Una conferenza per i Balcani Perché la pace regga

Una storia segnata da guerre etniche e intolleranza. Un odio atavico che ha spento nei secoli i tentativi di riconciliazione. Quale futuro attende la regione balcanica? Forse solo l’Europa unita può far superare i traumi di una lotta che sembra senza fine
02 Luglio 1999 | di

L'idea ha avuto voce, fra i primi, dal presidente della commissione europea Romano Prodi, ma trova sostenitori fra gli esperti, grandi e piccoli, di politica internazionale: la tragica pagina della guerra per il Kosovo, l'ultima guerra che termina un secolo di conflitti mondiali, può essere chiusa e superata solo da una grande conferenza internazionale che riconsideri l'intera situazione dei Balcani, una regione vitale per la pace e il futuro dell'intera Europa.
Mi come oggi si deve rovesciare il sin troppo famoso detto dell'ideologico prussiano del XIX secolo Clausewitz, per cui la guerra non sarebbe altro che una continuazione della politica con altri mezzi: al contrario, la-le guerre sono momenti traumatici antitetici alla politica, che è mediazione e accordo, e tocca sempre alla politica affrontare i problemi che le guerre hanno soltanto fatto esplodere.
Il termine Balcani viene dalla parola turca balkan, che significa monte, e infatti,è una vastissima regione montagnosa che si distende dall'Adriatico al Mar Nero. Come geograficamente è spezzettata in tante conche separate dai rilievi, così storicamente si è divisa fra gli innumerevoli popoli che, in epoche diverse, vi si sono stabiliti: oggi gli albanesi, che dicono di discendere dagli antichi illiri, sono sei milioni; dieci i serbi arrivati con gli altri slavi nel VI secolo; otto i bulgari, ma altri popoli, piccoli e grandi, sono una miriade e non si sono mai fusi fra di loro.
«Balcanizzazione» è così diventato sinonimo, nel dizionario geo-politico, di frantumazione e di lotta di ognuno contro tutti. Una tradizione letteraria ha contribuito a confermare questa tendenza: il Premio Nobel 1961 per la letteratura, Ivo Andric parlava di «uragani di odio che si celano nelle profondità  dense» e il cantautore Goran Bregovic, che il 1° maggio scorso ha partecipato a Roma al concerto sindacale per la pace, ha ribadito: «Nei Balcani non siamo capaci di organizzarci come stati senza massacrarci l'un l'altro. Finirà  così com'è sempre finita nei secoli dei secoli: ma rimarranno tante armi, per la prossima volta». E tuttavia, noi europei possiamo replicare che non esiste una maledizione storica invincibile, che tutti gli intrighi etnici e geopolitici possono essere affrontati assieme con spirito nuovo, se esiste la buona volontà .

Prima di tutto il Kosovo

Naturalmente la soluzione per il Kosovo rimane in primo piano, ma è tutta l'ex-Jugoslavia a richiedere ancora un assetto civile e definitivo. Il regime serbo è stato giustamente accusato di essere il maggiore responsabile di una politica nazionalistica e di pulizia etnica, ma accuse analoghe possono essere estese a quasi tutti i nuovi regimi nati dalla dissoluzione della federazione. Il presidente croato Tudjman, in un discorso al parlamento nel gennaio di quest'anno, si è vantato di aver ridotto la minoranza serba nel suo stato dal 12 al 2-3 per cento e, infatti, i serbi contano 700 mila rifugiati da zone della Croazia in cui erano già  maggioranza locale o dalla Bosnia. Nella stessa Bosnia il ritorno dei profughi marcia a un ritmo lillipuziano. Se i diritti civili e umani sono ovunque in stato precario, anche i nuovi assetti statali devono essere consolidati. La Macedonia continua a rischiare la disgregazione interna, contando una minoranza albanese molto forte e vicini ostili.
L'Albania del giovane leader Pandeli Maiko (trentadue anni) si è al momento stabilizzata, ma l'economia continua a essere estremamente debole, in presenza di una diffusa corruzione e impunità  verso il furto generalizzato. Tutti i Balcani poi sono avvolti nella ragnatela di una mafia specializzata nella produzione e nei traffici di droga. Problemi da affrontare in una conferenza internazionale.
Se del Kosovo si parla molto, sulla Bosnia è quasi calato il silenzio. Segno che, dopo una guerra durata tre anni, il paese va lentamente normalizzandosi. Ma, per vedere cosa potrà  decidere la prossima conferenza sui Balcani, è bene osservare quale sia la situazione in Bosnia, che da ben quattro anni vive già  in un regime di supervisione internazionale.

Bosnia: la pace tiene

La parte militare degli accordi di Dayton (1995) ha funzionato, la guerra non si è riaccesa, gli incidenti, pur numerosi, non hanno mai degenerato in conflitto aperto. Per raggiungere questo risultato è stato necessario protrarre nel tempo l'Ifor, la Forza internazionale di mantenimento della pace che è scesa dai 60 mila ai 30 mila soldati (fra cui un contingente italiano), ma che doveva durare solo un anno e invece è stata prorogata sine die. L'architettura civile di Dayton rimane tuttavia precaria, con le tre comunità  - musulmani, croati, serbi - che vivono praticamente separate.
La Bosnia conta oggi quattro milioni di abitanti, contro i cinque ai tempi dell'ex-Jugoslavia, ma i 2,1 milioni di rifugiati (all'interno e all'esterno) calano molto lentamente, attualmente sono fermi a 1,4 milioni ancora in attesa di ritorno.
Le ricorrenti elezioni - tre in quattro anni - danno immancabilmente la vittoria ai «duri», ai nazionalisti delle tre comunità , e per i croati al partito che è al potere a Zagabria, per i serbi a quello al potere a Belgrado. Il musulmano Izetbegovic rimane il presidente per le cerimonie, ma la presidenza è in realtà  tricefala, tri-comunitaria, con una convivenza più di facciata che funzionale. In questa situazione, più di tutti conta l'«alto rappresentante internazionale», l'ex ministro degli esteri spagnolo Carlos Westendorp, che si vede affidata una posizione di «proconsole» più che di mediatore. È lui che ha imposto una moneta unica, un unico passaporto, una targa comune per le auto. Ha creato incentivi economici per le «città  aperte», che accettano il ritorno dei profughi: ma nelle dodici che hanno accolto la proposta, nel corso del 1998 solo ventimila rifugiati sono tornati. Con questo ritmo, il ritorno prenderebbe... cinquanta anni.
Sulla base dell'esperienza della Bosnia, si può dire che la comunità  internazionale dovrà  dar prova, nella prevista conferenza internazionale, di disponibilità  e pazienza. Sarà  necessaria una presenza militare diretta e di amministrazione su alcune zone, una specie di «mandato» da tutti riconosciuto e a tempo, per non degenerare in forme larvate di neocolonialismo. Infine, i diritti civili e il rientro dei profughi dovranno valere per tutti, per gli albanesi ma anche per i serbi, evitando il rischio di una «pace punitiva» rivolta contro uno dei popoli dei Balcani.
Solo la Slovenia, per il momento, è stata accolta come candidata per entrare in futuro nell'Unione europea, fra tutti gli stati della ex-Jugoslavia. In base a criteri prevalentemente economici, oltre che democratici. Mentre la Croazia si «sta scaldando i muscoli in panchina» con l'introduzione dell'i.v.a., primo passo per una convergenza già  delineata nell'accordo commerciale preferenziale con la comunità  europea.
Occorre che le porte vengano invece aperte a tutti gli stati della regione, anche se l'approccio sarà  più o meno lungo seguendo criteri economici. Ma deve essere ben chiaro, ai popoli dei Balcani, che l'antidoto ai nazionalismi che tanto danni hanno causato, nella loro storia più lontana e più recente, è la prospettiva dell'Europa unita, che in Occidente è da tempo riuscita a far superare i traumi di due tragiche guerre mondiali. Un'Europa unita e dei diritti, della democrazia realizzata. Per questo, si può dire che la pace nei Balcani sarà  una «pace europea» oppure non sarà .

   
   
IL COSTO DELLA PACE      

P er ricostruire, dopo la guerra, è stato evocato un «Piano Marshall per i Balcani», che contribuisca anche a migliorare la situazione economica che è fondamentale per lo sviluppo della democrazia. I primi investimenti mireranno al rientro dei profughi, poi si dovrà  investire nella vera  ricostruzione e nel rilancio economico. Il presidente della commissione europea Prodi ha anticipato che sarà  necessario erogare 5 miliardi di Ecu all'anno, cioè 10 mila miliardi di lire, per un numero consistente di anni. Per la cifra finale, si parla di 100 mila miliardi di lire, e di 18 mila miliardi solo per stabilizzare la situazione dei paesi coinvolti.      
Cifre da capogiro? Facciamo un breve confronto con i costi della guerra: un missile «Cruise» (e ogni notte se ne lanciavano una decina) costa 2 miliardi 520 milioni di lire, un «aereo invisibile Stealth», simile a quello perduto all'inizio della guerra, ben 126 miliardi di lire. E l'Italia ha contribuito, soltanto per le «spese vive» di stipendi, carburante, e così via, con 27 miliardi di lire al mese, e con un fondo di dotazione di 600 miliardi.
Meglio quindi investire nella pace. Purché i fondi promessi arrivino poi effettivamente: in Bosnia, nel 1996, dei 3 mila 420 miliardi previsti, ne era arrivato... solo un terzo.

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017