica».
Perché poi i brigatisti abbiano sequestrato proprio Taliercio, padre Carmelo non se lo sa spiegare. «Ma di certo, egli afferma, i brigatisti non colpivano a caso».

L' epilogo. «Era la notte del 5 luglio - ci racconta Bianca, la figlia di Taliercio che curava i rapporti con la stampa - . Eravamo molto in ansia per il papà . Verso le due di notte, squilla il telefono. Va a rispondere Elda, la nostra sorella maggiore. Un giornalista de Il Gazzettino (giornale locale, n.d.r.) ci comunicava che era stato trovato il corpo del papà . Elda si avvicina al mio letto e, piangendo, mi dice: 'Bianca, è andata male'. Capisco subito e corro ad abbracciare la mamma e gli altri di casa. Poco dopo, giungono l' avvocato, che ci era stato tanto vicino, don Franco De Pieri e monsignor Valentino Vecchi, della parrocchia di San Lorenzo di Mestre; e ci raccogliamo in preghiera».
Lo trovarono raggomitolato nel bagagliaio di una Fiat 128 azzurra, a pochi metri dal Petrolchimico, trafitto da diciassette colpi di pistola: i capelli fatti bianchi, la barba lunga, il volto scavato. L' autopsia stabilì che non si nutriva da cinque giorni; aveva un incisivo spezzato alla radice. Nei 47 giorni di prigionia, a Tarcento, nel Friuli, rinchiuso in una tenda da campo, era stato picchiato, seviziato, come risultò dai processi, perché aveva rifiutato ogni collaborazione richiesta dai brigatisti. Avrebbe compiuto un mese dopo 54 anni.
L' uccisione del direttore del Petrolchimico di Portomarghera ebbe grande risonanza nazionale, soprattutto per il profilo umano e spirituale della vittima. L' ingegner Taliercio si era comportato da uomo e cristiano coerente, aveva risposto, con il silenzio alle minacce e ai ricatti. Era stato un eroe, «integro e forte nella sua grande fede» dice don Franco De Pieri. «Era pacato, ricco di fede, incapace di odiarci» testimonia, Antonio Savasta, il suo assassino.
Nell' elenco dei Testimoni della fede del ' 900, fra i 2351 laici c' è anche Giuseppe Taliercio, il direttore del Petrolchimico di Portomarghera, assassinato dalle BR della colonna veneta. Il patriarca di Venezia, cardinal Marco Cè, ci conferma che lo ha indicato a Giovanni Paolo II, come «esempio di fede, dignità  e coraggio». «Sono contenta - , ha detto a un giornalista, Gabriella, la moglie del martire - , perché mio marito è stato davvero un testimone della fede».

Il seme che muore porta frutto. In una lettera firmata, indirizzata alla moglie Gabriella, che pubblicamente aveva perdonato agli assassini di suo marito, una brigatista il 18 febbraio del 1987 scriveva: «... Il suo perdono (...) mi porta a pensare in un possibile riscatto di me stessa. Ciò che scrivo mi viene dettato dal cuore. Voglio renderle una parte dei momenti intimamente vissuti da suo marito. Nella nostra follia volevamo colpire il simbolo, ma il vivergli accanto, giorno dopo giorno, ora dopo ora, mi portò, inevitabilmente, alla conoscenza dell' uomo, del suo spirito estremamente delicato, dignitoso e mai arrogante. C' era nelle sue preghiere qualcosa che allora non capivo. Oggi comprendo che tutta la sua forza d' animo era intimamente legata al valore che egli dava alla preghiera. La preghiera era il suo mondo insindacabile, dove noi, con la nostra stupida razionalità , non potevamo raggiungerlo. Questa sua forza si imponeva con dolcezza, si trasformava in serenità  di giudizio, anche, con noi aguzzini. Non potrò mai pensare a quei momenti senza morire ogni volta un po' . (...) La mia angoscia diventa disperazione rendendomi conto che la spirale di violenza non si è ancora chiusa e che ciò è frutto mio e di altri. È un mostro che io ho contribuito a far venire al mondo...
«Signora Taliercio, lei ha avuto tanto coraggio nel perdonare gli assassini di suo marito, la prego, accetti che una simile persona, quale io sono, le chieda umilmente perdono... Non potrò mai restituire ciò che ho rubato e perciò non mi basterà  la mia intera vita a pagare un prezzo equo».
Un altro brigatista nel 1985 confessava: «La parola che portava suo marito... ha vinto: contro di me, che solo oggi riesco a comprendere qualcosa; contro tutti coloro che ancora oggi non capiscono. Anche in quei momenti suo marito ha dato amore... Questo è un fiore che voglio coltivare per poter poi essere io a donarlo. Forse, se non ci foste stati voi a donare per primi questo seme, sarei ancora perso nel deserto... Spero, soltanto di colmare questo vuoto, restituendo e insegnando ad altri quello che voi avete dato e insegnato a me».
Ha ragione il poeta spagnolo Miguel de Unamuno quando scrive: «Il mestiere dei cristiani non è vendere il pane, ma il lievito»

 
  
DA MARINA DI CARRARA A MESTRE      

Giuseppe Taliercio , ultimo di quattro figli, nasce a Marina di Carrara, l'8 agosto 1927.
1952 : si laurea in Ingegneria (110 e lode) all' università  di Pisa, e trova lavoro, subito, all' Edison di Portomarghera (Venezia).
1954 : sposa Gabriella e si stabilisce definitivamente a Mestre. Dal suo matrimonio nascono cinque figli: Elda (che ha già  raggiunto il padre nell' eternità ), Lucia, Bianca (oggi madre di cinque bambini), Cesare (che con Bianca e la mamma è stato testimone oculare del sequestro del padre), oggi sposato e padre di due bambine; Antonio, laureando.
20 maggio 1981 : le Brigate Rosse sequestrano l' ingegnere Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico di Portomarghera, nella sua casa di Mestre.
5 luglio 1981 : l' ingegnere Giuseppe Taliercio viene assassinato, con 17 colpi di pistola, e abbandonato, durante la notte, nel bagagliaio di un' auto, a pochi passi dal suo posto di lavoro (Montedison di Portomarghera).
Riposa nel cimitero di Avenza (Marina di Carrara).

 
 
«SARAI SEMPRE NEL NOSTRO CUORE»      

Lettera aperta dei  figli Lucia, Bianca, Cesare e Antonio Taliercio al loro papà , a vent' anni circa dall' assassinio.   

«Carissimo papà ,
in questi lunghi anni senza di te, grande è stato il nostro dolore, per la violenza con cui ci sei stato tolto. Ma, ugualmente, forti sono stati i ricordi delle tue parole, della fede, della fiducia che ponevi nella misericordia e provvidenza di Dio. Ci hanno aiutato a guardare alla vita nuovamente, con serenità .
«A scriverti questa lettera aperta proviamo emozione e tristezza, anche se tante volte ci siamo ritrovati, nel nostro cuore, a parlare con te delle gioie o delle croci che stavamo vivendo.
«Le gioie più grandi sono stati i matrimoni di Elda e Mauro, di Bianca e Gigi, di Rosa e Cesare, e la nascita di tanti nipoti: Stefano, Giulia, Luca, Giovanni, Marco, Laura e i piccoli Michele e Sofia. Spesso parliamo a loro di te, di come la tua presenza, a volte silenziosa, era per noi bambini, ragazzi: una sicurezza. Ricordiamo la gioia che suscitava in noi il sentire la porta aprirsi ed eri tu che rientravi, dopo una lunga giornata di lavoro. Nonostante la stanchezza, ci aiutavi a finire i compiti; ci chiedevi come era andata la giornata. Poi ci riunivi tutti a tavola.
«Sentiamo forte l' impegno e la difficoltà  di essere genitori, specialmente ora che i bambini stanno crescendo: Stefano ha 16 anni, Giulia 13, Luca 12 e manifestano i problemi dell' adolescenza: le difficoltà  scolastiche, l' amicizia con i coetanei, le prime simpatie. Pensiamo ai modi adottati da te e dalla mamma durante la nostra crescita, al dialogo, che cercavate di stabilire con tutti noi, all' amore alla vita che ci avete trasmesso, al coraggio nell' affrontare le difficoltà , le croci, sorretti dalla fede e dalla preghiera.
«È difficile educare i giovani ai sani principi!
«La mamma spesso ci ricorda che anche tu, giovane genitore, pensavi con un po' di timore al nostro futuro.
«Grandissimo è stato il dolore, profonda la sofferenza, per la malattia e la morte di Elda, nostra sorella: un altro grande terremoto che ha scosso tutta la famiglia e ha messo in crisi la nostra fede. Il sostegno di tanti amici, di fratelli nella fede, soprattutto, la misericordia e l' amore di Dio ci hanno aiutato a sentire Elda nella gloria di Dio, vicino a te. Abbiamo imparato a confidare nella vostra intercessione per noi, specialmente per la mamma, che, pur sostenuta dalla fede, prova un grande vuoto con la vostra mancanza.
«Carissimo papà , sarai sempre nel nostro cuore: di Antonio, che hai lasciato bambino e ora è un giovane prossimo alla laurea; di Lucia, che continua con interesse e impegno il suo lavoro; di Bianca e Cesare, che, con le proprie famiglie, testimoniano l' amore del Signore per noi.
«Siamo certi che sei ancora nel cuore di tanti tuoi colleghi, amici, di tante persone di Mestre e Marina di       Carrara, che, pur senza averti personalmente conosciuto, riconoscono nella tua vita e nella tua morte i segni di un progetto divino».

 
«Un uomo  giusto» (Giuseppe Taliercio, martire) , è il titolo di un oratorio parlato, scritto da Luigi Francesco Ruffato, in occasione del XX anniversario dell'assassinio. Lo porta sulle scene il Gruppo Teatro Ricerca del centro Culturale P. M. Kolbe di VE-Mestre (Via  Aleardi, 154).
Per informazioni: tel. e fax   041/5314717, oppure 041/5059433.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017