In vecchiaia vince chi fugge
Gli ultimi dati forniti dall’Istat ci prospettano un Paese – il nostro – nel quale il numero degli anziani e dei vecchi cresce inesorabilmente. E se oggi in Italia un individuo su quattro ha superato i 65 anni, nel 2050 gli «over 65» saranno addirittura il 30 per cento della popolazione.
Si resta vecchi sempre più a lungo, insomma, ma forse ciò che conta realmente è il modo con il quale riusciamo ad affrontare quest’ultima fase della vita. Un ricercatore americano ha suddiviso i vecchi in tre categorie: «sopravvissuti», che manifestano demenza prima degli 80 anni; «ritardatari», nei quali il disturbo si verifica dopo gli 80 anni; «fuggitivi», che non presentano alcun segno di deterioramento. È a questi ultimi che vogliamo ispirarci, per carpire il loro segreto.
È davvero possibile arginare l’inevitabile perdita di neuroni con una serie di strategie riparatrici? Si può allontanare quella sorta di «atarassia» (apatia, ndr) che fa sì che in vecchiaia si perdano molti interessi e si affievoliscano gli affetti? Senza incorrere nella visione paranoica di chi nega l’inevitabile decadimento imposto dagli anni alle nostre forze, alla vista, all’udito, alla memoria, alle capacità di risonanza affettiva, è legittimo chiedersi se la vecchiaia si può «imparare». Se l’apprendimento è una sorta di filo rosso che percorre la nostra vita fin dalla fase intrauterina, perché pensare che questo filo debba necessariamente spezzarsi proprio quando se ne ha più bisogno, quando cioè le vecchie abitudini non bastano più al nostro benessere?
Se ci inoltriamo nella lettura di testi che a vario titolo si occupano della vecchiaia – libri o articoli di neurologi, geriatri, filosofi, scrittori – ci troviamo di fronte a un panorama sconcertante, che vede contrapposti pessimisti e ottimisti: gli uni propensi a sottolineare i risvolti inevitabilmente deficitari e penosi dell’ultima età della vita, gli altri tutti tesi a vederla come ancora integra e soddisfacente. Cominciamo dai primi, per riservarci in seguito la prospettiva più confortante.
Qui troviamo un lungo elenco di limitazioni e decadimenti cui la vecchiaia ci sottopone, che inducono, per esempio, il filosofo Norberto Bobbio a dire che l’unica vera saggezza in vecchiaia consiste «nel guardare senza indulgenza al proprio passato, non fare affidamento sul proprio incertissimo avvenire e, quanto al presente, salire ogni anno più in alto sugli spalti, cui giungono meno nitide le immagini degli attori e più fioche le voci della strada». Concordo pienamente con l’autore quando ci parla dell’inutilità del rincorrere un’immagine di sé che non corrisponde più alla realtà, ma sono spaventata dalla proposta di questo progressivo e voluto isolamento, di questo salire sempre più in alto dove nessuno possa raggiungerci.
In altri ancora, come la scrittrice e saggista Simone de Beauvoir, l’analisi del decadimento senile è agghiacciante. Ciò che soprattutto colpisce nella sua disamina è la convinzione che, al contrario di quanto comunemente si crede, i vecchi vivono nel «deserto del passato». Spesso dietro di loro c’è il vuoto e davanti un futuro inesistente, che li costringono a vagare in un presente impoverito.
Leggendo questi autori ciò che più spaventa, paradossalmente, non è tanto il deterioramento fisico, con l’inevitabile corredo di dolori che ne consegue, quanto quello mentale e, soprattutto, affettivo. Si parla di incapacità di orientarsi nello spazio, di difficoltà a cogliere il senso di ciò che si legge, di un’aridità che non permette di entrare in sintonia con gli altri, siano pure familiari.
Per fortuna le più recenti ricerche delle neuroscienze ci inducono all’ottimismo circa la possibilità di conservare il più a lungo possibile le nostre capacità cerebrali, in virtù di una ormai accertata «plasticità neurale». Tutto questo, però, a patto che non ci si adagi soltanto in attività di routine, ma si affrontino anche compiti completamente nuovi, che impongono la fatica dell’apprendere. Vale a dire: tutto si paga, ma i benefici che se ne traggono sono importanti. Se vogliamo che il cervello si rigeneri, dobbiamo sottoporci a sfide continue, magari piccole ma benefiche, come imparare l’uso del computer, le regole di una nuova lingua o quelle di un gioco del quale non siamo mai riusciti a impadronirci. Ma al di là di questi stratagemmi – senza dubbio utili ma talvolta troppo enfatizzati dai media e che spesso tradiscono gli interessi di una società dei consumi – quello che conta è conservare l’apertura mentale verso il «nuovo», mantenere la curiosità e l’interesse per quello che si muove intorno a noi.
Altra strategia utile è quella di riappropriarsi di una capacità perduta da tempo, o per lo meno tenuta in sordina. Quella di liberarsi della capsula del tempo, della necessità, per ritrovare il gusto del giocare, di attività che non siano finalizzate all’utile soltanto ma anche al piacere. E in questo recupero possono avere un ruolo fondamentale i nipoti che, se piccoli, portano quasi per mano i vecchi in un mondo di fantasia e di magia, permettendo loro di imparare una «sapienza del cuore» che va oltre quella della mente.
Per tutto ciò esiste un unico viatico, che è fatto di consapevolezza e accettazione. Qualcuno, infatti, ha ravvisato nell’incapacità d’invecchiare una delle devastazioni della nostra società, che spesso ci invita a imbalsamare il tempo che scorre – lifting sempre più azzardati, abiti sempre più adolescenziali – anziché accoglierlo con gratitudine. Credo invece sia da rifiutare l’immagine di una vecchiaia rivendicativa e rampante, che gestisce il proprio tempo all’insegna di un egocentrismo di nuovo conio e che fa del proprio benessere fisico un mito irraggiungibile.
Certo, le difficoltà sono molte e non bisogna sottovalutarle, anche perché la complessità della società attuale non facilita il cammino dei vecchi. Una complessità che si declina in alcune caratteristiche fondamentali: velocità, relatività e problematicità. Tutto evolve a un ritmo fino a pochi decenni fa impensabile e tutto trascina con sé un’ipoteca di relatività che ci disorienta, prospettandoci ipotesi e scoperte spesso contrastanti (quante volte un medicinale ritenuto fondamentale per la nostra vita è stato, in un secondo tempo, considerato dannoso!). E ancora la problematicità, che invade ogni aspetto della vita e che ci obbliga spesso a scelte tra itinerari divergenti. Il vecchio si smarrisce in questa complessità e spesso rinunzia ad alcune possibilità per evitare la fatica e l’ansia che ogni decisione comporta.È anche importante che ognuno trovi le strategie che gli sono più congeniali. Un esempio? Il famoso pianista Arthur Rubinstein che, ormai novantenne ma ancora invitato a suonare in ogni parte del mondo, utilizzava queste particolari strategie per convivere con le sue debolezze: ridurre il repertorio musicale («strategia di selezione»); ripetere spesso i pezzi («strategia di ottimizzazione»); diminuire la rapidità dei movimenti più veloci («strategia di compensazione»).
Meglio l’amica che la casa lustra
Anche se – come diceva il grande Eduardo – gli esami non finiscono mai, è fondamentale che ciascun individuo col passare degli anni faccia i conti con le proprie deficienze e adotti le misure che gli sono più congeniali. Ma, e qui sta la novità, pare che in questo sforzo superino meglio le difficoltà, con più coraggio ed equilibrio, le donne piuttosto che gli uomini. Queste non soltanto vivono di più rispetto ai loro compagni, ma conservano più a lungo la capacità di rinnovarsi, la curiosità per il mondo che le circonda e anche, nei casi più fortunati, una buona dose di ironia e autoironia. Dote straordinaria quest’ultima, che permette di guardare alle proprie manchevolezze e ai propri «disastri» senza piangervi sopra e senza indurre gli altri alla commiserazione. Dote di recente acquisizione, per le donne, grazie all’ampliamento dei loro interessi e attività, l’autoironia fa sì che esse si guardino con maggiore distacco, riuscendo anche a mettere da parte «doverismi» e logoranti sensi di colpa. Che cosa importa che la casa non sia più lustra come una volta, se è più piacevole trascorrere del tempo con un’amica?
Ma perché mai le donne hanno maggiore possibilità di diventare «fuggitive»? Forse perché abituate per tradizione culturale a conciliare ruoli diversi, a dare maggior valore alla trama degli affetti, ad aver cura dei genitori che invecchiano, a visitare il mondo dell’infanzia insieme ai figli piccoli. Certo, non sempre il quadro è così idilliaco e sovente anche le donne intraprendono itinerari senza uscita. Vi sono donne che, anziché minimizzare i disagi della vecchiaia, li esibiscono per ricattare i familiari; altre che maturano un’esasperante ossessività nei confronti dei figli. Vincenti sono invece quelle donne che riescono a coltivare e potenziare nel corso degli anni quei valori in cui hanno creduto da giovani (amore, amicizia, sicurezza, intimità) ai quali forse nel fiore degli anni – e nel mezzo di incombenze e doveri – non sono riuscite a prestare l’attenzione desiderata.
Forse quelle stesse donne che, come dice il poeta William B. Yeats, «hanno imparato a cullare i bambini, non solo propri ma quelli dell’umanità, ad accarezzare e curare le membra stanche di genitori ammalati, riescono meglio a far cantare la loro anima».
zoom
La terza età in un libro
Ada Fonzi, autrice di questo articolo, è professore emerito di Psicologia dello sviluppo all’Università di Firenze e direttrice della rivista «Psicologia contemporanea». Di recente ha dato alle stampe il volume Gli uomini muoiono le donne invecchiano (Giunti, 2006, euro 9,50), nel quale risponde ad alcuni interrogativi sulla vecchiaia, interpellando la scienza ma avvalendosi anche delle riflessioni di scrittori, filosofi, pensatori, che hanno affrontato la questione «invecchiamento» nella sua complessità. Per giungere a una conclusione: a invecchiare bene si impara e, in questo apprendimento, le donne riescono meglio degli uomini.
S.F.
Esperienza pilota a padova
La ricetta per vivere meglio? Sport, spaghetti e tanti amici
Invecchiare in salute, allontanando il più possibile la non autosufficienza, non è solo un’esigenza dei singoli individui ma una priorità sociale, visto il progressivo invecchiamento della popolazione. Ne è convinto Paolo Cosci, direttore del Centro educazione alla salute della Regione Veneto, che ha condotto di recente un’iniziativa in alcuni quartieri periferici di Padova, dal titolo eloquente: «Invecchiare in buona salute: dieta mediterranea, esercizio fisico, socialità». «La sola volontà dell’anziano non è sufficiente a garantirgli un buon invecchiamento – afferma Cosci – se la pensione è bassa, non ci sono luoghi di aggregazione, la palestra è a chilometri di distanza e lui stesso è convinto che le pillole siano l’unica soluzione per tamponare gli acciacchi dell’età e i morsi della depressione. L’approccio medico è sempre più costoso e inadeguato, occorre un nuovo modo di vedere e affrontare il fenomeno dell’invecchiamento».Il decadimento si può combattere mantenendo il più possibile efficienti le funzioni fisiche, mentali, relazionali, morali, economiche. «E ciò si può ottenere – spiega Cosci – solo se c’è un concorso di tutti, mettendosi in rete, recuperando alle relazioni le nostre città». Importante il cambio di mentalità: «Invecchiare in salute è un diritto dell’anziano e, nello stesso tempo, un suo dovere sociale».
E così, in alcuni quartieri, sono sorti sei gruppi di una trentina di anziani per cercare di rispondere alle tre esigenze più importanti per garantirsi una buona salute: l’alimentazione corretta, l’esercizio fisico e le relazioni sociali. L’esperienza dura un paio d’anni: nei primi tre mesi ci s’incontra due volte a settimana presso le parrocchie o alcuni spazi messi a disposizione dal Comune; poi gli appuntamenti si diradano: «Negli incontri si trasmettono delle conoscenze: l’importanza dell’attività fisica costante, il controllo del peso, l’efficacia della dieta mediterranea, povera di grassi animali. Ma la parte più importante sono gli obiettivi: gli anziani, divisi in sottogruppi, hanno il compito di mettere in pratica quanto appreso. L’obiettivo non è tanto quello di fare dei corsi, quanto quello di generare in una prima fase un percorso di auto-aiuto e, in una seconda, un percorso di advocacy, cioè di progressiva capacità di diventare attori sociali, rappresentanti responsabili di tutti gli anziani del quartiere presso le autorità cittadine e sanitarie per orientare le politiche e ottenere servizi più adeguati».
Incoraggianti i risultati ottenuti: «Il gruppo dava forza, aiutava a sperimentare nuove cose, a superare l’isolamento, ad affrontare le disabilità senza drammi. I nostri gruppi sono diventati luoghi di aggregazione e sperimentazione sociale, centri propulsori di nuove idee e attività», racconta Cosci. Importanti anche i risultati personali: «In tre mesi le persone dimagrivano di 4-5 chili, senza grandi sforzi e senza farmaci, cresceva il coinvolgimento sociale, la consapevolezza e la capacità di relativizzare i problemi».
Aggregare, dare le conoscenze, responsabilizzare, agire insieme: e se fosse questo l’elisir di lunga vita?
Giulia Cananzi