Walter Bonatti, l'autore delle vette
Conoscendolo, non si tratta di presunzione blasfema, ma di stile. Lo stile di chi non tollera le mezze misure, le cose a metà. È fatto così Walter Bonatti, mito vivente dell’alpinismo moderno, straordinario viaggiatore-reporter ai confini del mondo: prendere o lasciare. Nelle risposte, come nelle imprese, è un uomo sempre al limite, oltre il limite. Così lo furono le gesta alpinistiche che lo consacrarono tra gli anni ’50 e ’60 scalatore irraggiungibile e lo resero uno degli italiani più popolari all’estero, tanto che ancora oggi, sulla soglia degli ottant’anni, che vada a presentare un libro in Bulgaria o a fare un trekking in Kamchatka, trova sempre stuoli di ammiratori entusiasti. Più di Paolo Rossi, più della Ferrari.
Così come clamorosa a molti apparve la notizia che Bonatti, appena trentacinquenne ma già superstar delle ascensioni, avesse lasciato per sempre l’alpinismo estremo per dedicarsi esclusivamente ai viaggi d’avventura come fotoreporter del settimanale «Epoca». Era il 1965; nel febbraio aveva appena stupito il mondo salendo la parete Nord del Cervino in solitaria, quando arrivò l’annuncio: l’alpinista bergamasco entrava nella prestigiosa scuderia di Arnoldo Mondadori. A maggio s’imbarcava per l’Alaska e lo Yukon, sulle tracce della «corsa all’oro», l’epopea immortalata dai romanzi di Jack London.
Iniziava la seconda vita di Walter Bonatti, quella di reporter nei luoghi più selvaggi della terra, Ulisse contemporaneo che sfida l’ignoto. «L’idea geniale del direttore di “Epoca” Nando Sampietro – spiega – era quella di ridare vita alla mitica figura del giornalista-viaggiatore ottocentesco alla Henry Stanley». E Bonatti l’ha fatto, a modo suo, cioè da solo e senza aiuti esterni, realizzando memorabili viaggi ai confini del mondo: da Capo Nord all’isola di Pasqua; dentro le viscere infuocate del Vulcano Nyragongo, o sull’isola di Mas a Tierra da novello Robinson Crusoe; attraverso il deserto della Namibia o il ghiacciaio di San Valentin; tra i pigmei dell’Ituri e gli aborigeni dell’Orinoco. Un viaggio nello spazio e nel tempo raccontato nel suo ultimo libro Un mondo perduto (Baldini Castoldi Dalai).
Msa. Perché a 35 anni, una persona, già consacrata «mostro sacro» dell’alpinismo mondiale e una carriera ancora tutta davanti, molla tutto per una incerta avventura?
Bonatti. Per due ragioni. La prima è che per andare avanti avrei dovuto accettare compromessi per me intollerabili: usare i nuovi strumenti che la tecnica forniva alla mia generazione. Nelle mie scalate m’ero ispirato agli alpinisti che mi avevano preceduto, come Cassin, per cercare di realizzare quello che a loro non era riuscito. Ma con i loro stessi mezzi, per misurarmi alla pari.
Una questione di lealtà?
Sì, mettiamola così. E poi, come alpinista, affrontare l’impossibile, l’estremo ha un fascino se l’affronti coi tuoi mezzi. Altrimenti la gara è falsata. E l’impossibile, con le nuove attrezzature, era sconfitto in partenza, era diventato banalmente «possibile». Già attorno agli anni ’60 i francesi avevano fatto la Ovest del Dru usando chiodi a espansione. Non era più il mio alpinismo. La montagna mi aveva dato molto, ma come banco di prova si era esaurita. Dopo il Cervino avrei potuto solo ripetermi.
E la seconda ragione?
Il mio modo di pensare e vivere l’alpinismo ha prestato il fianco a molte critiche, alle invidie altrui. Non mi hanno mai risparmiato nulla. E poi la vicenda del K2 è stata determinante: lì mi sono sentito tradito.
C’è voluto, in effetti, mezzo secolo perché il Cai desse definitivamente ragione a Bonatti e confermasse la sua versione sulla famosa notte tra il 30 e il 31 luglio del 1954, e cioè che fu decisivo per la conquista del K2 da parte di Compagnoni e Lacedelli l’apporto dell’allora ventiquattrenne scalatore bergamasco, il quale portò, a rischio della vita, fino a 8150 metri d’altitudine le bombole d’ossigeno che avrebbero permesso ai due italiani di salire fino alla vetta. Insomma, solo due anni fa, la «notte più controversa della storia dell’alpinismo mondiale», ha trovato la verità «storico-critica» definitiva. Tanti, troppi anni.
L’ambiente alpinistico l’aveva stancata?
Ero nauseato dal mondo della montagna. Ovviamente non mi hanno perdonato neanche questo abbandono. Ma oramai ho chiuso con questo ambiente, e con disgusto. Intendiamoci: la montagna e l’alpinismo m’hanno dato tantissimo. È il mondo dell’alpinismo che m’ha tolto molto, mi ha avvelenato.
E un bel giorno è rinato esploratore, sulle orme dei grandi romanzieri dell’800.
Ho deciso di spostare la sfida al verticale in un mondo orizzontale a 360 gradi. Ho potuto andar lì dove le mie fantasie d’adolescente correvano leggendo le pagine di Melville, Defoe, Doyle, Stevenson, Hemingway. In qualche modo ho continuato a fare il «mio alpinismo».
Il titolo del libro parla di un «mondo perduto». Perduto perché?
Il mio è stato un viaggio nello spazio ma soprattutto a ritroso nel tempo, tra i cosiddetti uomini primitivi, o alla scoperta degli albori della terra. Ho cercato di ridar vita a questo mondo, resistito così per millenni e adesso a rischio di scomparsa, anzi già deperito, a causa dell’uomo che lo sta massacrando.
Cos’è che possiede l’aborigeno e che noi abbiamo perso?
La saggezza, l’energia e la forza della tradizione. Siamo noi che dovremmo attingere da loro e non loro da noi.
Ci fa capire…
Noi massacriamo inutilmente gli animali nei safari. Loro li uccidono solo per nutrirsi. Dovremmo riscoprire la nostra «animalità», che è l’antidoto alla bestialità. È il sapere antico che ha forgiato l’istinto, il riflesso di un’antica ragione.
Dentro questa ragione ci sta anche la dimensione spirituale, religiosa. Lei si dichiara agnostico.
Non credo in Dio. E invidio chi crede perché ha qualcosa in più di me, un’àncora di salvezza, una protezione. È un dono che non ho ricevuto. Questo, però, non m’ha impedito di avere grandi amici profondamente cristiani: sacerdoti, missionari e perfino vescovi. Stimo e apprezzo profondamente alcuni di loro perché li ho visti all’opera.
Chi per esempio?
Uno per tutti: padre Luigi Cocco, un salesiano straordinario, che mi accompagnò nel viaggio nell’alto Orinoco alla ricerca dei Waikas, una delle popolazioni più primitive che abitano la terra. Era lì nel nome di Dio, vivendo in un misero capanno che s’era costruito con le sue mani, per farsi accettare dagli indigeni. Non ha mai imposto nulla. E loro hanno compreso il suo messaggio di straordinaria bontà e generosità. E hanno iniziato ad amarlo. Questi sono i veri missionari. Grandi saggi, maestri di vita. Ho imparato molto da queste persone.
E davanti a uomini del genere o di fronte a una visione potente e meravigliosa della natura, in uno dei suoi tanti viaggi o scalate, non ha mai avuto il dubbio che questa saggezza o bellezza avesse a che fare con un essere assoluto?
Non nel senso di una mente superiore, divina, di un Dio. Esiste un qualcosa d’altro che l’uomo non ha ancora conosciuto, e che un giorno scoprirà. Ma grazie alla scienza, non alla teologia. Mi sento figlio di madre natura, dell’universo e della forza sconosciuta che esso comprende.
So che la figura di Gesù l’affascina, ma come la mettiamo col Cristo dei Vangeli figlio di Dio, che muore e risorge?
Non riesco a credere nella risurrezione. Non riesco a credere a un Dio che muore e dopo tre giorni risorge. Mi sono posto infinite volte la questione, ma senza convincermi del contrario. Non credo ai miracoli. La scienza oramai può spiegare quasi tutto.
Quasi, appunto. Ma verrà il giorno in cui si riuscirà a spiegare anche il resto.
E la nostra vita che cos’è? Casuale sequenza d’eventi, senza un senso?
È ciò che vogliamo che sia. Non credo al destino né alla buona sorte. La nostra fortuna o la nostra disgrazia siamo noi.
E alla fine i conti tornano sempre?
Sì, nella vita hai quel che hai seminato.
Ha rimpianti?
Nessuno. O forse quello di non essere riuscito a ringraziare qualcuno che la morte mi ha portato via.
Già, la morte. Lei l’ha vista in faccia più d’una volta.
È vero. Ma non c’eravamo dati appuntamento. Non l’ho mai sfidata a duello, per vedere chi dei due fosse il più forte.
Ha mai pensato al suo «ultimo» viaggio e a che cosa potrebbe esserci oltre?
La morte fa parte della vita. Ci prenderà, ma continueremo a far parte della natura sotto altre forme: polvere, gas, qualcosa che è compreso in questo mistero che è l’universo, dal quale sono venuto e al quale tornerò. Non riesco a immaginarmi un aldilà. E non credo nemmeno nella reincarnazione.
E quel famoso giorno in cui l’uomo scoprirà tutto, sarà la fine per Dio?
Potrà accadere di tutto. Potrei pure iniziare a credere. Ma subito dopo, con l’imperturbabilità di chi la sua parete l’ha già ascesa da tempo, e in bello stile, senza troppi chiodi, aggiunge sereno: Ma quando verrà quel giorno, io non ci sarò più. n
La scheda
Il personaggio
Il grande scrittore Dino Buzzati disse di lui: «Cosa avrebbe fatto Bonatti se fosse vissuto ai tempi di Omero? Probabilmente alpinista non sarebbe stato. Ma è molto probabile che per qualche sua eroica gesta il suo nome sarebbe arrivato fino a noi, nei versi di un grande poema».
Nato a Bergamo nel 1930, Walter Bonatti è considerato uno dei maggiori alpinisti italiani di tutti i tempi. Fin da giovanissimo ha realizzato imprese alpinistiche estreme per quei tempi. Componente della vittoriosa spedizione che portò gli italiani nel 1954 alla conquista del K2, fu protagonista di scalate memorabili soprattutto sulle Alpi occidentali.
Abbandonato l’alpinismo, dal 1965 fino al 1978 è stato fotoreporter di «Epoca» realizzando viaggi d’esplorazione negli angoli più sperduti della terra. Autore di molti libri di successo tra cui: «K2 la verità – 1954-2004», e «I miei ricordi».