Bioplastiche, queste sconosciute
A partire dal XX secolo, la plastica è diventata uno dei materiali più presenti nella nostra vita quotidiana. Difficile farne a meno, soprattutto per le caratteristiche che essa offre non solo in termini di durata ma anche di igiene, vista la sua facilità di pulizia. Purtroppo conosciamo bene anche i grossi problemi di inquinamento da essa provocati. Che cosa fare, allora? La ricerca scientifica è in grado di proporci delle valide alternative? Le bioplastiche sono proprio una di queste alternative. Cerchiamo di capire perché.
Per l’European Bioplastics, le bioplastiche sono «un’intera famiglia di materiali con proprietà e applicazioni diverse. Un materiale plastico viene definito bioplastica se è a base biologica, biodegradabile o se presenta entrambe le proprietà». Quindi, quando parliamo di bioplastiche intendiamo sia polimeri (il polimero è una grande molecola che appare come una lunga catena alla quale possono essere legate diverse ramificazioni, ndr) biodegradabili o compostabili, sia prodotti derivanti da materiale biologico ma non biodegradabili e, per ultimo, plastiche prodotte da petrolio ma biodegradabili. Detto in termini ancora più chiari: all’insieme bioplastica appartengono i materiali che hanno una base di costruzione da materiale biologico che può essere di origine vegetale, animale o anche microbica (batteri), sia che siano biodegradabili sia che non lo siano, e le plastiche prodotte da petrolio ma con caratteristiche di biodegradabilità.
Ma andiamo a vedere con esattezza il significato dei termini biodegradabilità e compostabilità. Lo facciamo con l’aiuto di Silvana Povolo, esperta di plastiche biodegradabili. «Con biodegradabilità si intende un processo biochimico durante il quale i microorganismi presenti nell’ambiente trasformano il materiale in acqua e diossido di carbonio (CO2) – spiega la specialista –. In generale, il processo può essere diviso in quattro tappe. Durante il biodeterioramento si ha la formazione di un biofilm microbico, che non è altro che l’aggregazione di tanti microorganismi sopra la superficie della bioplastica. Il biofilm porta alla degradazione superficiale e alla formazione di piccoli frammenti e, successivamente, alla depolimerizzazione (la scomposizione della macromolecola in molecole più piccole, ndr). Le molecole più piccole così ottenute possono essere usate dai microrganismi come nutrienti nel processo che si chiama assimilazione. Le molecole sono per ultimo trasformate dai microrganismi in diossido di carbonio (CO2), acqua, metano o azoto, attraverso il processo chiamato mineralizzazione».
«Durante il processo di compostaggio – continua Povolo – il materiale organico viene convertito dai microorganismi in un ambiente controllato, cioè con il giusto grado di umidità e temperatura. Durante questo processo la completa degradazione della plastica avviene in 180 giorni». Le normative europee in atto concedono sei mesi a un materiale bioplastico per essere biodegradato e massimo tre mesi per essere compostato. La biodegradazione e il compostaggio avvengono comunque in ambienti controllati con temperature specifiche e specie di microorganismi che agevolano il processo. Questo significa che non siamo assolti dal «buttare in giro» le plastiche con caratteristiche di biodegradabilità, perché il processo potrebbe essere molto più lento o non avvenire per niente. Ad esempio, in mare le condizioni sono diverse e la salinità molto alta fa sì che alcuni prodotti non si degradino come sulla terra. Inoltre, la presenza di coloranti o metalli pesanti nella plastica di partenza può rendere il prodotto della biodegradazione comunque non adatto a tornare nel circolo naturale come concime.
Alla grande famiglia delle bioplastiche appartengono numerosi polimeri. Ma con quali criteri sono stati scelti? Questo argomento presenta diverse sfaccettature, visto che bisogna tener conto anche dei problemi generati durante la loro produzione o la loro degradazione. E si tratta di elementi da conoscere, pur non essendo scienziati, per poter fare scelte di consumo consapevole corrette. Le bioplastiche possono essere suddivise in tre grandi categorie.
La prima categoria è quella delle plastiche non biodegradabili ma derivate parzialmente o totalmente da materiale biologico (biomassa). Si potranno avere quindi oggetti durevoli e resistenti di polietilene (PE), di polietilene tereftalato (PET) o di poliammide (PA), con il vantaggio di un ciclo produttivo con significative riduzioni di emissione di gas che concorrono all’effetto serra. Infatti, questa categoria di bioplastiche ha come maggior vantaggio quello di emettere meno anidride carbonica, o biossido o diossido di carbonio (CO2), durante il ciclo produttivo, rispetto alle sue omologhe prodotte da fonti fossili. A questo si aggiunge il poter essere riciclate efficientemente alla fine del loro utilizzo. Nello specifico, prodotto dalla trasformazione degli scarti di lavorazione della canna da zucchero, il Polietilene bio, PE, è un materiale molto usato per gli imballaggi. Il Polietilene tereftalato, PET, è invece il materiale che conosciamo come principale componente delle bottigliette di plastica. È prodotto anch’esso partendo da zuccheri come il PE. Fanno parte di questa prima categoria anche le PA, poliammidi, comunemente chiamate nylon. Vengono molto utilizzate per gli imballaggi, e nei settori automobilistico e tessile. Anche i bio PA derivano dagli scarti della lavorazione della canna da zucchero e della barbabietola.
Passiamo ora alla seconda categoria di bioplastiche, composta da materiali sia a base biologica che biodegradabili e/o compostabili. Tra questi annoveriamo l’acido polilattico (PLA), i poliidrossialcanoati (PHA), il polibutilene succinato (PBS). Si aggiungono le nuove generazioni di film in cellulosa o derivanti dagli amidi, come ad esempio forchette in amido di patate che potrebbero essere anche mangiate dopo l’utilizzo. Il PLA ha proprietà di trasparenza e resistenza e facilità di lavorazione tali per cui è in grado di sostituire in molti impieghi il PET, con conseguente abbassamento delle emissioni di CO2 e permettendo la degradazione completa in caso di deterioramento del materiale. Parecchi studi scientifici, però, hanno evidenziato che la sua biodegradazione provoca un’emissione alta di anidride carbonica. Nel caso dei poliidossialcanoati PHA, questi vengono prodotti dai batteri i quali li stipano nelle loro cellule come se fossero dei cuscinetti di grasso che hanno lo scopo di fornire energia al batterio stesso. Essendo prodotti da molti dei batteri del terreno, i polimeri di questo materiale sono facilmente biodegradabili. Il PHA per le sue proprietà di termoplastica e facilità di biodegradazione ha possibilità di impiego nel campo biomedico, come ad esempio per i fili di sutura riassorbibili, ma anche per la produzione di plastiche multistrato e rivestimenti della carta. Per quanto riguarda il polibutilene succinato PBS, va detto che siamo dinanzi a un materiale che si può ottenere partendo dagli zuccheri, con proprietà termoplastica, adatto e utilizzato per la produzione di imballaggi e sacchetti di plastica. Ha il vantaggio di poter essere compostato, ma lo svantaggio di un elevato costo di produzione.
Non di origine biologica, ma comunque biodegradabili, sono le bioplastiche della terza categoria. In essa rientrano le plastiche oxodegradabili, oggi bandite dalla nuova normativa europea sull’usa e getta. Il perché risiede nella particolarità della loro degradazione. Le plastiche oxodegradabili, infatti, sono plastiche tradizionali contenenti additivi chimici che favoriscono la loro degradazione. Il problema sorge nell’immissione in natura di microplastiche causate dalla rottura del materiale in piccolissime parti che, si è osservato, possono con facilità essere ingerite dal plancton e inserite poi a tutti gli effetti nella nostra catena alimentare. Per il 2021, la normativa europea sulle plastiche usa e getta ha messo la parola fine ai prodotti di plastica monouso. Verrà vietato l’utilizzo anche di plastica oxodegradabile e dei contenitori per cibo da asporto in polistirene espanso.
«I polimeri bio-based hanno avuto uno sviluppo enorme negli ultimi anni, sia a livello tecnologico che applicativo e produttivo» conclude Silvana Povolo. E anche l’Italia è all’avangiuardia nel settore. Basti pensare al Matterbi (eccellenza tutta nostrana), materiale, a base di amido, utilizzato, per esempio, per le buste dell’umido. Segue lo stesso filone, ma in fase meno avanzata, un progetto (finanziato dalla Unione Europea ma sviluppato in un laboratorio dell’Università di Genova) per la produzione di un materiale plastico compostabile che utilizza bucce di pomodori.
Purtroppo il prezzo delle materie prime necessarie per la produzione di questi polimeri è ancora tra le voci di spesa più importanti. Per ridurre i costi (e anche per evitare la pericolosa competizione tra industria alimentare e industria delle bioplastiche e dei biocarburanti, che rischierebbe di far sì che ai produttori convenga coltivare un campo a mais o a canna da zucchero per produrre polimeri piuttosto che per l’alimentazione umana o animale), ci si sta concentrando sempre di più sugli scarti della lavorazione industriale (in particolare quella alimentare) o agricola, come substrato per le crescite microbiche o per la sintesi degli intermedi necessari. È la cosiddetta biomassa, che la normativa italiana (Dlgs 387/2003) definisce come frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine biologica provenienti dall’agricoltura, dalla silvicoltura, e dalle attività come pesca, acquacoltura, sfalci del verde pubblico e privato e infine la parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani.
La scienza, come abbiamo visto, sta compiendo passi da gigante. Ora spetta a noi mettere in atto comportamenti virtuosi, compiendo scelte di consumo consapevoli.
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