Voleva essere Napoleone si accontento di essere Dalì
Voleva essere Napoleone, si accontentò di essere Dalì
Entriamo a Palazzo Grassi, il grande mausoleo dell'arte a Venezia, e inevitabilmente alziamo la testa. Sopra di noi incombono un'enorme melagrana, un pesce e una tigre gigantesca. Un gioco, uno scherzo? No. L'ennesima provocazione del maestro Salvador Dalì, che in vita riuscì a stupire e adesso, da morto, continua, felicemente, a sorprendere. Accomuna tutti i grandi il destino di sopravvivere alla morte. Lui non fa eccezione. Resta, sconcerta e pare guizzar fuori dalla tomba, con quegli occhi spiritati, quei baffi provocatori, quel fare istrionico e stravagante con cui parla nei monitor di Palazzo Grassi, affiancato da Gala, musa, moglie, amante, manager che, come una statua, guarda immobile il visitatore.
Nell'anno di Dalì - in cui in Spagna sono state dedicate all'artista una serie imponente di iniziative - la grande antologica a Palazzo Grassi, dal 12 settembre 2004 al 9 gennaio 2005 , consentirà agli italiani di incontrare questo artista che fece della sua stessa vita un mito.
Salvador Dalì nacque a Figueres, l'11 maggio del 1904, figlio di un notaio con il quale i rapporti furono sempre piuttosto tesi. Cominciò giovanissimo a dipingere. A sei anni - dice - volevo fare il cuoco, a sette Napoleone. Da allora la mia ambizione e la mia megalomania non hanno mai smesso di crescere. Con gli anni pare aver accantonato le ambizioni napoleoniche ed essersi, per così dire, accontentato, di essere Dalì. Ogni mattina al risveglio - diceva - provo un piacere supremo, il piacere di essere Salvador Dalì. Lui, però, ancor meglio di Bonaparte, capì un'astuzia, fondamentale nel Novecento: per essere occorre apparire. Incarnò meglio di chiunque altro il culto dell'immagine: prima di vendere le opere bisogna vendere se stessi. Scrisse nel suo Diario di un genio: «Siate snob, come me. Lo snobismo mi viene dall'infanzia».
Imparò a usare ad arte anche le sue stranezze: i suoi disturbi mentali, non si saprà mai fino a che punto fossero reali. In proposito consigliamo di leggere il bel libro, molto documentato, di Pier Mario Fasanotti e Roberta Scorranese, Io non sono pazzo. Splendori e miserie di Salvador Dalì . I due autori sulla presunta o millantata pazzia di Dalì si soffermano a lungo. A noi basta citare qualche affermazione dell'artista,checonsidera l'arte una vera e propria malattia e dice: «L'unica differenza tra me e un pazzo è che io non sono pazzo». Poi afferma anche: «Senza Gala sarei completamente pazzo e non solo pazzo, ma interamente nel fango». In quest'ultima frase c'è del vero perché fu la moglie a spingerlo a valorizzare il suo talento, ad alimentarne la megalomania, contribuendo in maniera determinante alla costruzione del personaggio. Fu Gala a darmi fede nella mia missione, diceva e di lei non riusciva a fare a meno, anche se il rapporto dei due si incrinò negli ultimi anni.
Da ragazzo Dalì attendeva con impazienza le estati a Cadaqués, dove trascorreva le vacanze con la famiglia e poteva dipingere tutto il giorno. Nel 1922 entrò nella scuola delle Belle Arti di Madrid. Diventò amico di Federico Garcia Lorca (rapporto anche questo complesso) e del regista Luis Buà±uel, col quale condivise progetti artistici d'avanguardia.
Dopo un avvicinamento all'impressionismo e al cubismo, nel 1929 Dalì approdò al gruppo surrealista parigino, di cui facevano parte Tzara, Arp, Breton, Ernst, Eluard e, per inciso, Helena Diakonova detta Gala, era la moglie di quest'ultimo. Anche se col gruppo avrebbe rotto (Breton lo soprannominò con l'anagramma Avida Dollars per il suo affarismo sfacciato), la sua ricerca personale sarebbe continuata nella rappresentazione delle forme scaturite liberamente dall'inconscio, in una simbiosi sempre provocatoria tra arte e vita. Dalla sua paranoia ricavò una visione del mondo e un metodo: il metodo paranoico-critico. A chi gli chiedeva cosa fosse, rispondeva: «Non so, ma dà buoni risultati».
Ambiguo nelle guerre
Quando la Spagna precipitò nella guerra civile, Dalì preferì restare in Inghilterra. E verso la guerra ebbe un atteggiamento ambiguo e provocatorio. Non si proclamò né hitleriano né staliniano, ma semplicemente daliniano e quando, nel 1937, Picasso prese espressamente posizione contro la guerra dipingendo la celebre Guernica, cittadina basca bombardata dai tedeschi, lui lo derise. E se è vero che Dalì già aveva apostrofato la guerra civile spagnola (1936) come il grande cannibalismo della nostra storia (Costruzione molle con fagioli bolliti), è anche vero che Dalì fu filofranchista. La sua vera bussola era l'opportunismo politico.
Anche all'inizio della seconda guerra mondiale, se ne partì con Gala alla volta degli Stati Uniti che erano più sicuri. Qui, del resto, la sua pittura onirica ebbe un gran successo, ben commisurato in dollari.
Il nucleo di opere che appartiene al periodo della seconda guerra mondiale, come L'Enigma di Hitler (1939) con il Fà¼rer nel piatto, pone qualche problema interpretativo.
Ritornato in Europa, nel 1948, si stabilì per lunghi periodi nella sua casa-atelier di Port Lligat. Durante gli anni Cinquanta e Sessanta la religione e la scienza diventarono tematiche fondamentali dei suoi quadri. Negli anni Settanta fondò il teatro museo di Figueres, dove espose molte sue opere.
Andò a vivere a Pùbol e, dopo la morte di Gala, a Torre Galatea di Figueres, vicino al museo Dalì dove, in perfetta sintonia con la sua vita, volle essere sepolto quindici anni fa.
Le opere a Palazzo Grassi
La retrospettiva di Venezia è senz'altro una grande mostra. Moltissime le opere esposte, che privilegiano il periodo in cui Dalì si staccò dall'automatismo surrealista e, con il suo metodo paranoico-critico, affrontò i temi centrali dell'esistenza: la struttura fisica dell'universo, la mente umana, i temi religiosi. Troviamo esposti i lavori che appartengono alla maturità di Dalì: La croce nucleare, La madonna crepuscolare (1952), il Cristo, dello stesso anno, La merlettaia di Vermeer, Il teschio di Zurbaran (1956).
Nell'Ascensione (Pietà ) del 1958 un uomo-Cristo lievita e sopra di lui si erge il volto di una donna-Gala. Nella Madonna di Port Lligat (1949) la figura della donna è scomposta e pezzi di materia sono sospesi sopra il suo capo. Dalì dipinse poi il Cristo che muore, osservato dall'alto, su suggestione di un disegno di San Giovanni della Croce, perché voleva un Cristo più umano che potesse essere visto da un'altra dimensione.
Nella Vergine di Guadalupe (1959) o nel molto più antico Cestino del pane (1926) è chiarissimo il riferimento alla simbologia religiosa. Ovviamente, neanche il rapporto dell'artista catalano con la religione cattolica è cosa facile a definirsi: si può dire che, dopo il primitivo ateismo giovanile, egli aveva cercato di adattare l'iconografia cristiana ai suoi miti personali. Così le sue rappresentazioni di Cristo e della Madonna sono tra le più personali e autoreferenziali dell'arte contemporanea, ma sono anche molto spirituali. Nel suo Manifesto mistico del 1951 egli dichiarava di voler rinnovare il misticismo con l'iconografia della gioia e della bellezza.
Altre opere stupefacenti sono Le tentazioni di sant'Antonio o Il Cristo di Gala.
Una rassegna di opere giovanili
Le opere Figura di spalle (1925), la Figura a una finestra (1925), il Ritratto di mio padre (1920), il Ritratto di mia sorella (1925) sono quelle degli anni giovanili in cui si destreggiava tra figurativo e cubismo. Il percorso a ritroso che ci fa fare la mostra - che comincia con le ultime opere e finisce con le prime -, suggerisce l'idea di una seduta psicanalitica in cui il paziente ripercorre la propria vita andando indietro nel tempo.
E, a proposito di psicanalisi, Salvador Dalì era molto debitore nei confronti di questa disciplina: divorò, appena usciti, i saggi di Freud sulla nevrosi e sulla perversità , ma è curioso ricordare che il padre della psicanalisi si rifiutò di riceverlo, dicendo che era un fanatico! E André Breton sosteneva che nessuno fosse versato in materia più di Dalì, che si servì della psicanalisi non per curare i suoi complessi, ma per preservarli.
Un fanatico, un paranoico forse, ma dal talento smisurato, che seppe trasformare se stesso in una esibizione perenne, in una macchina che produceva soldi e genio insieme.