Vivere in tempo di crisi
La crisi nella quale ci troviamo riguarda la finanza e l’economia, ma ancor prima e ancor più una visione di uomo, di mondo, di società, di relazione e di responsabilità.
27 Gennaio 2009
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Ormai ci siamo dentro fino al collo. Dopo i primi colpi, che abbiamo cercato di incassare dignitosamente e di anestetizzare con le risorse residue, la crisi ha cominciato a picchiare duro e a fare male, a materializzarsi senza guardare in faccia nessuno. Secondo l’economista americano Nouriel Rubini, dalle prime avvisaglie, ad agosto, si poteva coltivare l’illusione di essere di fronte a una crisi a «V» profonda ma breve, con una forte battuta d’arresto, una picchiata verso il basso (di sei mesi circa) e una veloce ripresa. Ben presto è subentrata la certezza che si tratterà di una lunga e profonda recessione, una vera e propria crisi a «U», con un ristagno nella parte bassa, quella dove gli indici sono al negativo: e questo per un anno e forse più, a seconda della capacità di reazione che le grandi economie mondiali sapranno mettere in campo. Non mancano d’altra parte i pessimisti, per i quali, visto il rischio crescente di un collasso del sistema finanziario globale, il tutto potrebbe trasformarsi in una crisi a «L», cioè di lunga durata, un po’ come la depressione di ottant’anni fa: da qui l’equazione 2009 uguale a 1929, vale a dire l’anno del primo grande collasso economico mondiale iniziato con il crollo di Wall Street, la Borsa di New York.
Inutile dire che tutti facciamo il tifo perché la crisi in atto duri il meno possibile, soprattutto perché non vada a infierire troppo sulle fasce più deboli della popolazione e sui popoli maggiormente esposti alle oscillazioni dei mercati e quindi in ostaggio di meccanismi perversi. Se tutti, o quasi, devono fare i conti con le scadenze delle bollette o delle rate, con le spese per il cibo e le medicine, sempre nel timore che qualche imprevisto metta in difficoltà la distribuzione delle poche risorse nelle quattro settimane, la vita rischia di diventare grama. Nei Paesi dove i problemi erano già vistosi, quelli nei quali la povertà si è cronicizzata – alla faccia di piani di sviluppo, interventi umanitari, dichiarazioni d’intenti –, la situazione non potrà che peggiorare. Forse siamo la prima generazione che teme di entrare nel futuro, vedendo in esso una minaccia o quantomeno un imbuto che ci sta costringendo a una severo ridimensionamento. Una finanza spericolata e un’economia di mercato selvaggia, a difesa dell’illusione che fosse comunque possibile vivere perennemente al di sopra delle proprie possibilità, ci ha portati al punto in cui ci troviamo. Tutti vittime, certamente, e forse in qualche misura anche complici.
Non sto distribuendo responsabilità, non avendone né la competenza né il diritto. Cerco solo di capire, come tutti voi d’altronde, se la strada percorsa fin qui – lastricata dai miti della crescita infinita, dell’indebitamento a oltranza, del consumo ossessivo, della deregulation della finanza, della speculazione facile – non sia da verificare seriamente e magari da cambiare. Ritrovare il senso del limite, riscoprire una certa sobrietà, rivalutare la solidarietà, non sono forse atteggiamenti che possono tradursi in stili di vita per convivere con la crisi, umanizzandola e alla lunga cambiandola di segno? Non parlo per chi è schiacciato dalla parte del bisogno e deve essere in ogni modo aiutato dalla collettività, ma per chi ha ancora qualche spazio di manovra per fare delle scelte, pur piccole. Quello che voglio dire è che non si tratta solo di far quadrare al più presto i conti perché tutto possa continuare come prima, come se nulla fosse successo. La crisi nella quale ci troviamo riguarda di certo la finanza e l’economia, ma ancor prima e ancor più una visione di uomo, di mondo, di società, di relazione e di responsabilità. Vivere in tempo di crisi significa pertanto tessere il futuro cominciando fin da ora a porre segni alternativi di nuova umanità, secondo il cuore di Dio e quindi per il vero bene dell’uomo.
Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017