L'uomo delle stelle
Ha guardato con stupore il cielo sin da quand’era piccolo. Incollato alla tivù mentre scorrevano le immagini in bianco e nero del primo sbarco sulla Luna. È tornato a naso all’insù, per perdersi nel buio stellato del cielo di Beirut, in un Libano squarciato dalle bombe dove si trovava come sergente maggiore della Folgore. Fino al momento in cui, quel cielo tanto sognato, ha potuto guardarlo quasi dritto negli occhi da una stazione spaziale.
Paolo Nespoli è l’astronauta italiano che ha trascorso maggior tempo nello spazio (circa 350 giorni), raggiungendo le cinquemila orbite attorno al nostro pianeta. Cresciuto a Verano Brianza, e da poco in pensione, oggi fa la spola tra Houston, dove vive con la moglie Sasha Alexandra e i due figli, Sofia e Max, 9 e 5 anni, e l’Italia, dove ama recarsi nelle scuole e raccontare a ragazze e ragazzi che l’importante nella vita non è fare gli astronauti, bensì avere una passione, un cielo stellato comunque da sognare.
Davvero tutto ebbe inizio davanti a una tivù in bianco e nero? Erano gli anni della scuola media. Guardavo incantato i filmati sulla Luna commentati da Tito Stagno e Ruggero Orlando. Mi affascinavano le immagini del nostro satellite, di quei supereroi che camminavano in modo strano tra i sassi e la polvere lunare. «Lo voglio fare anch’io quando sarò grande», mi dissi.
Quel sogno, però, finì in un cassetto. E ci rimase per molto tempo. Mia mamma avrebbe preferito che facessi l’elettricista. In fondo ero solo un ragazzo di provincia, cresciuto in un piccolo paese, tutto casa, scuola e oratorio e poi via a scorazzare per i campi. La scuola non mi piaceva così tanto. Non mi spaventavano, però, le sfide. Così entrai nell’Esercito, tra i paracadutisti.
Da qui a fare l’astronauta, però, la strada fu ancora lunga. Ho capito che cosa volevo diventare quando ormai non ero più un ragazzo. Accadde a Beirut, dove mi trovavo in missione speciale per la Folgore. Lì facevo il fotografo (la mia grande passione), la scorta al generale Angioni e l’accompagnatore di giornalisti. Conobbi Oriana Fallaci. Fu lei in qualche modo a scuotermi. Un giorno, mi disse: «Che cosa vuoi davvero fare per il resto della tua vita?». Da lì tutto ebbe inizio con grandi sacrifici, errori, ma anche tanta determinazione.
Perché arrivare fin lassù? Perché l’uomo è nato per esplorare, scoprire nuovi orizzonti, guardare oltre il suo naso. Lo Spazio è un ambiente in cui si deve reimparare ogni cosa, da quella più semplice a quella più complicata.
Un po’ come tornare bambini? Esatto, io mi sento proprio così. Bisogna imparare a muoversi, a mangiare, a respirare, a dormire. Ci vogliono almeno 2-3 settimane per abituarsi, ma il cervello è più adattabile di quanto pensiamo.
Lei parla di Spazio con la «s» maiuscola. Perché? Lo Spazio è tutto e uno. Ci permette di guardare la Terra in maniera macroscopica. Uno spettacolo pazzesco. Una sorta di sguardo planetario che ti fa scorgere la grande unità e, insieme, la straordinaria bellezza del nostro pianeta.
Chi vuole guardare bene la terra, scriveva Calvino, deve tenersi alla distanza necessaria. In effetti non c’è qualcosa che lo sguardo colga prima o dopo. La visione è di strabiliante unitarietà. Non si vedono steccati, confini, linee che dividono. L’Italia, la Francia, la Germania, il Giappone, la Cina non sono entità distinte. Siamo tutti marinai di un’unica nave chiamata Terra.
Che cosa le dà più ebbrezza? L’assenza di gravità, l’essere sospesi, la sensazione di infinito che poi, a terra, dopo un po’ mi manca. Quaggiù lo sguardo non può andare oltre il mio naso, al di là dell’orizzonte in cui mi trovo, tanto che tutto il resto è lontano. Da lassù, invece, tutto è incredibilmente vicino, più vicino di quanto io stesso pensi. E mi riguarda.
L'intervista integrale è pubblicata sul Messaggero di sant'Antonio di gennaio 2019 e nella versione digitale della rivista. Provala subito!