Una perla preziosa
Il 22 aprile si celebrerà l’Earth Day, il Giorno della Terra, che quest’anno sarà incentrato sul tema «Emergenza clima». Per l’occasione, in tutto il mondo si realizzeranno manifestazioni e iniziative di sensibilizzazione e divulgazione sui temi legati alla salvaguardia ambientale. L’evento ebbe origine il 22 aprile 1970, quando 20 milioni di cittadini americani, rispondendo a un appello lanciato dal senatore democratico Gaylord Nelson, si mobilitarono per una grande dimostrazione a favore della salvaguardia dell’ambiente. Oggi l’Earth Day (per informazioni: www.earthday.net) è una manifestazione internazionale celebrata in 174 Paesi.
Per l’occasione anche noi abbiamo voluto aprire una riflessione sullo stato di salute del nostro Pianeta, chiedendo il prezioso contributo di Mario Tozzi, geologo, Primo Ricercatore del Cnr, giornalista, nonché volto noto della televisione (attualmente conduce Terzo Pianeta, su Raitre). A lui, dunque, la parola.
Quando il barbone Mustafà si è installato sotto casa mia ho avuto una reazione di rifiuto che definire razzista è dire poco: ho pensato che era sporco e incontrarlo era come finire in una fogna. In più aveva il viso quasi deformato (da un incidente d’auto, come ho saputo quando ho cominciato a parlargli), i capelli tutti attaccati e unti, la barba lunghissima e incrostata e camminava come se stesse costantemente per perdere l’equilibrio. Non contento di avere invaso il «mio» marciapiede, la notte la passava direttamente sul selciato, prima sopra alcuni cartoni trafugati dal supermercato vicino, poi su un materasso rimediato chissà come. Infine ha completato la costruzione della sua nicchia ecologica con una serie di sacchi di plastica in cui ha sistemato le sue cose, dividendo la zona notte dal soggiorno – il tutto sempre sul marciapiede – ben protetto dai dodici cassonetti che sono lì tutti in fila davanti al supermercato.
Per mesi ci siamo alzati insieme: io aprivo le persiane nel momento in cui – lì sotto – Mustafà riassettava la sua «camera» da letto, si pettinava guardandosi negli specchietti retrovisori delle moto parcheggiate e si lavava alla fontanella di fronte. Ho cominciato così a osservarlo, per cercare di vincere con la ragione quel sentimento di diffidenza che istintivamente mi aveva preso. Tutto il suo sistema energetico funzionava secondo natura, in più aveva imparato a usare gli scarti della società dei consumi e della sua tecnologia in maniera estremamente efficiente. La selezione e il recupero dei rifiuti erano il cardine del sistema, e non solo per le calorie da recuperare (per mangiare c’è sempre la Caritas). I cartoni non erano certo il materiale migliore quando pioveva, così li riservava alle giornate d’estate, quando comunque isolano dalle pietre di basalto fredde e umide di cui è composto il marciapiede. Durante le notti di pioggia un telo di plastica rigida faceva da strato inferiore sottostante il materasso, al di sopra del quale c’erano lui, le coperte che aveva rimediato e ancora una plastica più sottile a coprire il tutto, come in una piccola tenda al cui interno il calore del corpo non si disperdeva e permetteva di superare indenni anche qualche grado sotto zero. Pur non potendolo sapere, Mustafà sfruttava la proprietà che ha il nostro corpo di emettere radiazioni infrarosse, come sanno bene quegli alpinisti che passano notti in quota avvolti in un sottile fazzoletto di plastica metallizzata retroriflettente. Non l’ho mai sentito tossire né starnutire.
Sopravvivere al limite
Ho chiesto a Mustafà da dove venisse, così lui mi ha raccontato del Marocco, ma non quello delle città imperiali, piuttosto quello dell’Atlante e dell’interno o quello del deserto del Sahara occidentale. In molte regioni del subcontinente sahariano le case trogloditiche sono esempi perfetti di quello che, per millenni, gli umani che si trovano in condizioni limite hanno ideato e fatto per sopravvivere.
A Matmata, in Tunisia (nella foto in alto), come a Gharyan, in Libia, in Marocco come in Egitto, prima di tutto ci si nasconde sotto terra, dove non arrivano gli effetti torridi del ghibli – che può far salire le temperature fino a 50°C – e si rimane al fresco. Le case sono scavate nella sabbia e proteggono anche dal freddo vento invernale e dalle micidiali escursioni termiche (la temperatura di notte scende spesso sotto lo zero), in tutti i casi senza sfruttare alcuna forma di riscaldamento oltre al calore dei corpi. E delle cucine: a Ghadames – in una delle ultime oasi prima dell’immensità del deserto libico – ho pranzato in un’abitazione di tipo berbero che aveva le cucine disposte al piano superiore, collegate attraverso alcuni fori direttamente con l’esterno. In questo modo i vapori caldi uscivano con facilità (l’aria calda è meno densa e sfugge verso l’esterno) e il piano abitato sottostante restava più fresco, mentre d’inverno bastava tappare parzialmente i fori per non disperdere il calore della cottura dei cibi.
Attorno al soggiorno centrale si aprivano gli altri ambienti, comprese le camere da letto, ma nessuno aveva finestre: la luce penetrava solo dai fori del piano delle cucine. Un sistema di specchi opportunamente disposti permetteva alla luce del sole di illuminare soddisfacentemente l’interno; lo stesso accadeva la notte ponendo poche candele in punti strategici e godendo della loro suggestiva luce riflessa. I bagni erano al piano più basso, visto che nelle case di terra non sono consentite tubature (che scioglierebbero la sabbia), e gli scarichi restavano sotto la casa, dove – mescolati con la cenere delle palme bruciate, quando c’era bisogno, nei camini o per cucinare – non puzzavano e potevano essere riutilizzati per fertilizzare l’oasi. Una comunità intera di migliaia di abitanti ha resistito per generazioni al caldo micidiale del deserto libico e alle clamorose escursioni termiche senza elettricità e usando razionalmente le risorse naturali. Mustafà è figlio di quelle società e istintivamente si muove in modo da conservare energia e da usare intelligentemente le poche risorse a disposizione, mescolando l’antica sapienza delle sue genti con gli scarti del nostro progresso.
Alla ricerca della sobrietà
Lo guardo dalla finestra e penso a casa mia, dove sono riuscito a mettere in piedi un vero festival dello spreco: almeno dieci spie di stand-by accese perennemente, telefoni portatili continuamente in ricarica e ancora ricariche di lettori di cd, mp3, iPod, di computer portatili, di auricolari blue-tooth, di batterie per tutti gli usi. Un delirio di consumi che avrei avuto difficoltà anche solo a immaginare neanche vent’anni fa. E questi sono gli aspetti più eclatanti. Quante lampadine a incandescenza ho dentro casa e quante compatte a fluorescenza ? Qual è la potenza del mio aspirapolvere o quella del phon? Perché dovrei avere bisogno di un telefono che funziona solo se è attaccato alla corrente? A osservarle bene le nostre case di occidentali ricchi sono un monumento al paradosso energetico e non direi neppure che sono veramente tecnologicamente avanzate. Anche per rispetto di Mustafà, oggi ho preso alcuni provvedimenti, nemmeno tanto drastici, nell’intento di dimostrare a me stesso (e un po’ agli altri) che le abitazioni si possono cambiare a partire da subito.
Prima ho cominciato a sostituire le lampadine che si fulminavano, poi le ho cambiate quasi tutte: ci ha rimesso un po’ il design (quelle compatte a fluorescenza sono orrende), ma la durata è sei volte maggiore e permettono una notevole riduzione dei consumi; costano un po’ di più, ma la spesa si ammortizza in pochissimo tempo. L’efficienza di queste lampadine è di circa 80 lumen/Watt, mentre quelle a incandescenza arrivano al massimo a 14. Poi ho collegato tutti gli apparecchi che sono predisposti alla stessa fruizione a un’unica ciabatta con interruttore che spengo quando so di non usarli per almeno un paio d’ore. Per esempio il gruppo televisore-videoregistratore-vhs-lettore dvd-decoder digitale terrestre e satellitare. Oppure il gruppo computer-scanner-stampante-monitor. Mi sono reso conto che non ho mai usato il rasoio elettrico né il phon, senza perdere poi troppo tempo né rischiare la cervicale; ho ridotto la potenza dell’aspirapolvere e in cortile ho installato una lampada a luce fredda che si ricarica attraverso un micropannello solare e può restare accesa anche tutta la notte. Infine ho ridato indietro il blue-tooth, che tanto l’auricolare a filo basta, ripristinato il telefono a filo e mi ricordo sempre di spegnere la luce.
Dubito che Mustafà se ne sia accorto, ma io mi sento comunque un po’ più vicino a lui che non credo giudicherebbe neanche tanto efficiente quel mio microcosmo ordinato e pulito, ma sprecone oltre ogni misura.
La curiosità
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La vita riposa tra i ghiacciUn che di biblico ce l’ha. Perché quando si pensa alla conservazione delle specie, a un luogo sicuro dove mettere in salvo quanto di più prezioso nel caso di una imminente catastrofe, a chiunque torna alla mente quella indimenticabile pagina dell’Antico Testamento che narra di un’arca di legno e di un uomo che vagò nella solitudine per mesi, portando con sé ciò che avrebbe permesso alla Terra di ripopolarsi. In Norvegia il mito diventa realtà, ma ad essere portati in salvo non sono animali bensì semi. In una landa fredda, dove le temperature scivolano sotto lo zero con la stessa velocità con cui in estate tramonta il sole, e il cielo riflette il colore del ghiaccio, è stata inaugurata una grande cella frigorifera, una moderna arca di Noè che pullula di vita vegetale temporaneamente assopita.
Qui riposano centinaia di migliaia di semi surgelati, che al momento del bisogno potranno essere utilizzati per fecondare nuovamente la Terra stanca e sfruttata o semplicemente impoverita. La biodiversità di Gaia dorme in un bunker in cemento armato scavato a una profondità di 120 metri sotto il suolo. Sopra si trova la montagna di Plaataberg. Siamo a Longyearbyen, paesino dell’isola di Spitsbergen, arcipelago delle Svalbard. Oltre c’è solo il Polo Nord, il silenzio dei ghiacci, la quiete uniforme.
Ma perché conservare semi di riso, patate, barbabietola, cereali e fagioli? Perché le carestie, le alluvioni, le guerre e i cataclismi, ma anche le mutazioni climatiche che si svolgono sotto i nostri occhi, possono cancellare in poco tempo centinaia di anni di storia e cultura, affamando i popoli. La minaccia del riscaldamento globale è uno dei maggiori rischi cui andiamo incontro.
Ecco spiegata la necessità di concentrare l’intero patrimonio di sementi che l’umanità ha a disposizione in una caverna illuminata artificialmente per metà dell’anno, scavata sotto metri e metri di terra gelida. D’altra parte, «sotto la pioggia è fame e sotto la neve è pane» recita un antico proverbio contadino. Il Global Seed Vault, così si chiama l’arca di Noè verde, non è stato certo improvvisato. È frutto di ricerche appassionate, e centinaia di scienziati si sono spesi per la sua attivazione. Minimalista nelle forme, un po’ come il paesaggio circostante, è stato finanziato dal governo norvegese e in sostanza è una cassetta di sicurezza, una copia indistruttibile di quanto è già contenuto in altre collezioni simili ma non così sicure, la versione originale di un file copiato su diversi cd.
In giro per il mondo le banche che cercano di preservare la varietà dei semi locali sono più di un migliaio (quella italiana si trova a Bari).
Per mantenere il Global Seed Vault, saranno spesi 120 mila euro l’anno.
Nel caveau sono attualmente conservati 268 mila campioni di semi provenienti da 116 Paesi del mondo, ma la banca dati del grano può arrivare a ospitare 4 milioni e mezzo di specie diverse e due miliardi di chicchi. Ciascuno sistemato in un apposito sacchetto infilato in cassette di plastica a loro volta riposte negli scaffali della dispensa artica. I semi sono conservati a una temperatura di - 18 gradi, ma anche se il sistema refrigerante si dovesse malauguratamente rompere, il permafrost, vale a dire il perenne congelamento del terreno nelle zone a un passo dalle terre artiche, farà in modo che la temperatura non salga mai oltre i - 4/-6 gradi.
La costruzione sotterranea è a prova di attacchi terroristici e può conservare i semi anche per millenni. Un vero e proprio «graniere» dell’umanità, che in futuro forse alimenterà parabole e racconti, destinato a passare alla storia come le piramidi d’Egitto.
Il Fondo mondiale per la diversità delle colture, organizzazione internazionale indipendente nata dalla collaborazione del Cgiar (Gruppo consultivo per la ricerca agricola internazionale) e la Fao, si faranno carico di fare in modo che vengano conservate e raccolte le sementi dai Paesi in via di sviluppo, un’assicurazione sulla vita anche per loro.
Marta Artico
L’editoriale di padre Ugo Sartorio
Clima rovente e vittoria del rubinetto
Di fronte agli scenari apocalittici enfatizzati da alcuni «professionisti della catastrofe», c’è qualche buona notizia che fa ben sperare.
Pur riconoscendo l’importanza e l’urgenza della questione, provo sempre un certo disagio a parlare e a scrivere dell’emergenza ecologica. Sia perché qualcuno giudica che si tratti non più solo di emergenza, ma di un vero e proprio vicolo cieco, e quindi che al momento attuale ci sia un ridottissimo spazio di manovra; sia perché, all’opposto, altri si sgolano per criticare l’impatto negativo e fuorviante dell’ecologismo catastrofico e apocalittico, che non permetterebbe di mantenere i nervi saldi e la mente lucida nell’affrontare una situazione non irrimediabile pur se gravemente deteriorata. Insomma, troppi che pontificano e in tutte le direzioni.
La litania la conosciamo bene, e ce la recitano ogni giorno i tambureggianti notiziari, i drammatici e ansiogeni documentari, la moltitudine di esperti che hanno fatto del clima una sicura professione: ambiente saccheggiato e sfregiato, inquinamento delle città in pianta stabile, energie non rinnovabili verso l’esaurimento (non ci sono, letteralmente, più energie da spendere!), soprattutto un riscaldamento globale che produce dissesti all’ecosistema planetario.
Convegni su convegni, nazionali e internazionali, sempre più orientati sul vero killer, i gas serra, vale a dire le emissioni di biossido di carbonio (CO2) che si riversano nell’atmosfera provocando l’innalzamento delle temperature.
Infinite analisi e autorevoli studi, accordi e protocolli internazionali (il più noto è quello firmato a Kyoto, in Giappone, nel 1997) fanno capire che tutti dovremmo convergere verso lo stesso obiettivo, anche se il conto da pagare è salato. Si tratta anche di ridurre i consumi, quindi di tirare la cinghia, ed è positivo constatare che in Occidente il consumo procapite di energia, che ha avuto un culmine negli anni ’70, finalmente oggi tende piano piano alla decrescita. C’è persino un sorprendente accenno di decrescita negli Stati Uniti, i quali consumano circa un quarto dell’energia mondiale.
Sul versante europeo, è grande l’attenzione da parte dei 27 Paesi della Ue per combattere il cambiamento climatico: l’obiettivo individuato da Bruxelles e da approvare entro il 2008 si potrebbe chiamare 20-20-20, cioè la diminuzione entro il secondo decennio di questo secolo del 20 per cento di emissioni di biossido di carbonio rispetto al 1990, impegnandosi nel frattempo a produrre almeno il 20 per cento di energie da fonti rinnovabili. Tutto da vedere, ma speriamo che l’Europa, vero e proprio paladino di Kyoto, mantenga questa tabella di marcia.
Perché non ci colga sgomento e senso di impotenza di fronte a questo panorama grandioso e complicato, vorrei valorizzare un paio di piccole buone notizie casalinghe.
Innanzitutto la vittoria del rubinetto, impresa nella quale da qualche mese sono coinvolti alcuni tra i maggiori comuni italiani: Roma, Venezia, Firenze, Bologna, Torino… La decisione è stata quella di mettere sulla tavola delle mense scolastiche brocche d’acqua in presa diretta con l’acquedotto cittadino, e si è trattato di un gesto di alto valore simbolico. Milioni di bottiglie e bottigliette da smaltire non sono poca cosa, e, se l’alternativa c’è, meglio approfittarne. Quello che per gli adulti è un fatto di buon senso, non solo legato al risparmio immediato, diventa per i nostri ragazzi l’attivazione di uno stile di vita nella forma della socializzazione: che cioè darà frutti consistenti ma ancor più duraturi negli anni a venire. Per non dire dell’abitudine a riflettere sull’H2Oro (l’acqua) a cui gran parte degli esseri umani, e tra questi moltissimi bambini, hanno difficoltà di accesso. C’è poi da dire che anche la pubblicità fa la sua parte, senza impartire regole ma somministrando suggestioni, stati d’animo che stuzzicano l’identificazione: «Se fai qualcosa di buono per il mondo, il mondo se ne accorge».
C’è un accordo di Kyoto che va sottoscritto con la propria coscienza, magari anche con tempo di durata ed eventuali sanzioni alle quali sottoporsi. Non per una forma di autolesionismo ecologico, ma per dare una mano al mondo che verrà.
i numeri
2-2,5°C
è l’innalzamento della temperatura del pianeta previsto per il prossimo secolo, secondo il IV rapporto IPCC sui cambiamenti climatici.
20-30%
delle specie animali e vegetali del pianeta è destinato a estinguersi entro il 2050 a causa dei mutamenti climatici.
2012
è l’anno entro il quale si dovrebbero raggiungere gli obiettivi del protocollo di Kyoto.
20%
è la quantità di energia rinnovabile che l’Europa dovrà raggiungere entro
il 2020.
20%
la quota di emissioni inquinanti che l’Europa si è impegnata a tagliare entro il 2020.
80%
dei consumi mondiali di energia «primaria» è alimentato da petrolio, carbone e gas naturale.
- 1%
è il contributo attuale al consumo finale di energia mondiale, fornito da tutte le risorse rinnovabili (eolico, solare, geotermico…).
i libri
Mario Tozzi. Gaia un solo pianeta. Quale futuro ci attende? I dati e le risposte possibili. De Agostini, 2007, pagg. 623, euro 19,90
Leonardo Maugeri. Con tutta l’energia possibile. Sperling & Kupfer, 2008, pagg. 273, euro 20,00
Al Gore. Una scomoda verità. Rizzoli, 2008, pagg. 191, euro 19,00