Trent'anni con la Basaglia

Ha chiuso i manicomi, ha rivoluzionato la cura e capovolto i destini dei malati. È la legge 180 ancora odiata e amatissima, che ora compie trent’anni. Viaggio nella psichiatria italiana, accanto ai sofferenti e alle loro famiglie.
28 Ottobre 2008 | di

Voce calda e ben impostata, domande impertinenti e grande libertà d’espressione. Si chiama Carlo Giomo ed è uno dei redattori della radio più folle d’Italia, «Rete 180, la voce di chi sente le voci». Nata nel 2003 in seno all’Unità di psichiatria dell’Ospedale Carlo Poma di Mantova, trasmette via internet 24 ore su 24, ed è diventata una presenza amata e riconosciuta dal pubblico, tanto da avere un suo spazio persino al Festival della letteratura di Mantova. L’ironia è una delle cifre, quasi una caratteristica della linea editoriale. Qui le «pillole» non sono medicine, ma dibattiti a più voci senza veli con ogni genere d’umanità. Carlo, insieme agli altri redattori, ha intervistato Dario Fo, Sgarbi, Don Mazzi, Luttazzi e tanti altri; ha ancora nel cuore le parole di Enzo Biagi, «un vero padre», la dolcezza di Veronica De Laurentis, la sensibilità di Luxuria, l’energia di Don Gallo, «il grande lottatore». Per lui uomini e donne non sono quel che appaiono, semplicemente sono o non sono, esprimono o non esprimono. La voce non tradisce. «Ti assicuro, c’è gente più folle di me».
Carlo considera la radio un magnifico ponte: «Uno che soffre nell’anima ha il problema di rendersi visibile in un mondo che lo vuole invisibile. E allora io divento voce ed entro nelle case senza farlo fisicamente, senza invadenza, senza vincoli per me e per chi mi ascolta. Ci sono senza esserci. E sono me stesso». Il disagio mentale è atroce sofferenza ma è anche un osservatorio da cui si scruta il mondo: «Finora si è sempre preteso che il “folle” fosse ricondotto alla “normalità”. A Rete 180 facciamo il percorso inverso. Vi invitiamo a entrare per un attimo nel nostro mondo che per voi è privo di regole, per spiegarvi le nostre: per noi è vitale capire e capirci l’un l’altro, ascoltare ed essere ascoltati, a partire dai nostri terapeuti per finire al nostro pubblico».



Dal manicomio alla 180

Sancire la chiusura dei manicomi significava buttarsi alle spalle secoli di storia. Già nel 1600 la Francia, prima in Europa, aveva iniziato a internare tutte le persone ritenute incapaci di integrarsi nella società: dagli infermi ai vecchi e ai folli. Il manicomio come istituzione nacque all’inizio del ’900. In Italia la prima legge, che risale al 14 febbraio 1904, sanciva che i matti dovessero essere internati quando pericolosi «a sé o agli altri o riescano di pubblico scandalo». La pericolosità sociale iniziò a giustificare ogni sorta di violazione dei diritti individuali mentre il medico, in pratica garante della custodia, assunse un potere illimitato. Le lettere dal Manicomio di San Gerolamo, a Volterra, scritte tra il 1889 e il 1974 e riportate nel libro di Simone Cristicchi Centro di salute mentale sono l’esempio di questa prevaricazione. Vi si leggono i maltrattamenti: «Passarono sei mesi a fare questa vita di tortura, prendendo aria per mezzo della finestra a doppia inferriata, senza mai farmi prendere un po’ di svago…, senza mai una parola di conforto», Alberto, 21 maggio 1910; la disperazione: «Vieni presto perché son ben tre settimane che piango gridando i vostri nomi»; la solitudine: «Io non so più cosa pensare di voialtri. Una visita almeno… se realmente mi volete bene», Enrico 24 agosto 1909. Lettere mai spedite, archiviate all’insaputa del paziente nella sua cartella.

La crisi dell’ospedale psichiatrico iniziò nel secondo dopoguerra in Inghilterra, Francia e Stati Uniti quando si diffusero campagne sulla condizione dei malati psichiatrici e si iniziò a riflettere sul costo-beneficio dell’istituzione. Ma fu soprattutto in Italia, con gli esperimenti di apertura degli ospedali psichiatrici di Gorizia e Trieste e la costruzione di servizi territoriali operati da Franco Basaglia, che si cercò una vera alternativa. La legge 180 venne approvata il 13 maggio del 1978 e fu successivamente integrata dalla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale, la 833 del 23 dicembre 1978.

La 180 rimane tuttavia una legge quadro che rimanda alle Regioni la sua reale attuazione. Così all’apertura delle porte dei manicomi l’Italia non era pronta né culturalmente né strutturalmente ad accogliere il cambiamento. Spesso le dimissioni forzate gettarono nella disperazione gli stessi malati, non più abituati alla libertà. Le famiglie si trovarono sole a gestire un problema più grande di loro mentre la politica latitava. Un iter difficile quello di attuazione della 180: l’ultimo manicomio, il Santa Maria della Pietà a Roma, è stato chiuso addirittura nel 2000, mentre in alcune strutture alternative persiste ancora una certa cultura manicomiale.

Il giudizio sulla 180 spacca gli psichiatri anche nel 2008. Secondo Eugenio Borgna, direttore del manicomio di Novara proprio negli anni della Basaglia, la 180 finalmente spostava l’attenzione dalla malattia al malato: «Da una legge crudele e inumana si è passati a una legge che è la migliore delle leggi possibili». Giovanni Battista Cassano, direttore del dipartimento di psichiatria dell’Università di Pisa, ne rivendica invece le pecche: «Contestai la legge 180 perché ritenevo che fosse necessario un passaggio graduale e perché disapprovavo il modello basagliano secondo cui il disagio mentale non era una malattia».


La psichiatria trent’anni dopo

A distanza di trent’anni cosa c’è oggi sul territorio? Secondo un’indagine parlamentare del 2006, i disturbi mentali coinvolgerebbero in Italia 2 milioni e duecentomila persone. Le patologie sono in aumento, ma i servizi sul territorio riescono a seguire appena il 10 per cento dei sofferenti, anche perché molti di loro preferiscono non farvi ricorso per paura dello stigma. Intanto una rete di assistenza si è diffusa su tutto il territorio nazionale. Ci sono 211 dipartimenti di salute mentale (Dsm), cioè sistemi integrati di servizi attraverso cui l’azienda sanitaria gestisce gli interventi di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione. Tra i servizi più comuni i centri di salute mentale, i servizi psichiatrici di diagnosi e cura, i day hospital, le cliniche psichiatriche universitarie e le case di cura private. A questi si aggiungono i 612 centri diurni, dove si svolgono attività di vario tipo, e le 1552 strutture residenziali, cioè abitazioni protette.

Basta ciò a dire che la 180 funziona? Chi ha il polso della situazione sono le associazioni di familiari. Ma anche qui la spaccatura si ripropone. C’è una maggioranza di associazioni, circa 160, raccolte sotto la federazione Unasam (Unione nazionale per la salute mentale) che guarda alla 180 come a un faro; c’è però anche una discreta minoranza, circa trenta associazioni, raccolte nella Fisam (Unione associazioni italiane per la salute mentale) che contesta la 180 e combatte per la sua riforma.


Famiglie in prima linea

A quest’ultimo gruppo appartiene Maria Luisa Zardini dell’Arap (Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica): «La 180 è una legge ideologica e vaga che dice solo quello che non si deve fare: dice che è proibito istituire reparti psichiatrici negli ospedali. Ma quale malattia non ha un reparto dove ci si può curare? Come capire che un dato farmaco o trattamento funziona se non hai sotto gli occhi la persona? La 180 dice che non bisogna costringere il malato alla cura: ma quanti schizofrenici non riconoscono la loro malattia e fanno danni a se stessi e agli altri?». Secondo Zardini oggi ci sono farmaci molto efficaci, che limiterebbero le sofferenze, mentre in genere il malato arriva alla diagnosi anche dopo decenni, peggiorando e cronicizzando la sua patologia. «Con quanta sofferenza da parte sua e dei suoi familiari? Appena ieri una mamma è venuta disperata a dirmi che il figlio, che non vuole farsi curare, va a importunarla al lavoro e lei rischia il posto. O che dire di quella madre che vive in una camera in affitto perché il figlio ha bruciato l’appartamento?».

Domande dolorose a cui Gisella Trincas, presidente dell’Unasam, contrappone un’altra visione del problema: «La 180 è una legge di civiltà, un percorso che non è ancora stato pienamente attuato per le inefficienze della politica. La Basaglia ha messo al centro la persona e la sua dignità, ha sostenuto che la follia fa parte della vita e come tale non può essere relegata in luoghi chiusi, ma va presa in carico dalla società. Se questa è la logica, così come ciascuno di noi può rifiutare una cura del cancro – salvo poi tornare sui propri passi grazie alla vicinanza di familiari e terapeuti –, anche chi soffre di un disagio mentale deve poter avere la stessa possibilità. È una questione di diritti. E allora si contratta, si lotta insieme, aggregandosi ad altri, chiedendo a gran voce l’intervento dei servizi e della politica». In caso di pericolosità, continua Trincas, la legge già prevede il ricorso al trattamento sanitario obbligatorio, cioè a un ricovero forzato per convincere la persona alla cura, prorogabile di settimana in settimana.

Su un punto però tutti i familiari sono d’accordo: è necessario che la psichiatria vada verso la persona sofferente e la sua famiglia e non resti dietro una scrivania ad aspettare. «Non è ammissibile che lo psichiatra ti riceva una volta al mese» denuncia Zardini. Rincara Trincas: «È chiaro che se i servizi sono carenti, gli operatori impreparati e le famiglie sole e per giunta ghettizzate dallo stigma sociale, non c’è da stupirsi che poi invochino il manicomio. Ora che le strutture alternative si sono diffuse, bisogna lottare affinché esse migliorino di qualità e creino reale integrazione».

Ma è Borgna, lo psichiatra, che ha la sintesi più toccante: «La vera psichiatria è quella che si rende conto che la follia è sofferenza, dolore, sacrificio ma anche speranza. La follia ha al suo fondo il desiderio, la nostalgia di un incontro interpersonale. Se lo psichiatra non accetta questa sfida, non ha quest’ansia disperata di aiutare gli altri, allora diventa un semplice prescrittore di farmaci».

L’ultima domanda è per Carlo, il redattore di Rete 180: di che cosa ci sarebbe veramente bisogno per migliorare la vita di chi «soffre nell’anima»? Risponde con un’immagine, come è solito fare: «Ricordate quel film, The Elephant man? Parla di un uomo deforme che a un certo punto recita la parte di Romeo. Quando Giulietta sta per baciarlo, Romeo la ferma e le dice: “Ma io sono deforme” e lei risponde: “No, tu sei il mio Romeo”. Chi ha male nell’anima sa che quel bacio difficilmente lo potrà ricevere. Chi si innamorerebbe mai di un folle? Vorrei che chi provoca pregiudizio e ti condanna per sempre alla marginalità, si svegliasse anche solo per un giorno nero, prostituta o folle. Forse non emarginerebbe più. E poi, se la follia è solo nostra, come vuole il pregiudizio, che nome dareste all’Olocausto, al genocidio in Rwanda, alla devastazione dell’Amazzonia?».

Oggi nel sito di Rete 180 la consueta frase del giorno è quanto mai azzeccata; si riferisce al famoso film con Jack Nicholson nei panni di un folle: «Qualcuno volò sul nido del cuculo (titolo del film)… ma quello che trovò furono aquile».



Zoom. Come riconoscere il disagio mentale

La statistica ci dice che i disagi psichici insorgono molto presto. Metà delle persone con problemi d’ansia ha iniziato prima dei 15 anni. Un depresso su due ne soffre dai 25 anni. Ma, nonostante i sintomi si presentino molto presto, in Italia in media un disturbo d’ansia viene curato ventotto anni dopo la sua insorgenza, con una forbice che scende a due anni (ma non è poco lo stesso) per casi di depressione maggiore. Evidente il problema: come riconoscere e affrontare i disagi della psiche? Ecco alcuni suggerimenti tratti dal libro delle edizioni Franco Angeli Da chi vado? Come orientarsi nel riconoscimento e nella cura dei disagi psicologici di Margherita Di Virgilio e Irven Mussi, cui si rimanda per approfondimenti.

- Come capisco se sono malato o se è solo un malessere passeggero?

Per le patologie psichiche è complesso distinguere nettamente il comportamento sano da quello disturbato, specie quando non sono eclatanti. Bisogna imparare ad ascoltarsi, cogliere i disagi, anche e soprattutto all’inizio, e farsi aiutare dallo specialista più indicato prima che i sintomi diventino così invasivi da produrre una sofferenza marcata e rendere più lungo e complesso il cammino terapeutico.

- Cosa è meglio evitare in questi casi?

Sbagliato è non curarsi, o farlo autonomamente con psicofarmaci su consiglio di conoscenti che ne fanno uso, o recarsi da uno specialista a caso senza rendersi conto della differenza tra psichiatri, psicologi, neurologi e altri.

- Da queste malattie non si guarisce mai del tutto…

Non è vero. È uno dei tanti preconcetti in materia. Come si va dal medico per l’influenza, perché non bisognerebbe avvicinare con serenità lo psicologo per un disagio della mente? Da questi disturbi si può guarire o, nel caso di patologie più gravi, si può comunque alleviare la sofferenza e migliorare lo stile di vita.

- Psicofarmaci o psicoterapia?

Il dibattito è aperto tra gli studiosi, a favore dell’uno o dell’altro approccio. La cosa migliore è l’integrazione dei due interventi, mediante la collaborazione tra i diversi professionisti che intervengono sul caso. 

(A.F.)


Il film. Claudio Bisio in mezzo ai matti

Prendi un «sano», mettilo in mezzo ai disabili mentali a inventarsi un lavoro possibile e addirittura di successo sullo sfondo di mille problemi. È il messaggio di speranza lanciato da Si può fare, nelle sale dal 31 ottobre per la regia di Giulio Manfredonia. Il protagonista è un sindacalista che da un giorno all’altro, nell’Italia post legge Basaglia, si trova a presiedere una cooperativa di disabili: a interpretarlo è Claudio Bisio, il popolare comico da anni alla guida di Zelig. «Ho accettato questo ruolo – spiega Bisio al nostro giornale – perché il film racconta una bellissima storia, emozionante in quanto vera». Siamo nella Milano di inizio anni ’80: dodici «picchiatelli», usciti dal manicomio, passano il tempo ad attaccare francobolli. «Il mio personaggio – racconta l’attore – non accetta questo lassismo e si rimbocca le maniche. Da sindacalista tutto d’un pezzo, con una grande fiducia nella realizzazione dell’uomo attraverso il lavoro, propone di puntare sul mercato dei parquet, ma i risultati sono disastrosi. Fino a quando scopre che i due schizofrenici sono abilissimi coi puzzle. Perché non applicare questa capacità nel lavoro? Così la cooperativa si specializza nei parquet a mosaico. I “matti” sono bravi, veloci e si divertono pure. Inoltre la materia prima – ritagli di legno – costa poco. L’esito è che queste persone, emarginate nella vita e nella società, conquistano il mercato e si riscattano». La storia è quella della Cooperativa Noncello di Pordenone, oggi affermata realtà con 700 soci lavoratori (un terzo disabili). Sotto osservazione sono gli effetti della legge 180, su cui oggi tanto si discute. «Ma indietro – sostiene Bisio – non si torna. Si può migliorare: la follia è materia così labile e complicata da meritare approfondimenti, non revisionismi. In questo senso il film è prosecuzione: Qualcuno volò sul nido del cuculo racconta la vita dentro il manicomio, noi quello che succede dopo la Basaglia. C’è solo una scena di manicomio, molto forte, in cui il protagonista entra in un capannone ancora attivo alla ricerca di nuova manodopera. Incontra persone che implorano un’alternativa a quella vita, perché hanno capito che la dozzina di loro compagni “ce l’hanno fatta”. È stato agghiacciante anche per me vedere tutti quei camici, in quell’ambiente…».

Conosciamo il Claudio Bisio comico, il mattatore di Zelig, con la battuta pronta, spavaldo. Sul tema della follia invece cambia registro: timido, titubante, a disagio. È lui stesso a riconoscerlo, quando ricorda il primo approccio al film e alla malattia mentale. «Arrivo a Roma per una lettura preliminare corale del copione. Appuntamento a Santa Maria della Pietà, l’ex manicomio. Mi aspetto una normale prova con i colleghi, e invece mi trovo catapultato in una realtà diversa, per il luogo certo, ma soprattutto perché gli altri dodici erano già calati nella parte di matti, e si prendevano una confidenza totale. Fin da subito. Mi sono visto circondato: c’era uno che mi toccava, una che non la smetteva di guardarmi negli occhi, una con la mania delle pulizia che mi lustrava le scarpe… Ho creduto di essere su Scherzi a parte. Non ero spaventato, ma a disagio. Questo sistema è andato avanti ancora durante le riprese dei due mesi successivi. Ad esempio, nel film c’è uno che fuma sempre e che non hai smesso, neanche durante le pause! Tuttora non so se anche nella vita sia così, né lui né gli altri undici. Il regista alla fine di quella prima giornata mi disse che era tutto preparato, perché quell’imbarazzo, quella faccia impacciata potessi riportarla con la stessa forza nel film. In definitiva con questa esperienza ho scoperto una pazzia che dà una libertà relazionale diversa. Forse sotto il filtro della follia le persone tipo Don Chisciotte possono dire quello che pensano. È un privilegio del nostro mestiere di attori con la maschera, ma forse è un privilegio anche dei matti».
 

Data di aggiornamento: 26 Giugno 2017