Una grande festa con il Papa

Finalmente, dopo tanti preparativi, arriva il VII Incontro mondiale delle famiglie: a Milano, dal 30 maggio al 3 giugno. In queste pagine le famiglie, vere protagoniste dell’evento, si raccontano.
23 Aprile 2012 | di

Ci siamo. Dopo tanti preparativi, finalmente arriva il VII Incontro mondiale delle famiglie. Il grande evento si svolge dal 30 maggio al 3 giugno a Milano (ma anche in altre città lombarde). Dopo gli scorsi incontri, che hanno avuto luogo a Roma (due), Rio, Manila, Valencia, e Città del Messico, ecco convenire di nuovo in Italia le famiglie di tutto il mondo.
Parte centrale dell’evento è il Congresso internazionale teologico pastorale sul tema «La famiglia: il lavoro e la festa».
Sono previste l’apertura ufficiale del cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, e del cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia. Quindi, centinaia di relazioni, tavole rotonde e testimonianze, fino alla visita di Benedetto XVI.

L’arrivo del Papa è in programma venerdì 1 giugno. Momenti culminanti, alla sua presenza, la Festa delle testimonianze, sabato 2 giugno, e la Santa Messa, domenica 3 giugno. Tutte le informazioni si trovano sul sito: www.family2012.com. Imponente lo spiegamento di volontari (ne servono 5 mila) e massiccia la discesa in campo delle famiglie (centinaia di migliaia): famiglie che ospitano, famiglie che sono accolte o che intervengono. A loro, le vere protagoniste di questa grande kermesse, sono dedicate le pagine che seguono.

Sono passati oltre trent’anni dalla Familiaris Consortio (1981) di papa Giovanni Paolo II, il quale volle il primo Incontro delle famiglie nel 1994. Ed ecco un’altra occasione per riflettere sulla «famiglia cristiana»: l’alleanza di un uomo e di una donna che scelgono di guardare insieme nella stessa direzione e di condividere un progetto d’amore; una scelta che rende gli sposi credenti un anello importante nella trasmissione della fede e partecipi della missione della Chiesa; una «piccola Chiesa domestica».
 
 
FAMIGLIE CHE OSPITANO 
Allenati ad accogliere

di Nicoletta Masetto 
 
Una famiglia di Sesto San Giovanni racconta la sua esperienza di apertura agli altri e alla vita.
 
Famiglie che accolgono famiglie. Il VII Incontro mondiale racconta anche queste storie. Siamo a Sesto San Giovanni, settimo comune lombardo per popolazione: un tempo hinterland milanese, oggi è una città con oltre 80 mila abitanti. La Sesto del terzo millennio è una realtà dai molti volti. Abituata ai cambiamenti, ha imparato da tempo ad accogliere la varietà di una società multiforme, multietnica e multicolore. In base all’ultimo censimento, la popolazione straniera rappresenta quasi il 15 per cento dei residenti. Percentuale che arriva al 25 per cento quando ci si sposta sui banchi di scuola. A fianco dei molti Carlo e Anna capita, allora, di trovare sempre più spesso tanti Youssef e Fatima, nati in Italia o venuti da lontano, in particolare dall’Africa, l’area geografica di origine maggiormente presente.

Una vocazione all’accoglienza, quella del paese, che non nasce per caso, ma trae origine anche dalla sensibilizzazione a queste tematiche avviata dalla Chiesa locale. La parrocchia di San Giuseppe ha intrapreso, infatti, numerosi percorsi di inclusione sociale. Coinvolgono le donne e i bambini, i soggetti più esposti alle difficoltà di integrazione culturale. Per questo, quando don Angelo Cairati, il vulcanico parroco di San Giuseppe, ha chiesto ad alcune famiglie la disponibilità a ospitare altre famiglie in occasione dell’Incontro mondiale, ha raccolto subito entusiasmo e adesioni in questa piccola grande comunità abituata a farsi in quattro per gli altri, anche aprendo le porte, non solo virtuali, di casa propria. «Dire “no” alla richiesta di don Angelo è stato impossibile – afferma con un sorriso Gian Marco Gavardi, 49 anni, libero professionista –. Anche se non è stata una decisione presa su due piedi: mia moglie e io ci siamo guardati negli occhi e ci siamo detti che si poteva fare».

Gian Marco e la moglie, Cristina Trento, impiegata, abitano in una palazzina nel cuore di Sesto. Cento metri quadrati nei quali vivono con i figli Matteo, di 11 anni, e Caterina, di 8. Un appartamento nel quale arriverà, per una settimana, una famiglia proveniente da Betlemme. «Non sappiamo ancora chi giungerà – spiega Gian Marco –. Ci siamo resi disponibili a ospitare una famiglia di quattro persone, due genitori con due bambini. Cristina e io abbiamo fatto un po’ di conti: in una stanza potranno dormire mamma e papà. Per i più piccoli ci attrezzeremo con dei letti gonfiabili che sistemeremo dove loro stessi preferiranno. Sarà un’esperienza bella, perché, come ha detto il Papa invitando le famiglie di Milano e della Lombardia ad aprire le porte delle loro case per accogliere i pellegrini, nell’ospitalità si sperimentano gioia ed entusiasmo: è bello aprire, fare conoscenza e amicizia, raccontarsi il vissuto di famiglia e l’esperienza di fede a esso legata». Cristina e Gian Marco hanno informato Matteo e Caterina. «Per la verità, non abbiamo detto granché, solo che arriveranno da lontano una mamma e un papà con i loro figli. Altre parole, soprattutto con i bambini, non servono». La famiglia Gavardi non è nuova a esperienze di accoglienza. Tre anni fa, nel novembre 2009, ospitò un frate, giunto da Assisi a Sesto insieme con un centinaio di confratelli provenienti da tutta Italia, per animare la missione francescana cittadina. «È rimasto una settimana. Lo vedevamo la sera, forse più fuori che a casa, con i gruppi o mentre stava tra la gente ad animare la pastorale di strada. Ne è nata una bella amicizia che continua ancora oggi».
Anche l’impegno è di casa dai Gavardi, in particolare quello nel volontariato sociale. «Non siamo gli unici – sottolinea Gian Marco –. A Sesto, don Angelo ha messo in piedi una realtà di credenti molto motivati, coinvolgendoci in attività che prevedono una forte commistione col territorio. Insomma, una comunità sempre aperta all’altro. Io collaboro con l’associazione “San Giuseppe”, una onlus che si occupa di progetti che affrontano alcune tra le più diffuse difficoltà sociali del territorio. Tra questi, per esempio, una scuola di cittadinanza che si preoccupa di dare un contributo concreto all’integrazione. L’impegno è rivolto ai migranti, soprattutto di origine araba, presenti a Sesto in percentuale molto alta. L’attenzione riguarda, in particolare, le donne: spesso le troviamo chiuse in casa, non escono nemmeno per fare la spesa. I motivi? Prima di tutto culturali. Grazie ai nostri corsi possono finalmente uscire e portare con sé i bambini».
 
Quel mattoncino in più
Ma facciamo un passo indietro. Siamo nel novembre 2003. In casa Gavardi è in arrivo il secondo figlio. Alla dodicesima settimana di gravidanza Cristina si sottopone all’amniocentesi. L’esito non lascia dubbi: sindrome di Down. Gian Marco e la moglie decidono che quella creatura verrà alla luce: la vita, per loro, va difesa sin dal grembo materno. «All’inizio è stato come se il mondo ci fosse crollato addosso – afferma Gian Marco –. Abbiamo dovuto fare i conti con una realtà del tutto nuova, quella della disabilità. Ma Cristina e io non abbiamo avuto esitazioni. Non abbiamo mai pensato all’aborto: accettare il dono di quella vita non è mai stato messo in discussione. È stata una decisione naturale. Le ragioni? Non derivate da obblighi di fede, come in molti pensano quando ascoltano la nostra storia. Siamo entrambi credenti, e questo ha influito sulle nostre scelte, senza però dettarle». Gian Marco confessa che non sempre è stato facile. «Gli ostacoli che incontra una persona con disabilità, e con lei l’intera famiglia, sono enormi. Esiste un gap profondo tra il riconoscimento dei diritti dei disabili e leggi spesso buone, ma il più delle volte non applicate bene. La mia e quella di tante famiglie è una battaglia quotidiana».
Gian Marco guarda Caterina mentre gioca col fratellino. «Per spiegare a Matteo che cosa fosse la sindrome di Down, gli abbiamo detto che la sorellina aveva una sorta di mattoncino Lego in più. Oggi sono molto affezionati. Matteo le vuole bene come ogni fratello maggiore. Siamo noi che cerchiamo di farlo crescere in maniera più autonoma e indipendente anche rispetto all’amore per la sorella. Non vogliamo che occuparsi di lei, soprattutto un domani, quando noi non saremo più in grado di farlo, diventi un obbligo. Lavoriamo perché la presenza di Matteo per Caterina rimanga, anche per il futuro, nel campo delle possibilità e non delle necessità». Gian Marco è impegnato in gruppi di mutuo aiuto per genitori che hanno figli con disabilità. Insieme alla moglie ha visto nascere a Milano l’Agpd (Associazione genitori e persone con sindrome di Down) e di recente è stato nominato presidente di Down Lombardia (il coordinamento delle associazioni che, in regione, si occupano di sindrome di Down).
Caterina oggi frequenta la seconda elementare. «Ama studiare, leggere, cantare e ballare, ma prima ancora relazionarsi con gli altri, e questo le ha fatto fare passi da gigante. Anche lei avrà, un domani, un suo progetto di vita. Come per Matteo, ci auguriamo che possa realizzarlo, anche se sappiamo che non potrà farlo da sola. Ma questo appartiene alla normale diversità di ciascuno. Quando mi presento, dico che “ho due figli”, e non che “ho due figli, di cui uno con disabilità”. Qualsiasi genitore non direbbe “ho due figli, uno biondo e l’altro moro”. È questo salto, culturale e non solo, che dobbiamo fare tutti».
 
Il libro
Il matrimonio cristiano suggella il dono dell’amore tra uomo e donna e il patto con Cristo che ne sancisce l’unione e la benedizione. La famiglia è un pilastro della società, una cellula viva della Chiesa, la culla in cui si forma la personalità dei figli e si trasmette loro la fede. Il fidanzamento è alla base di tale processo di maturazione.
Sono questi i tratti salienti del saggio, curato da Giuliano Vigini, dal titolo La famiglia. Speranza della Chiesa e della società (Paoline, pagg. 146, euro 16,50), che raccoglie alcuni tra i più illuminanti insegnamenti del magistero di Benedetto XVI. (A.B.)
 
FAMIGLIE ACCOLTE  
Incontrarsi a Milano

di Luisa Santinello 
 
Le famiglie Djoda (Camerun)e Dias (Emirati Arabi) sono pronte a partire per Milano grazie alla generosità di centinaia di famiglie lombarde.
 
Non ha mai viaggiato a bordo di un aereo, né si è mai allontanata dai confini del Camerun. Almeno finora. Per la famiglia Djoda il mese di maggio segna una svolta nel tran tran quotidiano: a breve, Philibert, Justine e due delle loro quattro figlie si imbarcheranno alla volta di Milano per partecipare al VII Incontro mondiale delle famiglie. Merito del progetto Fly family, promosso dalla Fondazione diocesana per gli oratori milanesi, che, grazie alla generosità di centinaia di famiglie lombarde, sostiene le spese di viaggio e offre alloggio a quei pellegrini che altrimenti non potrebbero permettersi di prendere parte alla cinque giorni milanese.
Dalla sua modesta abitazione alla periferia di Garoua, nel Nord del Camerun, Philibert Djoda aspetta emozionato il giorno della partenza. Per questo tecnico agricolo quarantacinquenne e per sua moglie Justine, il VII Incontro per le famiglie non si ridurrà a un semplice battesimo dell’aria. «Sarà un’occasione per mettere in rete valori, culture e tradizioni diverse; un modo per collegare famiglie che vivono a migliaia di chilometri di distanza – commenta Philibert –. Nella speranza che, a dispetto delle lingue diverse e delle comunicazioni non facili, nascano amicizie durature».

Di tutti i cattolici che gravitano attorno alla parrocchia di St. Jean-Marie Vianney, nel quartiere di Ngalbidje, i Djoda sono gli unici che partiranno alla volta dell’Italia. «Sono stati gli stessi fedeli riuniti a scegliere la famiglia predestinata – assicura don Alberto dell’Acqua, responsabile della comunità religiosa di St. Jean-Marie Vianney –, che può partire grazie alle risorse messe a disposizione dalle parrocchie di Villa Cortese e Busto Garolfo (Milano), con cui siamo gemellati. Per questo, chi resta in Camerun si aspetta un resoconto dettagliato del viaggio».
Dal canto loro, i Djoda non intendono deludere le aspettative: «Onorati di questa opportunità, ci stiamo preparando attraverso la preghiera e gli incontri in parrocchia – continua papà Philibert –. Dal VII Incontro mondiale delle famiglie ci aspettiamo di tornare più uniti e più forti nella fedeltà matrimoniale, nel dialogo, nella condivisione, nella comprensione reciproca, nella capacità di scambio di idee e nel rispetto». In attesa di conoscere di persona la famiglia che li ospiterà a Villa Cortese, i quattro camerunensi si devono intanto accontentare della foto di Dario e Bruna (così si chiamano i due coniugi che apriranno ai Djoda le porte della loro casa).
«Le nostre figlie, Tatiana e Albertine – spiegano i coniugi africani –, hanno già ricevuto dei messaggi dagli alunni delle classi di quinta elementare di Villa Cortese. Una volta arrivati nel paese lombardo, speriamo facciano amicizia con altri bambini e si scambino gli indirizzi. Di certo scatteremo tante foto per immortalare i momenti più toccanti. L’entusiasmo accumulato in Italia ci sarà utile per continuare a vivere la nostra vocazione cristiana laddove saremo chiamati a farlo».

Dubai chiama Italia
A qualche migliaio di chilometri da Garoua, tra le dune e i grattacieli di Dubai (Emirati Arabi) altre quattro persone stanno fantasticando sul loro imminente viaggio a Milano. Sette ore in aereo, più uno scalo a Istanbul, in Turchia, non sono poche per la famiglia Dias.
«Sarà il più lungo volo mai affrontato, oltre che la nostra prima volta in Europa – esordisce William Anthony Dias, 47 anni –. Certo, l’emozione non manca, ma siamo sereni e facciamo il tifo perché l’Incontro mondiale delle famiglie raccolga consensi e successo da tutto il mondo». Originari di Goa, in India, nel ’97 i Dias si sono trasferiti a Jabel Ali, città portuale a 35 chilometri da Dubai. Nella «Las Vegas degli Emirati Arabi» William fa l’ingegnere amministratore in un hotel. Sua moglie Sandra, classe ’68, lavora per una compagnia petrolifera. Insieme ai figli Schnabel Cynthia e Wilbur Sebestian (rispettivamente 16 e 5 anni), la coppia frequenta la parrocchia di San Francesco d’Assisi, situata nella zona industriale di Jabel Ali e gemellata in Italia con quella di San Giuseppe artigiano a Bariana, una piccola frazione di 6 mila persone nel comune di Garbagnate Milanese (Milano). È proprio grazie a questa parrocchia – e in particolare a don Felice Cappellini, da sempre attento alle realtà cattoliche nei Paesi arabi – che il sogno della famiglia Dias si è fatto realtà. «Contrariamente a quanto si pensi, anche nella scintillante Dubai ci sono sacche di povertà – commenta don Felice in una nota diffusa in vista dell’Incontro di fine maggio –. Negli alberghi e nei ristoranti extralusso lavorano camerieri, facchini, lavapiatti. Persone immigrate da tutto il mondo, anche di fede cristiana, che non potrebbero mai permettersi di venire a Milano per il Papa».

La Penisola Arabica (a stragrande maggioranza musulmana) è una delle poche zone al mondo a registrare un costante aumento di cristiani. Tendenza dovuta alla forte emigrazione di lavoratori provenienti dagli Stati Uniti e dall’Europa, ma anche dalle Filippine e dall’India. Come gli stessi coniugi Dias, che da ormai quindici anni coltivano la loro fede cattolica tra i palazzi lussuosi e le moschee di Dubai. Le differenze culturali e religiose, tuttavia, non sembrano turbare la famiglia cristiana, che si sta puntualmente preparando alla partenza. «In vista del VII Incontro mondiale delle famiglie – spiegano i due sposi – oltre alla preghiera e all’approfondimento dei temi che saranno trattati a Milano, ci stiamo dedicando allo studio della cultura e della lingua italiane. Ogni giorno impariamo qualche nuova parola. E di volta in volta scopriamo quanto è bello il vostro idioma».
I Dias non sanno nulla della famiglia di Garbagnate Milanese che li ospiterà, ma anche questo non li preoccupa; per William, Sandra, Schnabel e Wilbur il solo fatto di poter vedere il Papa è di per sé già un miracolo. «Ci piace pensare all’Incontro di Milano come a un primo passo verso la nascita di una rete relazionale capace di arricchire e rafforzare il nostro credo – conclude papà William –. Non vediamo l’ora di incontrare famiglie da tutto il mondo e condividere con loro culture, idee, esperienze di lavoro e di celebrazione. Senza contare che non capita tutti i giorni l’occasione di “staccare la spina” dalla quotidianità e di trascorrere un po’ di tempo assieme ai propri cari».
 
 
 
FAMIGLIE CHE INTERVENGONO
Storie di Vangelo vissuto

di Laura Pisanello
 
La vicenda dei coniugi peruviani Gomez e di Pierluigi Molla, figlio di santa Gianna Beretta Molla,che sono stati chiamati a portare la loro testimonianza all’Incontro di Milano.
 
Se dovessero scegliere un passo del Vangelo da accostare alla storia della loro famiglia, sceglierebbero il racconto della fuga in Egitto di Gesù. «Giuseppe, Maria e Gesù – dice Luis Gomez – sono una famiglia che è stata costretta a scappare in Egitto senza prospettive e senza portare nulla con sé».

Giuseppe e Maria fuggivano dalla persecuzione di Erode, la famiglia Gomez invece ha lasciato il Perù, diversi anni fa, per trovare migliori prospettive di vita. I due coniugi sono stati invitati a portare la loro testimonianza al Congresso: intervengono il 30 maggio sul tema «Il fenomeno migratorio e la famiglia».
In Italia, per prima è arrivata la moglie, Rengifo Mendoza Maria del Pilar; poi il marito, Luis Gomez. Maria e Luis hanno due figli, sono sposati da ventiquattro anni; entrambi sono laureati in biologia e chimica all’Università di Lima, dove si sono conosciuti. «La situazione del Perù non era buona – dice Luis –, volevamo un altro tipo di futuro per i nostri figli».
Oggi Luis lavora in un hotel del centro, la moglie è operatrice socio-sanitaria. «Al lavoro – dice Luis – non mi sono mai sentito straniero e ho tanti bravi colleghi ma, in generale, a Milano la paura dell’immigrato è molto diffusa».

Luis è molto attivo anche nella chiesa di Santo Stefano, punto di riferimento particolare per le comunità latino-americane e dello Sri Lanka e sede della Cappellanìa generale dei migranti. Qui c’è il braccio operativo dell’Ufficio per la Pastorale dei migranti della diocesi di Milano, il cui responsabile è don Giancarlo Quadri. «Noi – spiega Luis – all’inizio cercavamo di aiutare le persone che arrivavano in Italia, poi, per volontà del cardinale Dionigi Tettamanzi, abbiamo cominciato a lavorare sulla catechesi».
In questo momento uno dei problemi maggiormente avvertiti dalla comunità immigrata è quello della «seconda generazione», cioè dei giovani tra i 15 e i 18 anni che non si sentono pienamente integrati né nel Paese d’origine né in quello di approdo. «Noi abbiamo capito – prosegue Gomez – che forse abbiamo sbagliato a venire qui a occuparci dei figli degli altri e molto meno dei nostri. Io e mia moglie, che ha sempre voluto che la nostra famiglia restasse unita, parliamo molto di questo».
Tutta la comunità dei migranti di Milano (che riunisce ucraini, romeni, latino-americani, filippini, africani) si sta preparando da mesi all’Incontro mondiale delle famiglie. «Come comunità di cattolici stranieri stiamo scrivendo – continua Luis – una lettera da far avere al Papa per dirgli chi siamo, perché siamo qui e che cosa ci aspettiamo dal futuro. Vorremmo una società più cristiana, dove lo straniero non si senta emarginato, non ci siano guerre tra poveri e ci sia per tutti la possibilità di un futuro migliore. La società milanese deve capire chi siamo noi per vincere la paura dello straniero: solo così potremo lavorare gli uni accanto agli altri».
Luis e Maria sono sereni e si dicono «fortunati», pur consapevoli della grande fatica che il loro migrare ha comportato. Quando pensano al futuro, immaginano una serena vecchiaia nel loro Paese d’origine. «Se tutto andrà bene – dice Luis – noi due ce ne torneremo in Perù; dopo tanti anni di lavoro, potremo vivere con una pensione, senza essere di peso ai nostri figli. Loro faranno le loro scelte e noi, se avranno bisogno, saremo sempre pronti ad aiutarli a realizzare quello che desiderano».
 
Una mamma santa per il mondo
Anche Pierluigi Molla, il figlio maggiore di santa Gianna Beretta Molla e dell’ingegner Pietro Molla, è stato invitato a portare al Congresso la sua testimonianza (interviene il 31 maggio pomeriggio, a Varese).
«Mi hanno chiamato – spiega – per una testimonianza sul tema della conciliazione di “Libera professione e vita familiare”. Il mio intervento prende spunto dalla storia di mia mamma, che ha saputo coniugare l’attività professionale con la famiglia. Non togliendo nulla (come diceva mio padre) né alla famiglia né al lavoro: lei riusciva a far bene entrambe le cose, anche prendendosi delle pause dalla professione in estate. Anch’io, che sono un libero professionista, ho sempre cercato di ritagliarmi degli “stacchi” indispensabili per stare con la mia famiglia. A mio parere, una famiglia cristiana è quella in cui i genitori sono di esempio e di aiuto per i figli; è quella che sa trasmettere ai figli i veri valori; è una famiglia basata sul rispetto e sul reciproco aiuto e che, di conseguenza, fa delle scelte coerenti». Insegnamenti che Pierluigi ha visto testimoniati in sua madre Gianna, canonizzata da papa Giovanni Paolo II il 16 maggio 2004.

Gianna aveva ben chiare sia la sua missione di medico che la vocazione di mamma. Quando rimase incinta del quarto figlio (erano già nati Pierluigi, Maria Zita e Laura), scoprì di avere un fibroma all’utero. Come medico, era perfettamente conscia di ciò cui andava incontro, ma rinunciò a interventi che avrebbero compromesso la vita del feto. Disse al collega che la operò, al secondo mese di gravidanza, che la priorità era quella di salvare il bambino. Giunse al momento del parto con una serenità e una fede incrollabili, cercando senza sosta la volontà del Signore. Il Sabato Santo del 1962 venne alla luce sua figlia Gianna Emanuela e, una settimana dopo, il 28 aprile, le sue condizioni si aggravarono per una peritonite settica. Non fu possibile salvarla, aveva 39 anni; Pierluigi, il primogenito, cinque e mezzo.
«Della mamma ricordo – dice ancora Pierluigi – quando era a casa, quando a volte la accompagnavo mentre andava a visitare i suoi pazienti con la Fiat 600; ricordo quando mi insegnava a sciare in montagna. Poi nella mia memoria sono rimasti impressi i funerali. Era dolce e severa, è stata una mamma straordinaria nella sua normalità. Eccezionale per la sua coerenza, però una mamma come tutte le altre». «Certamente – conclude Pierluigi – perdere la figura materna è un’esperienza traumatica per qualsiasi famiglia. Papà seppe sopperire anche alla mancanza della mamma, che però è rimasta per noi in tutti questi anni una presenza costante. È stato soprattutto mio padre a farsi carico del lavoro di raccogliere la documentazione per il riconoscimento della santità di mia madre. Seguire le varie fasi del processo di canonizzazione ha contribuito a tenerne viva la memoria e oggi la sua testimonianza è un esempio in tutto il mondo». E lo sarà anche all’Incontro delle famiglie.
 
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017