Uno smash alla recessione

La storia di Simone e della sua racchetta da tennis. Un padre disoccupato, ma generoso. E una madre rassicurante. Perché anche nei momenti difficili, non bisogna rinunciare a ideali e speranze.
14 Giugno 2012 | di

La grande passione di Simone era il tennis. Quindici anni, un fisico robusto e una battuta imprendibile per i compagni. Quattro anni prima aveva iniziato a lanciare le palline oltre la rete. In realtà era solo una corda sfilacciata che separava le due metà del vecchio campetto d’asfalto dell’oratorio, dove il papà era cresciuto tra ginocchia sbucciate e suole di gomma spellate dall’attrito delle scivolate.
A forza di battere e con qualche «dritta» dell’amico di papà, vecchio e talentuoso giocatore di tennis, Simone aveva raggiunto una buona dimestichezza sia con il dritto che con il rovescio, tanto da meritare l’usufrutto della vecchia e gloriosa racchetta del babbo. Pomeriggi interi dedicati a rispondere palla su palla. Per fortuna, l’estate di vacanza non lo assillava con i compiti. Erano giornate serene che talora passava in compagnia del papà (visto che era in ferie). La cosa strana era che le ferie di papà non gli erano mai sembrate così lunghe. Un pomeriggio, rientrando a casa, si era accorto che la mamma stirava con più fatica e, scura in volto e un po’ distratta, non aveva risposto al suo saluto. Non diede molto peso alla distrazione della mamma. A volte capitava che, stanca, forse a causa dei lavori o dei capricci lamentosi del figlio più piccolo, la mamma fosse un po’ triste, ma poi a cena tutto si ricomponeva.

La sera, però, a cena nessuno sorrideva. Il silenzio amplificava il rumore dei cucchiai che raccoglievano il minestrone. Simone sentiva di non poter più tollerare quelle facce serie e, incrociando gli occhi di papà, gli lanciò uno sguardo interrogativo. Fu allora che suo padre, dopo un lungo sospiro, sbottò: «Simone, non ho più il lavoro!». Quello che faceva più male a Simone erano gli occhi lucidi della mamma che non parlava. Allora gli fu chiaro che quella che sembrava una lunga vacanza del papà, in realtà, si chiamava cassa integrazione. E adesso era finita. Così erano appesi alle poche ore settimanali che la mamma trascorreva dal fornaio: un piccolo lavoro che faceva da quando era ragazza. «Come faremo?» fu la frase che scivolò a Simone, e a questa domanda, papà ebbe l’idea di abbozzare un sorriso e una carezza, perché i figli hanno sempre diritto alla speranza. A Simone bastò quel gesto per sentirsi consolato, e la cena continuò sull’onda di quel sorriso.

Quella mattina Simone si sentiva in forma, e la partita di tennis volgeva a suo favore. Le battute entravano una dopo l’altra, e la vecchia racchetta di papà sembrava aver perso il peso degli anni. Un passante, improvviso e contro sole, tirato dal compagno di tante sfide, costrinse Simone ad abbassare di scatto la racchetta. Fu un tonfo secco contro il duro e rugoso asfalto. Il vecchio manico scricchiolò, e con un gemito causato dallo sforzo, Simone vide la racchetta spezzarsi in due. Al ragazzo sembrò che gli stesse crollando addosso l’oratorio intero.

Faceva più male il manico spezzato che non il polso colpito dal rimbalzo del legno. Non ebbe coraggio di dire nulla a pranzo. Nascose la racchetta spezzata, e soffocò il dolore del polso anche se quanto era accaduto gli velava lo sguardo. Più volte aveva sognato una bella racchetta nuova, ma ora questo desiderio era proprio impossibile da realizzare. Quante volte aveva rubato con gli occhi le racchette dei campioni nei grandi tornei in televisione. Ne aveva ammirato le forme. E ne conosceva tutte le marche!
Sembrava strano, a mamma e papà, che Simone non giocasse più a tennis da alcuni giorni. Sulle prime pensavano che fosse il dolore del polso. Poi, però, anche il polso si sgonfiò, e per Simone c’era sempre una scusa più o meno plausibile per non giocare. Passava spesso davanti alle vetrine del vecchio negozio di sport, dove papà, molti anni prima, aveva comperato la sua racchetta. Da tempo era cambiato il proprietario: non era più il compagno di scuola di papà, ma uno sconosciuto. Eppure le racchette nuove erano sempre lì, appese sullo sfondo di un poster di Wimbledon. Da quando non aveva più la vecchia racchetta, Simone trovava il modo di passare ogni giorno davanti a quelle vetrine, e rimaneva lì per qualche secondo, come incantato, senza accorgersi che suo padre, più di una volta, l’aveva osservato, tenendosi a breve distanza. Mamma e papà iniziarono a insospettirsi: non riuscivano a trovare una spiegazione al fatto che Simone non giocasse più a tennis.
Fu quasi per caso che la vecchia racchetta spezzata sbucò da un angolo buio della cantina quando la mamma rovesciò delle scatole di scarpe alla ricerca di un paio di stivali da rimpiazzare. Quella sera, papà chiese a Simone (e non fu un caso) se gli poteva ridare la sua vecchia racchetta perché, ora che aveva tempo, gli sarebbe piaciuto sgranchirsi un po’. La sua richiesta gonfiò di pianto gli occhi di Simone che non riuscì a trattenersi, e poco dopo comparve tra le mani del babbo un manico spezzato. Non ci furono grandi discorsi, ma papà capì che la mancanza della racchetta era intollerabile, e appoggiò la mano sulle spalle curve di Simone che non aveva il coraggio di chiederne una nuova.

Fu faticoso e un po’ umiliante per il papà di Simone entrare nel vecchio negozio di sport e chiedere allo sconosciuto proprietario una racchetta da tennis che poteva essere pagata solo in quattro rate mensili. Non aveva mai voluto comprare nulla lasciando un debito, ma ora non aveva alternative, se non chiedere questo favore. Anche la mamma gli aveva chiesto di vincere l’imbarazzo: «Fallo per Simone!».
La sera stessa, Simone non credeva ai suoi occhi: proprio quella marca! «Ma papà, come faremo a pagarla?». «Non ti devi preoccupare, Simone, non hai sentito che ieri sera hanno detto al telegiornale che la crisi economica si supera solo se consumiamo di più? Anche noi diamo il nostro contributo». A Simone rimase il dubbio se le parole di papà fossero vere o solo espressioni della sua consueta ironia, ma ormai era in giardino a provare la racchetta nuova, e non vide il sorriso complice della mamma che stringeva la mano del babbo sussurrandogli «grazie».
 
Zoom. Consumare per battere la crisi?
 
Lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Un’utopia?
Due anni fa, l’Europa celebrò l’Anno della lotta alla povertà e all’esclusione sociale. Oggi sembra di vivere in un altro pianeta perché la crisi economica continua a chiudere in una morsa sempre più stretta la vita di tante famiglie e di molti giovani. Il futuro appare incerto e difficile a tutti. Una condizione che ormai contraddistingue quel senso di precarietà che sembra permeare la nostra vita quotidiana.
 
L’11 per cento delle famiglie è povero
La politica italiana ha abdicato in favore dei «tecnici» che, comunque, non hanno la bacchetta magica. Molte famiglie scivolano verso condizioni di vita sempre meno favorevoli. I dati dell’Istat ci dicono che la povertà coinvolge ormai l’11 per cento delle famiglie italiane, e che la capacità di risparmio si contrae progressivamente. Perfino le giovani famiglie si avvicinano alla soglia della povertà, e solo l’intervento della famiglia d’origine consente ai figli di non cadere nel circolo vizioso dell’indebitamento. La disoccupazione rappresenta quasi il 60 per cento delle cause di povertà, e anche le professioni a basso reddito sono in grave difficoltà. Il Banco alimentare segnala che oltre l’80 per cento dei suoi assistiti è fatto di operai.
 
Ciclo produttivo e calo dei consumi
Il ciclo produttivo si sostiene solo se i beni vengono effettivamente consumati. Ed è proprio in questa direzione che vanno gli appelli per una ripresa dei consumi, stagnanti anche nel nostro Paese. Così si è diffusa l’erronea convinzione che la povertà non sia definita dall’assenza di occupazione, ma dall’incapacità di consumare; e che la vera colpa non stia nella mancata produzione di beni, ma nel loro ridotto consumo. In un mondo in cui i progetti di vita si fondano non sul lavoro, ma a partire dai consumi, la povertà di chi è escluso non appare più come un’ingiustizia contro cui lottare, ma addirittura come una colpa personale.
 
Borsa, speculatori e televendite
I giochi della finanza e i sistemi del credito del nuovo millennio ci hanno fatto credere che si poteva spendere senza avere i soldi. La pratica del consumo ha cambiato lo scenario della nostra vita e delle nostre città. Pensiamo al fiorire di enormi centri commerciali dove le famiglie trascorrono sovente il loro tempo libero o le domeniche. Le nostre case risuonano di televisori perennemente accesi. Ogni vita individuale è attraversata dal marketing, dalle televendite, dalle «occasioni imperdibili», dalla posta spazzatura. Destinatari di questi messaggi sono spesso i bambini, un canale privilegiato
per orientare e veicolare i consumi
della famiglia.
 
Impronta ecologica e risorse disponibili
Oggi siamo in allarme per l’impronta ecologica della terra, ovvero per quel parametro che stima la superficie di territorio produttivo e di ecosistema acquatico necessari a produrre risorse e assorbire i rifiuti della popolazione. Allo stato attuale, l’umanità ha un’impronta ecologica del 50 per cento superiore alla capacità del pianeta di rigenerarsi. È verosimile ritenere che lo stesso ambiente naturale costituisca un vincolo all’espansione dei consumi umani. Non possiamo scordare che la Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, segnala che il 30 per cento del cibo prodotto è destinato a finire nei rifiuti perché non viene utilizzato.

Data di aggiornamento: 03 Luglio 2017