In viaggio per amore
«Papà per me è unico mi piacerebbe che Andrea fosse unico per papà». Batte i tasti sul pc, Andrea. Una montagna di ricci ribelli che gli ricadono morbidi sulle spalle. Un metro e ottanta di altezza, instancabile, pieno di energia, di quella vitalità che può sprigionare solo un ragazzo di 19 anni. Elevata, nel suo caso, all’ennesima potenza. Perché per lui ogni cosa, ogni colore, ogni sguardo, ogni evento è solo bello. La vita, è bella. E lui le va incontro camminando sulla punta dei piedi, quasi a passo di danza. Poi, d’un tratto, se solo ti distrai, quel suo incedere lento diventa, all’improvviso, una corsa: in men che non si dica Andrea scompare allo sguardo, come in fuga da tutto e da tutti. E, infatti, i suoi lo hanno perso quattro volte: per ritrovarlo hanno dovuto richiedere l’aiuto dei carabinieri e di un elicottero.
Prima di digitare una lettera sul suo computer, Andrea porta il pugno al cuore. Pugno al cuore, lettera, lettera, lettera, pugno al cuore, parola. Poche parole, secche. Come quelle che, quindici anni fa, un luminare di Siena sbatte in faccia a Franco e Bianca, i genitori: «Vostro figlio, probabilmente, è autistico».
Cronache di storia familiare
Da quel momento, la storia della famiglia cambia e, con essa, cambiano e si ristrutturano i rapporti al suo interno. In particolare quello tra Franco e Andrea, che, con il tempo, si trasforma in un legame forte, incredibile, quasi indissolubile, che nessuno dei due aveva messo in preventivo. Il padre, Franco Antonello, ha 52 anni. È un imprenditore della comunicazione. Vive a Castelfranco Veneto (Treviso). «Fino ai 2 anni e mezzo Andrea era un bimbo normalissimo – racconta –. Poi venne sottoposto alla vaccinazione trivalente. Qualche tempo dopo, ci chiamarono dall’asilo: “Vostro figlio è strano, è cambiato”. Dopo pochi mesi, arrivò la diagnosi. Fu come se mi fosse piombato addosso un uragano, anzi due, anzi sette tifoni. Da quel momento mi sono ritrovato nella bufera. Ricordo ancora quel giorno. Per tutto il viaggio di ritorno ho riempito l’auto di urla e di lacrime. Per la prima volta mi sono sentito piccolo».
I primi viaggi di Andrea e papà Franco hanno inizio da qui. Viaggi della speranza. Pellegrinaggi che le famiglie con un figlio con disabilità conoscono bene. «L’ho portato nei centri specializzati dell’intera Italia: da Siena a tutti quelli del Veneto, e poi Milano, Genova, Torino, Bari, Palermo. Quindi a Lugano e poi fino a Miami. Due anni di cure, con una dieta speciale, a Bologna, metodo Dan importato dagli States, iniezioni in Germania. Persino guaritori e sciamani. Un genitore prova di tutto per il figlio. Le famiglie lo sanno, si indebitano anche, per un farmaco che possa far solo sperare in un miracolo. Abbiamo cercato di capirne qualcosa di più, di informarci, di studiare, di metterci in contatto con altri genitori che avevano il nostro stesso problema. Nella speranza che, nel frattempo, la ricerca corresse più veloce di noi e trovasse la soluzione. Ma una soluzione non c’è, non nascondiamocelo. Mi è capitato di sentire casi di guarigione, ma non appena andavo a chiedere nome e cognome, chissà perché nessuno sapeva più dirmi niente».
Partire per ritrovarsi
«Per certi viaggi non si parte mai quando si parte. Si parte prima, a volte molto prima». Il vero viaggio dei protagonisti di questa storia di libertà e speranza inizia otto anni fa. Prima che con Andrea, il viaggio di Franco è con se stesso, alla ricerca del padre che c’è in lui. Franco ha avuto tutto dalla vita: lavoro, soldi, viaggi, amore, amici, soddisfazioni, passioni, avventure e disavventure. Ma decide che è giunto il tempo di cambiare. Andrea sta crescendo, è un adolescente. In questa fase delicata i ragazzi hanno bisogno più di un padre che di una madre. Spetta alla figura genitoriale maschile metterli al mondo una seconda volta. Franco non ha dubbi: sa che vuole essere un papà che non fugge dal proprio ruolo, per il suo Andrea e per l’altro figlio, Alberto.
E così non ci pensa due volte. Fa ruotare la sua vita intorno a se stessa, inverte la rotta, rivoluziona le priorità. Decide di lasciare l’azienda ai suoi collaboratori, che diventano soci. Lavora mezza giornata. Il resto del tempo lo dedica ai suoi figli e soprattutto ad Andrea, che di lui ha più bisogno. E a quella che, nel frattempo, è diventata la sua terza creatura, la Fondazione «I Bambini delle Fate», da lui creata proprio per dare supporto alle famiglie con ragazzi autistici, anche realizzando progetti concreti in loro favore. «Oggi guadagno la metà – racconta ancora Franco – ma sono libero, sereno. Certo, posso permettermelo. Così come ho potuto permettermi di portare Andrea in America in un viaggio di 123 giorni per 38 mila chilometri, in moto da Miami, negli Stati Uniti, ad Arraial d’Ajuda, in Brasile, io e “Andre” da soli. Ma l’America, sia chiaro, non è stata una terapia. Si è trattato di un viaggio vero, on the road, alla scoperta del gusto e dei colori del mondo. Con la Fondazione vorrei arrivare a realizzare almeno 100 progetti, uno per ogni provincia d’Italia. E vorrei poter sensibilizzare l’opinione pubblica, a partire dai ragazzi: mi piacerebbe che già dai banchi di scuola ogni ragazzo “normale” dedicasse un po’ del suo tempo a quel “compagno strano che parla da solo”».
Quando Franco decide di intraprendere il lungo viaggio con Andrea, deve sfatare tanti pregiudizi. Tutti lo sconsigliano, medici inclusi: le persone autistiche non tollerano i cambiamenti, amano le consuetudini, la regolarità, gli eventi prevedibili. Ma lui non molla e decide di partire.
Questo incredibile viaggio è diventato un libro: Se ti abbraccio non aver paura, pubblicato da Marcos y Marcos (oltre 250 mila copie e sedici ristampe). A scriverlo, Fulvio Ervas, scrittore e professore di scienze naturali. Il titolo prende il nome dalla frase che Franco e Bianca avevano fatto scrivere sulle magliette colorate di Andrea. Andrea ha l’abitudine di «sentire» le persone con la pancia. Inoltre, ama i colori e gli piace dipingere. Lo fa dove gli capita: su un fazzoletto di carta come su un asciugamano. Per un anno Ervas ascolta questa e altre storie. In viaggio, sulle pagine di un block-notes, papà Franco aveva annotato pensieri, emozioni, frasi di Andrea. Per restituire istantanee di un percorso, prima di tutto interiore, a mamma Bianca e ad Alberto. Molte di queste impressioni finiscono nel libro. Già pubblicato in Francia e Spagna, a fine marzo è uscito in Germania, quindi varcherà i confini di Olanda, Brasile, Turchia, Israele e Cina. La storia diventerà un film. Che cosa dice Andrea di tutto questo? «Un tempo comunicava solo con la mamma. L’America ha segnato l’inizio di un dialogo straordinario tra noi due. Certo, non sono grandi discorsi. Ma mi basta. Andrea mi ha fatto un’unica raccomandazione: “Papà, non raccontare solo le favole. Racconta le storie vere. Perché è di questo che i ragazzi come me hanno bisogno”». Al padre ha imparato a raccontare del suo mondo, di una prigione che tante volte gli fa scoppiare la testa: «Andrea ascolta quello che dice papà. Provo a impegnare mia mente ogni giorno ma lotto invano mi dispero per mio autismo. Aiuto chiedo. Sono un uomo imprigionato nei pensieri di libertà. Andrea vuole guarire». «Poche parole, bisogna solo imparare ad ascoltare – conclude papà Franco –. Il futuro mi spaventa. Non voglio pensare a “contenitori” in cui questi ragazzi sono costretti a vivere sedati, legati, senza relazioni né affetti veri, in solitudine». Andrea scrive ancora: «Papà, tu mi credi normale rompipalle e maleducato, io sono sensibile diverso e molto solo». È questo il suo mondo, l’universo di ragazzi come lui che non ti guardano e parlano da soli.
Il libro si chiude con una lettera scritta da Joana – incontrata dai due nel loro lungo viaggio – alla figlia che non vede da anni. La missiva, che Andrea puntualmente riduce in mille mezzi ricomposti a fatica da papà Franco, si conclude così. «Vorrei parlarti perché tu ti convinca di non essere sola. Per allontanare da te quest’idea sbagliata. Se ami te stessa, ami la vita, e la vita non lascia mai soli. Stanchi, a volte, ma mai soli». Buon viaggio, Andrea bello. Grazie papà Franco.
I bambini delle fate
Il respiro della solidarietà
Una grande serra riscaldata per allungare la stagione produttiva degli ortaggi. Alla Casa Gialla il lavoro della terra piace ai ragazzi ospiti. È all’aria aperta e rispetta i loro tempi. Dal Veneto alla Lombardia: due pomeriggi la settimana i giardini del blocco sud dell’ospedale Niguarda Cà Granda diventano una grande fattoria. I bambini si occupano, in prima persona, degli animali.
Questi, due dei progetti promossi da «I Bambini delle Fate» (www.ibambinidellefate.it; tel. 0423/425499), Fondazione creata nel 2005 a Castelfranco Veneto (TV) da Franco Antonello. In cantiere una ventina di iniziative in altrettante città italiane. L’aspetto nuovo, che non ci si attende in tempi di crisi, è che a sostenerle sono degli imprenditori.
L’inedito connubio tra marketing e solidarietà è invenzione di Antonello, egli stesso tipico self made man del Nordest. «Per le famiglie di persone con disabilità le associazioni sono un punto di riferimento insostituibile – spiega –. L’ho provato sulla mia pelle, così come il fatto che la generosità del volontariato, da sola, non basta. Allora mi son chiesto: perché servizi come questi non possono essere gestiti come in una vera azienda?». L’architettura è semplice: con il sostegno iniziale de «Il Sole 24 ore», la Fondazione lancia una proposta alle imprese: 500 euro al mese per finanziare progetti a sostegno della disabilità. Il ritorno? Il marchio dello «sponsor» – a cui viene donata una bacchetta magica – appare nelle maggiori testate, associato alle iniziative e ad altri partner. Il tutto nel segno della trasparenza: la periodica pubblicazione di entrate, spese, progetti finanziati e risultati ottenuti dalla Fondazione. Capitani coraggiosi, li chiamano alcuni, di sicuro pionieri. Generosi certo, ma anche capaci di guardare oltre, dando al proprio lavoro il respiro della solidarietà.