Unità nella diversità

L'Europa deve rinunciare ai particolarismi se vuole perseguire una propria unità d'azione. Nuove tecnologie, formazione e pensioni le emergenze che l'Italia deve affrontare.
26 Agosto 2003 | di

Viviamo un momento storico decisivo per la nostra Unione, un momento che richiede unità  e forte volontà  di cooperazione fra tutte le istituzioni comunitarie, e tra queste e i nostri governi, ha affermato Romano Prodi, presidente della Commissione europea nell'intervento dello scorso 2 luglio all'Europarlamento di Strasburgo. Un forte appello lanciato, all'inizio del semestre di presidenza italiano, al senso di responsabilità  e con l'intento di sopire contrasti e divisioni che appesantiscono la situazione politica e sociale dei Paesi dell'Unione europea. Non sono ancora assopite le conseguenze della spaccatura avvenuta tra l'Europa e l'Usa per il conflitto in Iraq, mentre continua ad essere troppo debole il ruolo dei Paesi dell'Unione in Medio Oriente e senza speranza di pace duratura la presenza delle loro forze militari in Afganistan.
Il varo dell'unione monetaria, attuato in quasi tutti i Paesi dell'Unione, è stato certamente un risultato positivo ma ora, nell'elaborazione della carta costituzionale, che richiedeva rinunce a particolari leadership e interessi nazionali a beneficio di comuni scelte politiche e strutturali, lo spirito di cooperazione è andato nuovamente in crisi. Per definire gli ultimi dettagli del Trattato Costituzionale, è convocata a Roma, ad ottobre, una conferenza intergovernativa che concluderà  i lavori entro il 31 dicembre. Noi speriamo che essa possa rispondere ai problemi non risolti, tra i quali l'ingiustificata reticenza e omissione sull'identità  europea, formatasi nei secoli di storia legati al cristianesimo.
La nuova Europa sta allargandosi ad est ma ha bisogno di recuperare prospettive di sviluppo e superare i segni negativi che stanno marcando il suo futuro. Tra questi, ricordiamo il fenomeno della denatalità , il vuoto normativo a protezione della famiglia e il bisogno d'una comune politica sanitaria; la mancanza d'incentivi capaci di riattivare i mondi dell'impresa, della tecnologia, della ricerca scientifica; una comune strategia per bloccare, nei Paesi d'origine, i clandestini e le migrazioni forzate.
Giovanni Paolo II all'Angelus di domenica 13 luglio ha nuovamente espresso la sua preoccupazione non solo per le enormi difficoltà  e per una sorta di paura d'affrontare il futuro che bloccano il processo d'unificazione dell'Europa, ma anche per una diffusa frammentazione dell'esistenza, cui si uniscono non di rado il diffondersi dell'individualismo e un crescente affievolirsi della solidarietà  interpersonale. La new economy, invece di portare nel mondo maggior benessere e prospettive, sembra abbia incentivato delle chiusure e la fuga di nuove masse dai Paesi in via di sviluppo, creando nei Paesi d'accoglienza gravi problemi per la loro integrazione.
Possiamo nonostante tutto guardare all'Europa con fiduciosa speranza? Si, perché essa ha saputo abbattere i muri che la sfiguravano, e si è impegnata nell'elaborazione e nella costruzione di una realtà  capace di coniugare unità  e diversità , ha affermato Giovanni Paolo II nel discorso rivolto al Corpo Diplomatico della Santa Sede nel gennaio scorso. Coniugare unità  e diversità  significa promuovere obiettivi di pace, giustizia e solidarietà .
E l'Italia? Nonostante le polemiche iniziali, il suo ruolo in questo semestre di presidenza non sarà  certo protocollare: molti sono i problemi aperti, molte le attese di scelte politiche coraggiose, nella soluzione delle quali essa può offrire un contributo legato al suo patrimonio culturale, sociale e morale. Se, per esempio, sarà  accolto il programma d'investimenti pubblici in infrastrutture europee internazionali proposto dall'Italia, fin dai prossimi mesi avremo certamente maggiore occupazione. Guardiamo quindi anche al futuro dell'Italia con relativo ottimismo.
Nel 2002, il 36° Rapporto Censis sullo stato della nostra società  parlava di un'Italia con le pile scariche, di un bel Paese che all'estero vorrebbero imitare, ma che invece dimostra segni di malessere. Dopo un anno, rimangono necessarie radicali riforme nei settori della ricerca, della formazione, dell'università , delle pensioni; l'attesa d'investimenti in tecnologie e risorse umane. Ma ci sono anche segni di ricarica, come la maggiore flessibilità  nel mercato del lavoro, la riduzione della precarietà , l'attività  delle comunità  locali e del volontariato. Se le grandi imprese sono in crisi, sono attive quelle legate alla nostra cultura: il modello della piccola impresa, esportato soprattutto nei Paesi dell'America latina.  Chi visita il Nord Est d'Italia, constata quanto sia sviluppato questo modello che ha avuto tra i suoi protagonisti tanti connazionali ritornati in Italia. Alcuni dati indicano non solo l'aumento dei risparmi, dell'occupazione, la vivacità  di tante presenze nei settori del sociale, della formazione e del non profit, ma anche una positiva integrazione di tanti immigrati nel mondo del lavoro e dell'impresa. A testimonianza che l'Italia è ricca di creatività  e di cultura solidale.                       

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017