Una bella storia da raccontare
Un’apocalisse climatica. Ghiacciai che si sciolgono. Oceani che crescono sommergendo coste e isole. Il mondo stravolto e irriconoscibile. Può sembrare un’esagerazione, ma è questo, secondo molti, lo scenario che ci attende se non ridurremo le sostanze che continuano a inquinare l’atmosfera del nostro pianeta, surriscaldando il clima a livelli incontrollabili. Il cosiddetto global warming (che significa, appunto, surriscaldamento globale) è un problema che nasce dall’industrializzazione selvaggia degli anni passati. È un nodo che deve essere affrontato a livello planetario, pensando alle generazioni future. Il prossimo appuntamento di questa difficile battaglia si aprirà in dicembre a Copenhagen, capitale della Danimarca.
Lì, secondo un motto coniato dalle Nazioni Unite, bisognerà «firmare il patto» – in inglese seal the deal – per ridurre i gas responsabili dell’effetto serra. Alla conferenza danese parteciperanno i delegati di oltre 170 Paesi, con l’obiettivo, difficile ma non impossibile, di preparare un trattato internazionale per sostituire il debole protocollo di Kyoto, che scadrà nel 2012.
Il protocollo di Kyoto
Nel 2004 la Russia, che da sola produce il 17,6 per cento dei gas serra, entrò nel protocollo di Kyoto, avvicinando questo traguardo. Al momento i Paesi che hanno sottoscritto il documento sono più di 170. La loro quota di inquinamento è notevole – producono circa il 60 per cento delle emissioni – ma c’è ancora chi manca all’appello.
Sono gli Stati Uniti, grande potenza industrializzata che inquina parecchio (produce il 36,2 per cento dei gas serra). Il democratico Bill Clinton, presidente degli Usa negli anni Novanta, aveva firmato il trattato allo scadere del suo mandato. Il suo successore, il repubblicano George W. Bush, ritirò l’adesione di Washington poco dopo il suo insediamento.
Il protocollo di Kyoto è un trattato debole. E non solo perché gli Usa non hanno aderito. Esso prevede limiti alquanto permissivi, che peraltro non sono obbligatori per i Paesi in via di sviluppo. Rispetto alle emissioni registrate nel 1990, si impone una riduzione «non inferiore al 5 per cento». Questo vuol dire che i governi più virtuosi tagliano di più, ma altri possono fermarsi alla richiesta minima imposta da Kyoto. Altro problema è che i limiti stabiliti dal protocollo non sono obbligatori per i Paesi non industrializzati. Per questi ultimi, in effetti, la riduzione dei gas serra è una scelta molto dispendiosa e spesso le priorità sono altre: aiutare i cittadini meno abbienti, ammodernare le infrastrutture, e così via.
L’eccezione vale anche per Cina e India, che inquinano parecchio a causa di una crescita industriale portentosa. Durante le trattative di Kyoto, però, Pechino e Nuova Delhi non furono considerate tra i responsabili delle emissioni nel periodo di industrializzazione che ha causato il riscaldamento globale.
I proclami del G8
La strada che da Kyoto porta a Copenhagen è lunga e tortuosa. È un sentiero accidentato che, nei mesi scorsi, è passato anche per L’Aquila. Il capoluogo abruzzese stravolto dal terremoto ha ospitato il vertice del G8. I leader di Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Francia, Italia, Germania, Giappone e Russia hanno fatto proclami ambiziosi.
Al vertice è stato deciso di ridurre le emissioni di gas serra dell’80 per cento entro il 2050 per i Paesi industrializzati e del 50 per cento per gli altri. È stato stabilito, inoltre, che il surriscaldamento globale non dovrà superare di due gradi centigradi i livelli preindustriali, registrati prima della nascita del global warming. L’esperto italiano Carlo Carraro, che fa parte del gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici promosso dall’Onu (Ipcc), si dice scettico. «Le possibilità di fermare l’aumento a due gradi sono limitate», ha infatti affermato in un recente seminario a Venezia.
Il «no» di Cina e India
La prima doccia fredda sulle speranze nate a L’Aquila è arrivata dalla Cina. Durante il vertice, il direttore del servizio stampa del ministero degli Esteri di Pechino, Ma Daoxu, ha spiegato che «l’accordo sul clima raggiunto (al G8 abruzzese ndr) non vincola la Cina» la quale chiede ai Grandi Otto di «prendere in seria considerazione le diverse condizioni dei Paesi emergenti e in via di sviluppo».
Insomma, la Cina si impegna certamente ad «affrontare il grave problema dei cambiamenti climatici, ma la sua attuale forma di approvvigionamento energetico, legato a un mix di fonti di energia dominato dal carbone, non può cambiare in tempi rapidi».
Nemmeno l’India accetta i limiti decisi al G8 presieduto dal presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi. Il ministro dell’Ambiente indiano Jairam Ramesh ha detto che Nuova Delhi «non accetterà mai vincoli legali sulle riduzioni delle emissioni che possano bloccare il suo sviluppo». Non a caso l’affermazione di Ramesh è arrivata in risposta all’invito del segretario di stato americano Hillary Clinton, che chiedeva di aprire una nuova era di collaborazione per ridurre i gas inquinanti. D’altra parte, Ramesh non ha fatto altro che ribadire quanto aveva già detto il primo ministro indiano Manmohan Singh, proprio durante il G8 a L’Aquila. Secondo Singh, il mondo industrializzato ha «responsabilità storiche» sulle emissioni inquinanti e ora non può vincolare gli altri Paesi. Il rischio, però, è di continuare a inquinare, avvicinando l’apocalisse climatica.
Le speranze dagli Usa
Se Cina e India si arroccano nella loro contrarietà, qualche speranza in più arriva dagli Stati Uniti di Barack Obama. Secondo Alden Meyer, responsabile dell’Union of Concerned Scientists (letteralmente «Unione degli scienziati preoccupati»), il primo presidente nero degli States ha la possibilità di portare a Copenhagen «la più bella storia da raccontare».
In effetti, Obama potrebbe scrivere una nuova pagina sui libri di storia: dopo otto anni di disinteresse targati Bush, il leader statunitense potrebbe dichiarare al mondo la svolta di Washington, riportando quella «speranza» che è stata la parola chiave della sua campagna per conquistare la Casa Bianca.
Un primo passo è già stato fatto alla Camera dei deputati degli Stati Uniti. L’estate scorsa, infatti, è stato approvato un disegno di legge che, partendo dai dati sull’inquinamento del 2005, impone una riduzione dei gas serra del 17 per cento entro il 2020 e dell’83 per cento entro il 2050. La Camera ha inoltre approvato lo stanziamento di 600 milioni di dollari per tecnologie che usino «energia pulita». Ed è infine previsto un freno all’importazione di combustibili fossili, in primis il petrolio. Tutte belle cose, ma fino al via libera del Senato – che sarà più difficile di quello della Camera – le nuove norme rimangono sulla carta. I cento senatori degli Stati Uniti potrebbero approvare la legge entro dicembre. Ma non è sicuro. «Vorrei tanto vedere simili progressi trasformarsi in legge prima della conferenza di Copenhagen», sospira Todd Stern, negoziatore capo della Casa Bianca sul clima, che rimane piuttosto scettico sulla possibilità che Obama arrivi in Danimarca con una «bella storia da raccontare».
L’intervista
Rajendra Pachauri, capo del gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici dell’Onu, ha vinto il premio Nobel per la pace, assieme ad Al Gore, per l’impegno nella lotta al surriscaldamento globale.
Msa. Come interpreta le dichiarazioni d’intenti del G8 a L’Aquila?
Pachauri. L’accordo degli Otto è certamente un notevole passo avanti. Allo stesso tempo, però, nella precedente conferenza di Bali (Indonesia) era stato deciso che dal 2015, anno del picco massimo, le emissioni sarebbero dovute diminuire. Di conseguenza, bisognava fissare limiti più stringenti entro il 2020.
È frustrato per gli impegni che i politici prendono e poi non rispettano?
Negli ultimi due anni la consapevolezza sull'argomento è cresciuta. E di solito ci vuole tempo prima che le richieste della popolazione si trasformino in azioni politiche. È notevole, ad esempio, il cambiamento degli Stati Uniti.
È fiducioso sulle politiche del presidente Obama?
Le sue posizioni sono importanti, così come il disegno adottato alla Camera degli Stati Uniti. Quel che accadrà al Senato, però, è un'altra storia.
Altri Paesi, come l'India, sembrano scettici...
L'India ha preparato un piano nazionale per il cambiamento climatico che non è diventato operativo per diverse ragioni. Ma mi aspetto che nel giro di qualche mese si veda un maggior impegno.
Il ministro dell'Ambiente di Nuova Delhi, però, sembra inamovibile. Lo ha detto anche a Hillary Clinton.
Ho scambiato alcune e-mail con lui. La sua posizione? Non si possono imporre nuovi limiti se i responsabili principali poi non li seguono.
C'è ancora chi non crede nell'esistenza del global warming. Come risponde?
Quarant'anni fa l'uomo sbarcò sulla luna, ma c'è ancora chi crede che sia stata un'invenzione.
Se a Copenhagen non verrà raggiunto un accordo, i risultati saranno catastrofici.
Stiamo preparando un dossier per illustrare l'impatto del cambiamento climatico a livello regionale. In questo modo i Paesi potranno sapere dove e come saranno colpiti.
Non ha paura di un fallimento del vertice?
Se non avremo un buon accordo, le implicazioni, anche a livello umanitario, saranno particolarmente serie, soprattutto per le persone più povere del mondo.