Vivere nel silenzio

Fino a pochi anni fa i bambini nati privi di udito venivano sottoposti a lunghe sedute di logopedia per introdurli al linguaggio orale. Ora si preferisce educarli al bilinguismo, ovvero al linguaggio orale e a quello dei segni.
17 Marzo 2001 | di

Piombare nel silenzio o nascere nel silenzio. Due origini differenti per una situazione comune. Quando un bambino nasce sordo, però, è affetto sempre da una forma di sordità  grave o profonda, al punto tale che se fosse lasciato a se stesso non svilupperebbe alcun linguaggio.
«Fino a una trentina di anni fa - dice il professor Franco Fabbro, responsabile dell' unità  di neurolinguistica dell'Istituto Eugenio Medea e docente presso l' università  di Udine - i bambini sordi venivano rieducati al linguaggio orale attraverso procedure molto lunghe di logopedia. Negli anni, poi, si è scoperto che le persone sorde possono apprendere anche altri tipi di linguaggio: la lingua dei gesti o dei segni, differente in ogni paese. A livello scientifico si è dimostrato successivamente che le lingue dei gesti hanno la strutturazione in tutto e per tutto simile alle lingue orali. Con il tempo le comunità  dei sordi hanno fatto pressione, affinché tutti i bambini non udenti venissero educati sia alla lingua dei segni nazionale sia alla lingua orale. Hanno spinto, quindi, per una educazione bilingue dei sordi».
Per evitare il rischio di una ghettizzazione bisogna però evitare ogni forma di estremismo del tipo «solo lingua dei segni» o «solo lingua orale».
Ma il professor Fabbro, se fosse padre di un bambino sordo cosa sceglierebbe?
«Attualmente la lingua dei segni è la più accreditata negli Stati Uniti.
In 'scienza e coscienza' educherei anch' io mio figlio prima di tutto alla lingua dei segni, cercando però d' impararla anch' io e mia moglie; successivamente gli insegnerei anche la nostra lingua orale, in modo che possa vivere con serenità  sia all' interno che all' esterno della comunità  dei sordi. Ma, soprattutto, sarei attentissimo a cogliere ogni novità  nel campo dell' impiantologia, in continua evoluzione».

Per saperne di più: Istituto Eugenio Medea
da lunedì a venerdì,
dalle ore 8.00 alle ore 12.00,
tel. 0434/842722.
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È BRUTTA MA NON CONTAGIOSA      

La psoriasi  è una malattia della pelle che può insorgere in qualsiasi momento della vita e generalmente si presenta come una desquamazione della pelle.
«Riguarda indifferentemente uomini, donne e bambini - afferma Mara Maccarone, presidente dell' A.Di.Pso. l' Associazione per la difesa degli psoriasici   - e ci sono varie forme di psoriasi, più o meno complicate.
La più semplice è quella che si localizza alle ginocchia e ai gomiti.
La più grave è invece l' artite psoriasica che, fortunatamente, colpisce una percentuale ridotta dei casi».
La malattia, davvero brutta a guardarsi, non è però assolutamente contagiosa. «L' importante - prosegue Maccarone - è affidarsi a un buon dermatologo e soprattutto essere ottimisti. Oggi esistono molte terapie che, se seguite con regolarità  e fiducia, possono migliorare qualitativamente il livello di vita». A volte anche per motivi psicologici, la psoriasi può modificare il proprio decorso.
«Esistono infatti - continua ancora la presidente dell' A.Di.Pso. - convincimenti psicologici che possono aggravare la situazione a volte già  compromessa. Accade, per esempio, quando la psiche non accetta il problema e la persona colpita da psoriasi si abbatte a tal punto che arriva quasi ad alimentare la stessa malattia».
Il consiglio per chi è affetto da psoriasi è dunque di non chiudersi in se stesso, di non nascondere mani, gomiti e ginocchia, ma di cercare un dermatologo di fiducia.
«Oggi - conclude la signora Maccarone - siamo riusciti a ottenere a livello ministeriale il riconoscimento dell' invalidità  per i casi più gravi. Il mio consiglio, però, è di non considerare tale riconoscimento come un risultato, ma solo come uno stimolo a curarsi».

  Per saperne di più: A.Di.Pso., via Tacito, 90 -  00193 Roma tel. 06/3211545,  internet: www.adipso.it

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017