Vivi sino alla fine
'È arrivato Natale. In fondo all'atrio, l'albero scintilla con tutti i suoi addobbi. Ai suoi piedi, una marea di regalini in attesa di essere distribuiti. Fra questi, i regali che Patricia ha preparato con discrezione e tenerezza, e che non potrà darci di persona, perché è morta questa mattina, dopo tre giorni di coma.
'Non c'è tristezza nel mio animo - scrive Marie de Hennezel - , ma gravità : come sempre dopo la morte di una persona che mi sono impegnata ad accompagnare fino all'ultimo. Una vita finisce. Sento la felicità di averla potuta sostenere nei momenti difficili, come il giorno in cui Patricia ha capito che non sarebbe guarita. Provo gratitudine per lei, perché mi ha indicato il modo di aiutarla, mi ha mostrato che si possono conservare gioia di vivere e allegria, malgrado la sofferenza. Sento anche che la vita è fragile, così fragile!'.
Dieci anni di lavoro spesi ad accompagnare i malati terminali dell'Unità di cure palliative presso l'università di Parigi hanno convinto Marie de Hennezel, psicologa e psicanalista junghiana, a scrivere La morte intime, con prefazione di Franà§ois Mitterand, tradotto in Italia col titolo: La morte amica (Rizzoli). Il suo libro è stato tradotto in quindici paesi, dall'Ungheria alla Finlandia.
Msa. Come le è venuta l'idea di scrivere questo libro?
De Hennezel. Ho voluto comunicare l'esperienza di dieci anni all'Unità di cure palliative per contribuire in qualche modo a cambiare lo sguardo che la nostra società ha nei confronti della fine della vita. In dieci anni sono stata colpita dal numero molto alto di persone che vedono, nel tempo che resta da vivere a persone condannate dalla medicina, un tempo vuoto, senza senso. Ho voluto raccontare delle storie che ho vissuto che dimostrano, al contrario, che è un tempo di verità , di incontro, un momento in cui la persona tenta di andare veramente alla profondità di se stessa, di rivelare al suo entourage chi è veramente.
Qual è il senso dell'esperienza all'Unità di cure palliative di Parigi?
L'Unità di cure palliative di Parigi accoglie pazienti giunti allo stadio terminale della loro malattia. L'obiettivo del servizio è di consentire a queste persone di rimanere vive sino alla fine, di vivere questo tempo come desiderano, rispettando i loro bisogni spirituali e affettivi. In questo servizio sono ammessi i familiari e anche gli animali, se sono importanti per la persona.
Le cure palliative considerano la morte come un processo normale, dunque l'obiettivo di esse: l'accompagnamento. Non si tratta di posticipare o di decurtare il tempo che rimane (né accanimento terapeutico né eutanasia!) ma di rispettare quel tempo cercando di garantire la miglior qualità di vita possibile.
Cosa ha imparato?
Questa esperienza dell'accompagnamento ci arricchisce, ci umanizza. Noi tutti, quando abbiamo accompagnato qualcuno, sappiamo quanto si dà e quanto si riceve da chi ci accompagna. La vicinanza dei morenti è un insegnamento di saggezza: quelli che stanno per morire ci ricordano la nostra stessa mortalità e ci obbligano a non vivere come dei sonnambuli, ma piuttosto a vivere la vita in tutta la sua complessità e la sua profondità . Una vecchia signora di 92 anni mi ha detto, mezz'ora prima di morire: 'Bambina mia, la vita si dà a chi la prende a braccia aperte. Non abbia paura. Viva. Viva tutto quello che la vita le dà perché tutto è un dono di Dio'.
Cosa l'ha sostenuta nel suo accompagnamento dei malati? Forse anche la fede religiosa?
Credo che sia la fede nella vita, ma non sono molto religiosa. Non so come potrei definirmi. Cerco, continuo a cercare. Ho fede nella vita e nell'amore che ho incontrato molte volte nei malati, nelle persone che stanno per morire e in molti altri. Credo che l'uomo abbia dei valori profondi e credo in questi valori. L'uomo è un essere profondamente spirituale anche quando non ha particolari credo religiosi, perché comunque cerca il senso della propria vita. E finché vive si trasforma.
Lei ha conosciuto Franà§ois Mitterand...
È stata un'amicizia profonda, c'era una fiducia reciproca. Io devo molto a Franà§ois Mitterand che mi ha molto aiutata nel nostro lavoro, perché ha avuto un ruolo importante nella creazione di questo servizio ospedaliero e perché parlavamo spesso dei miei malati, del modo di avvicinarli e ho sempre sentito che aveva molto coraggio, e ricevere questo incoraggiamento da parte di un uomo come lui è stato importante.
In che cosa consiste il suo metodo, chiamato 'aptonomia'?
È un approccio tattile basato sulla presenza. È un modo di essere, di liberare l'affettività , di essere vicini alla persona malata per cui essa sente di essere accolta. La prima volta che mi sono trovata accanto a un morente, ho capito che occorreva che io gli andassi incontro, con un certo sguardo, con la corporeità . Per essere 'là ' occorre non avere paura. La vicinanza mi è sembrata un approccio trasparente in un mondo che ha paura del contatto.
Cosa diventa importante quando la morte si avvicina?
Quando la morte si avvicina il mondo importante diventa quello interiore, quello dei sentimenti. Gli ultimi momenti possono essere l'occasione di condividere dei momenti di rara umanità . Talvolta si tratta di un gesto, di uno sguardo, di una parola. Ebbene, ci sono momenti che oserei dire luminosi, meravigliosi, commoventi. Questa realtà esige di guardare al di là delle apparenze, richiede di entrare in questa realtà , di restarci e di aprire il proprio spirito per poter accogliere qualche cosa di diverso.
Che importanza assume allora il tempo?
Può essere un tempo di maturazione per il malato, ma anche per chi circonda il malato. Quindi è possibile vivere ancora cose importanti, come dice san Paolo nella Lettera ai corinzi: mentre il nostro uomo esteriore va in rovina, il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno. Uno psicologo francese ha definito questo tempo: 'Un tentativo di mettersi completamente al mondo prima di sparire'.Una persona che sente che sta per morire sente il bisogno di consegnare qualcosa di se stessa.
Ci racconta qualche storia di persone che testimoniano questo travaglio psichico di persone in fin di vita?
Ne ricordo tre che dimostrano questo tentativo di arrivare al fondo di se stessi. C'è la storia di una giovane infermiera morta di cancro al seno che quando è arrivata era profondamente tormentata. Poi un giorno ha cominciato a mettersi in rapporto con gli altri e in pochi giorni ha liberato tutto l'amore che sentiva dentro di sé. In pochi giorni siamo stati testimoni di una trasformazione profonda. Un'altra donna, Danielle, era completamente paralizzata, malgrado tutto scriveva un paragrafo al giorno su un computer. Descriveva la sua situazione come una situazione di sfida. Ci ha detto: devo abbandonarmi agli altri, aver fiducia. Tutto il contrario di come era stata prima, attiva, protagonista. Danielle, grazie a ciò, ha potuto gioire, nonostante una situazione disperata. Penso anche a Dimitri che nelle ultime settimane di vita si è liberato dalla maschera da seduttore che si era costruito: alla fine ha capito che poteva essere semplicemente se stesso.
Come allora 'essere là '?
È sufficiente che ci siano una o due persone capaci di ricevere, di comunicare, di condividere; una o due persone che portino uno sguardo luminoso perché il malato senta di avere un senso. Per questo credo che tutti abbiamo una responsabilità umana nel modo di accompagnare le persone in fin di vita. È una questione di fiducia, di amore. Fiducia nella capacità dell'altro di vivere quello che gli resta da vivere, perché spesso trattiamo il malato come un bambino. Spesso c' è una sorta di congiura del silenzio perché sottovalutiamo la capacità dei malati. La questione non è quella di dire la verità , ma di essere veri. Quando una persona è vera e non ha paura di dimostrare di essere priva di mezzi, ebbene il malato trova la forza di affrontare la verità . Ascolto, presenza, fiducia: sono le sole cose che noi possiamo dare.