Guatemala, guardando al futuro
I versi delle scimmie urlatrici riecheggiano nella selva come boati. Si cammina in fila indiana, facendosi largo tra la vegetazione. «Ecco, è qui» dice infine Raul Figueroa Santos davanti a uno spiazzo: una capanna abbandonata, dei tavoli, un’altalena. Fino a venticinque anni fa, questo era uno dei nascondigli delle FAR, le forze armate ribelli del Guatemala.
Oggi è un luogo di memoria in cui provare a mettere insieme i pezzi di una storia complicata: la dittatura militare, il genocidio delle popolazioni native, i rastrellamenti. «Vivevamo nelle nostre umili case di contadini quando all’improvviso ci siamo trovati costretti ad andare nella foresta» spiega Raul. «Ci accusavano di essere sovversivi comunisti, ma il comunismo non sapevamo nemmeno cosa fosse. Ci uccidevano unicamente perché eravamo poveri e volevamo difendere le nostre terre». Un conflitto armato interno terminato solo nel 1996, l’anno zero per chi – dopo tanti anni passati a nascondersi – fu costretto a ricostruirsi una vita.
Siamo nel Petén, nel Nord del Guatemala al confine con il Messico. Al km 143 della lunga strada che conduce al sito archeologico Maya di Tikal sorge il villaggio di Nuevo Horizonte, una comunità di ex guerriglieri che, come Raul, hanno scelto, insieme alle loro famiglie, di ripartire dalla pace e dalla condivisione.
Chiunque scelga di varcarne il cancello, è accolto da un’atmosfera tranquilla e laboriosa: nelle case si lavora il mais ascoltando la radio, c’è chi bada al proprio negozio, chi porta avanti un piccolo cantiere e chi lavora davanti a un computer. A ogni angolo si ripetono scene di vita umile ma dignitosa: nel cuore di un Paese martoriato dal narcotraffico e dalla corruzione, prigioniero degli interessi delle multinazionali straniere, qui sembra di respirare aria pulita e, soprattutto, onesta.
Per un’economia a misura d’uomo
«Consegnammo armi, munizioni e uniformi» racconta Rony, il fratello di Raul. «In cambio ognuno di noi ricevette due paia di pantaloni, due camicie, due mutande, due paia di calze e un paio di scarpe. Non avevamo denaro, né terra, né l’accesso a qualche forma di sussidio. Tantomeno potevamo aspettarci un aiuto che ci introducesse in un sistema contro il quale avevamo lottato per più di trent’anni. Il più giovane di noi aveva 14 anni, il più vecchio 22. Nessuno era esperto in qualche campo: eravamo solo figli di contadini che si erano improvvisati soldati».
La nascita di Nuevo Horizonte è un miracolo di tenacia in mezzo al deserto lasciato dalla guerra: «Ci indebitammo per comprare il terreno: sapendo chi eravamo, il governo impose dei tassi d’interesse altissimi. Quando arrivammo non c’era nemmeno un albero, i militari avevano fatto terra bruciata. Così, prima di costruire le nostre case, ideammo un progetto chiamato “Verde Vita”, con l’obiettivo di ripiantumare il terreno. Era un modo di dire grazie al bosco che negli anni di guerra non ci aveva mai fatto mancare acqua, cibo, erbe curative. Decidemmo di piantare 50 mila alberi all’anno e in quindici anni lo abbiamo fatto diventare come è oggi».
Nacque una cooperativa. Nel gruppo dei fondatori c’era anche Petrona, sorella di Rony e Raul, che oggi racconta la sua storia seduta sotto il grande albero della piazza: «Il mio crimine è stato quello di nascere povera. Non sapevo nulla della politica o delle ideologie, mio marito era stato catturato e io dovevo salvare i miei quattro figli, per questo sono scappata nella selva con i ribelli. Serbo tutto nella mia mente, il sentimento mi sale forte e non posso trattenerlo. Due figli sono riuscita a farli scappare clandestinamente in Messico perché erano piccoli, ma quando sono andata a riprenderli, dopo la guerra, non mi hanno riconosciuta. Poi trovai posto qui: stabilimmo la regola che la terra era di chi la lavorava, non di chi la possedeva. Optammo quindi per un uso comunitario dei campi e riuscimmo a sopravvivere alla miseria dei primi anni. Poi, finita l’emergenza, fu giusto che ognuno ricevesse in base al suo lavoro. Perciò sviluppammo tre modelli di produzione: collettivo, semi-collettivo e individuale».
Tra le attività di sostentamento collettivo c’è il turismo: Petrona si occupa di accogliere i visitatori nell’ostello, organizza i pranzi e le cene sotto la tettoia del piccolo ristorante. «È un modo per farci conoscere e creare una rete di esperienze condivise». Si arriva qui sempre più spesso anche dell’Italia, grazie a operatori culturali come Alessandro Masini, pesarese trasferitosi in Guatemala e fondatore del progetto di turismo responsabile The Labyrinth. «Ci torno ogni anno – confessa –per incontrare il volto pacifico della rivoluzione».
A Nuevo Horizonte oggi c’è un teatro comunitario, la scuola, una biblioteca, una clinica per il parto con la stessa ostetrica che faceva nascere i bambini nella selva. L’istruzione e le cure mediche sono gratuite anche per chi viene dai villaggi vicini; non c’è bisogno di polizia. Si insegna l’equità di genere, la coscienza di classe, il rispetto della natura, le buone pratiche per costruire un’economia a misura d’uomo. Si accoglie chi da fuori vuole conoscere, studiare, sapere. Ci si esercita, insomma, alla libertà.
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