Un’Italia invisibile?
La parola «invisibile» non allude ai fantasmi o alle streghe che popolavano il mondo della mia infanzia, per colpa di quei racconti che gli anziani erano soliti narrare a noi ragazzi, forse con una punta di sadismo, facendoci perdere sonno e tranquillità. E non si riferisce neppure a sogni e desideri nascosti che ciascuno di noi – persona o popolo – culla nel proprio «io» più profondo.
«Invisibile» è, piuttosto, quel mondo nascosto, quasi mai raccontato e spesso nemmeno ricordato, che sfugge alla consapevolezza umana. Oggi la nostra attenzione è ostaggio dell’attimo fuggente. Siamo schiavi dell’enorme volume di informazioni che i mass-media ci offrono ininterrottamente, giorno e notte. L’incalzare di notizie a getto continuo ricorda la tavola di un banchetto dove le portate si susseguono a un ritmo così veloce da non lasciare spazio a una buona chiacchierata che renda più piacevole il momento conviviale.
Di recente ho avuto la fortuna di trascorrere un paio di mesi in Italia, in una valle della provincia bergamasca. Proprio lì ho potuto appurare le mutazioni che, in maniera subdola e strisciante, hanno modificato il pensiero comune cancellando modi di essere acquisiti da decenni, offuscando verità e quotidianità e, di conseguenza, rendendoli invisibili alla coscienza. Quotidianamente ho avuto modo di seguire le vicende italiane sulle varie testate giornalistiche. Spesso mi sono chiesto a chi giova il continuo stillicidio di notizie.
Ho cercato, poi, di seguire i ragionamenti dei miei valligiani, e questo pensiero ha finito per perseguitarmi ancora di più. Per non parlare, poi, dei programmi radio-televisivi, dove la lingua italiana viene bistrattata e, suo malgrado, colonizzata dall’idioma inglese. Tutto viene caratterizzato da frequenti citazioni o interlocuzioni in inglese, con una pronuncia spaventosa. Ma dove si è nascosto l’italiano e su quale nuovo pianeta abitano gli italiani di oggi? Mi son domandato se si tratti di una moda passeggera oppure di una spinta neo-colonialista che parte dal di dentro.
Fino a pochi anni fa era forte la tendenza a riportare in auge i dialetti locali e le culture di un determinato territorio. Dalle mie parti, la segnaletica stradale annunciava il nome del paese in italiano, con accanto la versione in dialetto bergamasco, bresciano o lodigiano.
Qualcuno potrebbe obiettare, e potrebbe anche essere vero, che tutto questo è frutto di una spinta della post-modernità che riguarda non solo l’Italia, ma il mondo intero. È possibile, certo, ma con quali risultati? Dove son finiti il bel parlar «gentile», lo scrivere correttamente secondo regole fissate dal tempo e dall’esperienza collaudata, l’esprimere sentimenti senza ricorrere a parole sguaiate o inappropriate? Quella che pare morta e sepolta è la consapevolezza del proprio retaggio storico, culturale e linguistico costruito pazientemente e con tanta fatica nel tempo.
Ci si trova di fronte a un’Italia che pare sconosciuta, dove i valori sono diventati «invisibili», quasi per tocco magico. Tutto questo ha sconvolto i miei ricordi e le mie certezze, proponendomi emozioni nuove.
Migrazione e istruzione
Sono da poco terminate le celebrazioni dei 150 anni dall’Unità d’Italia (anche se il cammino verso una maggiore coesione non è ancora finito), ma non sono terminate le lamentele per le varie «stangate» alle tasche degli italiani, per il cronico divario tra il Nord e un Sud eternamente fanalino di coda, a causa dell’aggravarsi della disoccupazione giovanile e per la perdita del potere d’acquisto.
Penso ai 14 milioni di italiani emigrati verso le Americhe, negli ultimi decenni del Novecento, fino alla vigilia del primo conflitto mondiale. Quasi il 70 per cento era analfabeta. Da quel tempo, le cose sono cambiate. Nel campo dell’istruzione si sono raggiunti grandi traguardi, e l’analfabetismo può dirsi sconfitto. Coloro che hanno sete di sapere dispongono di scuole superiori e università, corsi di approfondimento, tirocini scolastici e di tutte le forme più moderne di aggiornamento. Certo, esistono anche numerosi problemi: ci sono ambienti scolastici decadenti o insufficienti, e soprattutto mancano sbocchi di lavoro per chi esce dal circuito scolastico. Le soluzioni, poi, non sono sempre facili. Un ragguardevole numero di giovani italiani laureati trova impieghi redditizi solo all’estero. Ciò permette loro, anche se lontano dalla propria patria e dagli affetti familiari, di costruirsi un futuro. Sarebbe, però, auspicabile che trovassero la loro dimensione nel Paese di origine, anche per preservare l’abitudine alla patria lingua.
Quale futuro
Ma dove va un Paese che non ama la propria storia e la propria lingua? Quest’ultima è uno strumento insostituibile di coesione socio-culturale. Non può essere bistrattata o umiliata da mode e spinte contemporanee disfattiste e demolitrici di un tessuto che ha saputo modellare e rimodellare i sentimenti e l’anima di intere generazioni. La lingua di un popolo non è un giocattolo che si usa e si getta, è una ricchezza da preservare e tramandare. Il rabbino Jonathan Sacks, uno dei filosofi contemporanei più citati, il 12 dicembre scorso a Roma ha affermato che l’Europa, e anche l’Italia, corrono il rischio di perdere la propria anima e identità. Molti sono coloro i quali sottolineano che, senza una propria lingua, si va alla deriva, verso un annientamento collettivo.
Conoscere e parlare lingue diverse è un piacere che ci permette di gustare altre culture. Ma è altrettanto bello sentire il proprio idioma ben pronunciato: un valore culturale che deve essere valorizzato sempre e dovunque.