Una grande atleta tradita dallo sport
Non ha saputo dire di no. Neppure lei che, pluricampionessa mondiale di atletica leggera negli anni '80, era dovuta uscire prematuramente da quel mondo proprio dopo una forte presa di posizione contro gli illeciti sportivi. Dopo anni di assenza dalla scena internazionale, allettata dalla prospettiva di tornare a gareggiare e a vincere - anche se in un altro sport, il ciclismo - ha ceduto alle lusinghe di loschi personaggi. Si è dopata. Per quattro mesi. Poi, un ritorno di moralità e di amor proprio. E così si è autodenunciata, pubblicamente, portando davanti ai giudici le persone che l'avevano coinvolta nel gioco sporco. L'ho fatto per rimettermi a posto con la coscienza - dice - ma anche per mio figlio, che fa sport, e per i tanti altri ragazzi che rischiano di finire nelle mani di criminali senza scrupoli.
Giuliana Salce, 50 anni, è allo stesso tempo una donna coraggiosa e fragile (anche nei periodi atleticamente migliori, era vittima di anoressia e bulimia). Negli ultimi vent'anni è precipitata dall'Olimpo alla polvere più volte. Dalle piste di atletica più prestigiose, dove ha tagliato non di rado il traguardo da vincitrice e primatista, è passata alle strade e ai circuiti del ciclismo perché pensava di poter dire ancora la sua. Lo ha fatto nel modo sbagliato. Lo ha capito. Ha cercato di rimediare. La sua presa di posizione, lo scorso anno, ha messo a soqquadro il mondo del ciclismo amatoriale, già sottoposto a numerose inchieste della magistratura per svariati casi di doping. La sua denuncia è entrata a far parte di un ben più corposo fascicolo dei Nas di Firenze, aperto dopo la morte di un ciclista romano, e che ha portato a sei arresti e a 138 indagati.
Anche stavolta, però, è rimasta sola, come accadde diciott'anni prima. Nessuna solidarietà . Semmai ostilità . Giuliana vive a Ostia Antica in un modesto appartamentino delle case popolari insieme con la mamma e il figlio Barnaba, quindici anni. Alle pareti poche foto a ricordare le prestigiose vittorie. Nessuna coppa, nessuna medaglia. Niente del passato. La gloria dei bei tempi non l'ha aiutata nella vita vera, e allora a che serve ricordare? Avessi studiato, almeno oggi avrei un lavoro - si rammarica -. Se non ci fosse mia madre, con la sua pensione, creperei. Dopo la denuncia ho chiesto aiuto in tutte le maniere. Nulla. Se devo pensare a domani mi prende un colpo. Ci sono giorni in cui mi viene voglia di non arrivarci a domani. Ma ho un figlio....
Una denuncia segna la sua fine sportiva
La storia difficile di Giuliana Salce comincia dopo i Campionati mondiali di atletica a Roma, nel 1987, durante i quali si verificano alcuni episodi di illeciti. Lei ha già vinto molto e sa di poter dare ancora tanto. È uno dei nomi dello sport italiano. Sente perciò, insieme con altri sette colleghi, il dovere di prendere posizione. Firmammo un documento contro gli illeciti sportivi e contro l'uso di sostanze proibite. Il clamore - racconta - fu tanto, al punto che alcuni dei firmatari fecero un passo indietro. Andammo avanti in tre. Due settimane dopo, al Campionato europeo di cross, non mi salutò nessuno, nemmeno gli atleti che fino a qualche giorno prima avevano diviso con me l'albergo. Arrivò anche una telefonata anonima di minacce: se avessi continuato mi avrebbero gambizzato. Quando marciavo mi giravo da tutte le parti. Avevo paura. Allora decisi di smettere, almeno fino a quando la situazione non fosse cambiata
La situazione non cambia. Un anno dopo invia una lettera al nuovo presidente della federazione, eletto proprio dopo il putiferio al quale aveva contribuito con quel documento, chiedendo un lavoro. Non accadde nulla, ricorda. Con quel mondo era finita nel modo peggiore. Passano anni non facili. Giuliana trova aiuto in un sacerdote di Ostia, che le mette a disposizione un piccolo locale per insegnare ginnastica. Va avanti così per un po', tra seri problemi di famiglia e di salute. Poi la svolta, nel 1999.
Ero a Termoli - ricorda - per la presentazione di una gara di triathlon, di cui il mio ex marito era allenatore. Incontrammo uno della federazione ciclistica amatoriale che mi propose di fare ciclismo, dischiudendomi persino l'ipotesi degli Europei. In un attimo materializzai che potevo rientrare in un giro di sport e di Nazionale. Accettai. Quattro mesi dopo disputavo la prima gara dei Campionati italiani, entravo nella Nazionale over 30 e partecipavo agli Europei.
Il primo anno scivola tranquillo. Durante il secondo cominciano i primi approcci. Iniziarono a dirmi che se mi curavo era meglio - spiega Giuliana - perché ormai il mio fisico era molto sfruttato. Prendere alcuni farmaci mi avrebbe fatto bene. Il terzo anno accettai. Il risvolto psicologico fu davvero penoso.
Perché accettò? Stando in un ambiente dove la maggior parte delle persone usano queste sostanze, delle quali senti parlare con tanta squallida tranquillità , ti convinci che in fondo non è sbagliato - risponde -. Ma in realtà non ero affatto convinta: dentro sapevo che quella roba non soltanto faceva male, ma andava contro i miei principi. Per questo è stato ancora più grave. E a quarantaquattro anni!.
Fortunatamente è durata poco - aggiunge -: quattro mesi e ho smesso. Ho consegnato la lettera di dimissioni mentre ero in Austria per i Campionati del mondo. Che cosa era scattato? Non la paura di conseguenze sulla salute, perché in quel periodo mi sentivo bene. Probabilmente dentro di me ha iniziato a prevalere il mio modo di essere.
Si autodenuncia dopo la morte di Pantani
Passano tre anni. Ad agosto 2003 Giuliana decide di parlare. Lo fa con due telefonate anonime ai Nas, che stanno indagando sul doping nel ciclismo amatoriale. Fa nomi e cognomi, racconta fatti precisi, ma spiega di aver paura delle ripercussioni. Poi, il 14 febbraio 2004, muore Marco Pantani. Quando ho sentito ciò che dicevano: il residence, lui morto da solo in quella maniera, ho capito che c'era un filo. Ho capito che queste persone se vogliono farti morire ce la fanno - racconta -. Ho capito che dovevo fare qualcosa. Dovevo togliermi quel peso.
Prima di prendere la decisione di autodenunciarsi pubblicamente, cosa che fa a marzo, Luciana parla con il figlio. Gli ho detto che la madre cui vuole tanto bene, che gli ha insegnato fino a nausearlo che bisogna vincere lealmente (lui gioca a calcio), aveva, un giorno, deciso di doparsi. Credo che lì per lì non mi abbia creduto. Guarda che è vero, gli ho detto, e ora ho intenzione di fare delle denunce. Si è ripreso subito e mi ha detto: Fai bene. Proprio oggi, per caso, ho acceso il suo computer e ho visto l'ultima pagina internet che aveva aperto: c'era un lungo articolo sulla mia vicenda. Credo sia fiero di me. Mi consola molto.
Dopo la denuncia (che le costerà un processo) la Salce è stata invitata a scrivere un messaggio per i giovani. Sarebbe troppo bello poter dire che è meglio vincere senza sotterfugi. Il problema - spiega - è che c'è sempre qualcuno pronto a farti fare certe cose e a convincerti che è giusto e che non è pericoloso. Il mio appello più che hai giovani è per i genitori: state attenti. Vigilate.
Giuliana ha chiesto di poter incontrare il Papa. È accaduto a un'udienza generale del mercoledì. Perché l'ho fatto? Per sentirmi più pulita. È stata un'emozione pazzesca - ricorda -. Non mi aspettavo che mi sarei messa piangere, in ginocchio, davanti a lui. Ero diventata praticamente atea, non volevo credere più a niente. Incontrando il Papa credo veramente di essermi liberata di un peso.
Che cosa si aspetta ora? le chiediamo alla fine dell'incontro. Assolutamente niente - risponde -. Tante promesse non sono state mantenute. Mi ero illusa. Ma so di aver fatto la cosa giusta. È la sola cosa che rifarei.