Vecchi e giovani, un futuro insieme

08 Gennaio 1999 | di

Sto sfogliando un volume di poche parole e tante splendide fotografie. Si intitola Verso la Foce. Riflessioni fotografiche sui Vecchi. È di Sebastiana Papa per le edizioni Vita e Pensiero. La parola Vecchi è scritta con l'iniziale maiuscola, coerentemente con il rispetto che circola in tutto il libro per gli esseri umani colti dall'obiettivo nella realtà  del loro ambiente di vita senza abbellimenti e senza compiacenze.

Giorni fa, ho letto in un quotidiano la protesta di un lettore che non vuole essere chiamato anziano, e tantomeno vecchio, perché lo trova umiliante e dispregiativo. Preferirebbe essere chiamato senior come si fa negli Stati Uniti dove, così scrive il lettore, c'è maggiore rispetto per chi ha più anni di vita. Senza entrare nel merito di quanto avviene in quel Paese, mi limito ad osservare che non dobbiamo aver tanta fiducia nelle parole, siano esse gradevoli o sgradevoli al nostro orecchio. Maggiore attenzione dovremmo dedicare ai «fatti» che fanno sì che certe parole, come «vecchio», siano sempre più usate come insulto, invece che pronunciate e utilizzate in segno di rispetto. Ho l'impressione che se non cambiano le condizioni di vita degli anziani e l'atteggiamento che la comunità  ha nei loro confronti, non sarà  sufficiente cambiare una parola per incidere sui fatti. E con il passare del tempo anche senior - o altro termine ritenuto più accettabile - finirebbe col divenire un insulto, come «vecchio».

Non va poi trascurata la possibilità  che le parole, soprattutto quelle insultanti, si trasformino in etichette e producano a loro volta fatti. Se, poniamo, stabiliamo che si diventa ufficialmente vecchi dopo i sessantacinque anni, ci viene affibbiata l'etichetta «vecchio», con tutto il carico di stereotipi e pregiudizi, per lo più negativi, che attorno a questa parola si è venuto accumulando negli anni. Non sarò, dunque, soltanto un essere umano di sessantacinque anni, ma un «vecchio» nel senso di logoro, superato, debole, vicino al fine-corsa. E allora coloro che hanno a che fare con me si comporteranno di conseguenza, con il bel risultato di confermare - e talvolta di convincere perfino me - che sono proprio logoro, superato, e così via. Ecco che le parole, divenute etichette, hanno prodotto dei «fatti».

Chi, mosso a compassione, vuole evitare di offendere il vecchio, sostituirà  il termine ormai divenuto offensivo, con qualche eufemismo: «maturo», ad esempio, oppure «di una certa età », «meno giovane», e così via, evitando perfino la parola «anziano» che sta, pericolosamente, avviandosi a far la fine del vocabolo, un tempo glorioso, «vecchio».

Tutto questo mi piace poco. Io mi sforzo di fare in modo che «vecchio» e «vecchiaia» non siano più brutte parole; termini che richiamano esperienze di vita talmente spiacevoli da dover essere coperte da eufemismi, come si usa fare per certe malattie. Io spero di contribuire, insieme a tanti altri, a modificare i fatti così da ridare contenuti positivi alla parola «vecchio».

Intanto occorre che gli stessi anziani la smettano di considerarsi solo degli ex. Passi che gli altri li considerino come tali, ma loro dovrebbero evitare di annegare nella nostalgia e nel rimpianto.

Ai più giovani, che snobbano gli anziani in quanto solo ex, si dovrebbe dire che tutti noi, qualunque sia la nostra età , cresciamo diventando ex di qualcosa o di qualcuno.

Qualunque sia la nostra età , noi siamo ex, ex embrioni, ex feti. Quest'ultimo esempio dovrebbe farci riflettere. Il neonato, il bambino molto piccolo, non si preoccupa di essere un ex perché nel suo ambiente non c'è nulla che glielo faccia pesare. E più avanti, crescendo, quando il bambino è già  in grado di avere nostalgie e rimpianti, di solito nessuno lo accusa di essere un ex, anzi lo si spinge in avanti, verso il futuro, con messaggi che non insistono nel rimpiangere la sua condizione precedente.

Le cose vanno più o meno così per gran parte della giovinezza, finché un giorno ci accorgeremo di essere diventati degli ex per tanti. E da vecchi? Se non abbiamo potere, di qualunque tipo, ma soprattutto se non avremo coltivato ideali, sogni, progetti che aprano dinanzi a noi prospettive, un futuro, se non avremo imparato ad apprezzare ogni tappa della nostra esistenza senza nutrirci solo di rimpianti, chi ci eviterà  di essere definitivamente bollati come ex e di sentirci tali?

Lo scrittore David Grossman, nel volume che sto sfogliando, elogia l'autrice per le immagini di vecchi, affettuose e piene di compassione e sensibilità  e, in segno di ringraziamento, le dona un brano di un suo racconto, Il duello, in cui si parla della profonda amicizia tra un ragazzo di dodici anni, David, e un vecchio di settanta, Rosenthal.

David una sera capisce «d'improvviso», che anche il vecchio Rosenthal «un tempo è stato giovane, ha amato, ha avuto amici e ragazze e alle feste, quando ballava con la sua Edith, era sicuro che il mondo fosse stato creato esclusivamente per lui». E la mente del dodicenne David, che talvolta si sente scoppiare di vitalità  e allegria, è attraversata da un pensiero semplice e illuminante: verrà  un giorno in cui i miei figli e i miei nipoti non riusciranno a immaginarsi che io sia stato così giovane ed entusiasta. Già , perché «gli occhi della nostra infanzia conoscono quel che solo alla fine della nostra vita avremo il coraggio di vedere».

Ho scelto di iniziare la mia collaborazione al «Messaggero di sant'Antonio» con questo invito a stabilire un ponte tra giovani e anziani; la via più ardua, quella che molti ritengono addirittura impossibile: il dialogo tra generazioni distanti.

Ricordo un antico lamento: ah, se i vecchi potessero e i giovani sapessero! Il fatto che sia antico non implica che sia del tutto sensato, perché, in poche parole, condensa un gran numero di pregiudizi sulla vecchiaia e sulla giovinezza. Pregiudizi di cui si nutrono giovani e anziani e che presentano la vecchiaia come l'età  dell'impotenza e la giovinezza come quella dell'ignoranza. Su queste basi non c'è possibilità  di dialogo e la stessa convivenza si presenta difficile.

Ecco allora che, nel tentativo di smentire questi pregiudizi, qualche giovane, per dimostrare a se stesso e agli altri di «saperla lunga», si spinge fino all'arroganza e alla saccenteria. A sua volta, qualche anziano tenta di confutare lo stereotipo del vecchio debole e in fase calante, tentando di dar prove di potenza a se stesso e ai più giovani, spingendosi talvolta oltre i limiti propri e quelli del ridicolo.

Non è così che si avvia un dialogo fertile tra generazioni. Il confronto va tentato tra esseri umani autentici e non tra maschere. L'amicizia tra David e Rosenthal si è formata nel tempo, frequentandosi in un clima non competitivo e, alla lunga, ha dato i suoi frutti: l'uno, l'anziano, ha ricordato la propria infanzia, l'altro, il ragazzo, è riuscito ad immaginare se stesso da vecchio.

In questi ultimi mesi, assistiamo a un crescendo di attenzione dei mezzi di comunicazione sulla condizione degli anziani. Dovrei esserne lieto. Tuttavia, mi sembra di cogliere in gran parte degli interventi e nel risalto dato a certe notizie, il permanere dei consueti pregiudizi e stereotipi. Oggi come ieri, l'anziano «fa notizia» per alcune, eccezionali, imprese di singoli. Un tempo era Charlie Chaplin divenuto padre in tarda età , in questi giorni è Glenn, l'astronauta protagonista ancora una volta di uno spettacolare viaggio spaziale. Abbondano i commenti in chiave trionfalistica, del tipo «non è mai troppo tardi», si esaltano alcuni vecchi eccezionali assurti a modello per tutti gli anziani del pianeta.

Io continuo a pensare che dovremmo occuparci di più degli anziani e dei vecchi «normali», quelli che non compariranno mai in prima pagina, ma che fanno parte del panorama della nostra esistenza quotidiana. Continuo a credere che sia difficile invecchiare bene quando le condizioni economiche e di salute non ci consentono di ricavare il meglio dalla nostra vita. Il «meglio» è trovare un senso nella nostra giornata, avere un'esistenza fertile, cioè ricca di sogni, progetti, ideali, fino all'ultimo minuto di vita. Il «meglio» consiste, anche, nell'alleviare le fatiche del vivere di coloro che invecchiano soli, malati, poveri. Il «meglio» è preparare responsabilmente la nostra vecchiaia quando siamo giovani, contribuendo a modificare il clima di negazione, cinismo e indifferenza che rende penosa la vecchiaia degli anziani di oggi e di domani.

Mi auguro di avviare con voi, cari lettori, un dialogo fertile sul tema della vecchiaia. Già  questo è un obiettivo ambizioso, al limite dell'utopia. Dialogare non è esperienza frequente nella nostra giornata. Presuppone, infatti, che due o più persone confrontino posizioni diverse, impegnandosi ad ascoltarsi con attenzione, a cercare di capire le ragioni dell'altro, a mettere in discussione e, se convinti, a modificare le proprie posizioni iniziali. Facile a dirsi, difficile da realizzarsi. Viviamo in un'epoca nella quale le comunicazioni si scambiano in una quantità  e ad un ritmo senza precedenti. Ma mai come in questa nostra epoca c'è tanta solitudine, forse perché nel flusso crescente di comunicazioni il dialogo è sempre più raro.

 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017