Una Chiesa dalle porte aperte
È stato definito il documento programmatico del pontificato di Francesco, ma forse sarebbe meglio dire che è la bussola per ogni cristiano del nostro tempo. Con la Evangelii gaudium il Papa chiede a ogni battezzato di riscoprire la bellezza e la gioia del Vangelo: solo così anche la Chiesa, in quanto popolo di Dio in cammino, sarà rivitalizzata.
Francesco, che già in altre occasioni ha sottolineato quanto sia controproducente la testimonianza dei credenti con la faccia da «peperoncini all’aceto», magari tutti tesi alla salvaguardia della retta dottrina ma incapaci di contagiare gli altri con la passione per Gesù, in questo testo mette al centro della riflessione la missionarietà della Chiesa, chiamata a uscire dai confini abituali e rassicuranti per aprirsi con fiducia e trasmettere la buona notizia a tutti. «Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiudersi nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (49).
La nuova evangelizzazione non è tale perché impiega tecniche o strategie al passo con i tempi. Certamente gli strumenti hanno una loro importanza, ma nella visione di papa Bergoglio l’evangelizzazione è nuova quando torna veramente al Vangelo e quindi non si esaurisce in formule e procedure codificate e immutabili, come se i cristiani fossero soltanto i guardiani della fede, ma è vita vissuta, è esempio, è coerenza tra parole e comportamenti. Il Vangelo è sempre giovane e fonte costante di novità (11). Il legame con la memoria e la tradizione non va certamente spezzato: si tratta di innestarlo in una storia viva.
«La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù»: inizia così l’Evangelii gaudium. Il cuore e la vita: non soltanto la mente. Perché si tratta, appunto, di un incontro personale, un incontro d’amore. E questo amore così grande e così bello va portato agli altri in uno «stato permanente di missione» (25), vincendo «il grande rischio del mondo attuale»: quello di cadere in «una tristezza individualista» (2).
Il Papa invita a «recuperare la freschezza originale del Vangelo». Gesù non va imprigionato entro «schemi noiosi» (11). Occorre «una conversione pastorale e missionaria, che non può lasciare le cose come stanno» (25) e una riforma delle strutture ecclesiali perché «diventino tutte più missionarie» (27). Su questo piano Francesco si mette in gioco in prima persona. Pensa, infatti, anche a «una conversione del papato», perché sia «più fedele al significato che Gesù Cristo intese dargli e alle necessità attuali dell’evangelizzazione».
Il ruolo delle Conferenze episcopali è da valorizzare realizzando concretamente quel «senso di collegialità» che finora non si è ancora pienamente concretizzato (32). Più che mai necessaria è «una salutare decentralizzazione» (16) e in questa opera di rinnovamento non bisogna aver timore di rivedere consuetudini della Chiesa «non direttamente legate al nucleo del Vangelo» (43).
Il verbo messo al centro della riflessione è «uscire». Le chiese abbiano ovunque «le porte aperte», perché tutti coloro che sono in ricerca non incontrino «la freddezza di una porta chiusa». Nemmeno le porte dei sacramenti si dovrebbero mai chiudere.
L’eucaristia stessa «non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli». Il che determina «anche conseguenze pastorali che siamo chiamati a considerare con prudenza e audacia» (47). Molto meglio una Chiesa ferita e sporca, uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa prigioniera di se stessa. Non si abbia paura di lasciarsi inquietare dal fatto che tanti fratelli vivono senza l’amicizia di Gesù (49).
Su questa via la minaccia più grande è quel «grigio pragmatismo della vita quotidiana della Chiesa, nel quale tutto apparentemente procede nella normalità, mentre in realtà la fede si va logorando» (83). Non ci si lasci prendere da un pessimismo sterile (84). Il cristiano sia sempre segno di speranza (86) attraverso la «rivoluzione della tenerezza» (88).
Francesco non nasconde il dissenso verso quanti «si sentono superiori agli altri» perché «irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato» e «invece di evangelizzare classificano gli altri». Netto è anche il giudizio negativo verso coloro che hanno una «cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo» nei bisogni della gente (95). Questa «è una tremenda corruzione con apparenza di bene… Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali!» (97).
La predicazione ha un ruolo fondamentale. Le omelie siano brevi e non abbiano il tono della lezione (138). Chi predica parli ai cuori, evitando il moralismo e l’indottrinamento (142). Il predicatore che non si prepara «è disonesto ed irresponsabile» (145). La predicazione offra «sempre speranza» e non lasci «prigionieri della negatività» (159).
Le comunità ecclesiali si guardino da invidie e gelosie. «Chi vogliamo evangelizzare con questi comportamenti?» (100). Di fondamentale importanza è far crescere la responsabilità dei laici, finora tenuti «al margine delle decisioni» a causa di «un eccessivo clericalismo» (102). Importante è anche «allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa», in particolare «nei diversi luoghi dove vengono prese le decisioni importanti» (104). Di fronte alla scarsità di vocazioni, «non si possono riempire i seminari sulla base di qualunque tipo di motivazione» (107).
Oltre a essere povera e per i poveri, la Chiesa voluta da papa Francesco è coraggiosa nel denunciare l’attuale sistema economico, «ingiusto alla radice» (59). Come disse Giovanni Paolo II, la Chiesa «non può né deve rimanere al margine della lotta per la giustizia»(183). L’ecumenismo è «una via imprescindibile dell’evangelizzazione». Dagli altri c’è sempre da imparare. Per esempio «nel dialogo con i fratelli ortodossi, noi cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza della sinodalità» (246). Il dialogo interreligioso è a sua volta «una condizione necessaria per la pace nel mondo» e non oscura l’evangelizzazione (250-251).
Nel rapporto col mondo il cristiano dia sempre ragione della propria speranza, ma non come un nemico che punta il dito e condanna (271). «Può essere missionario solo chi si sente bene nel cercare il bene del prossimo, chi desidera la felicità degli altri» (272). «Se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita» (274).
Papa Francesco sa che nella nostra società post-cristiana è importante tornare a mettere in primo piano l’annuncio della speranza offerta da Dio attraverso il Figlio. Dopo secoli di predicazione incentrata sull’obbligazione morale, la Chiesa è chiamata a tornare alle origini, a ricentrarsi sull’annuncio evangelico. Quella che va trasmessa è la buona notizia, e occorre farlo da innamorati, non da «tecnici» della religione. Ecco perché più che un saggio di sociologia della religione, Francesco ha voluto rivolgere a tutti un incoraggiamento indicando con chiarezza gli obiettivi.
In passato i richiami alla missionarietà non sono mancati, ma sempre nel quadro di una Chiesa concentrata su se stessa e preoccupata della propria presenza pubblica. La prospettiva di papa Francesco è diversa: ognuno, animato dall’incontro d’amore con Gesù, diventi missionario nel proprio ambito portando la gioia del Vangelo, senza rivendicare differenze ma coinvolgendosi fino in fondo. Con l’aiuto dello Spirito, il cristiano cammini per le strade del mondo di oggi proprio come avrebbe fatto il Maestro: con l’attenzione amorosa verso il più debole, con la difesa della dignità di ogni creatura, con la disponibilità all’incontro, con uno sguardo pieno di gratitudine verso il Padre celeste.
Dall’«Evangelii gaudium»
- «Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: “Sarete beati se farete questo” (Gv 13,17). La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”» (24).
- «Così come il comandamento “Non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e dell’iniquità”. Questa economia uccide. Non è possibile che non faccia notizia il fatto che muoia un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti di borsa. Questo è esclusione. Non si può più tollerare il fatto che si getti il cibo, quando c’è gente che soffre la fame. Questo è iniquità» (53).
- «Gesù, l’evangelizzatore per eccellenza e il Vangelo in persona, si identifica specialmente con i più piccoli (cfr Mt 25,40). Questo ci ricorda che tutti noi cristiani siamo chiamati a prenderci cura dei più fragili della Terra» (209).