La Caritas antoniana a favore dei giovani. Famiglie contro la dipendenza
È il 5 giugno 1998. Daniela ha appena cinque giorni quando entra in comunità . Strilla, mentre Marco, il fratellino di 4 anni, la tiene in braccio goffamente, mostrandola alle amichette come un trofeo. È caldo, ma sembra Natale, un Natale fuori stagione, inatteso, entusiasmante. E pensare che sua madre, Marta, appena entrata in comunità , aveva scoperto la gravidanza con angoscia. Un passato di droga dietro l'angolo e un altro figlio, un altro essere destinato a soffrire, un altro punto di domanda sul futuro. Padre Mino l'aveva convinta a tenerlo: con semplicità , da fratello, senza biasimo e senza condanna. Ora che Daniela è qui in carne e ossa, nessuno nasconde i problemi, ma la gioia è più grande. Si può ricominciare, nonostante tutto.
Siamo a un passo da Padova, a Monselice, dove da una ventina d'anni opera la Comunità san Francesco, gestita dai frati minori conventuali. Ci vivono attualmente 35 persone con problemi di dipendenza. Non una comunità terapeutica in senso stretto né solo una casa di accoglienza. «È la mia famiglia», spiega Michela, eroina ormai alle spalle e una grande, grandissima voglia di vivere. Nascite e rinascite nella Comunità san Francesco non sono più una rarità : «Chi l'avrebbe mai detto», afferma padre Luciano Massarotto, direttore dell'opera e segretario della Caritas antoniana, sfogliando l'album dei bambini che con i loro genitori hanno vissuto qui. E poi, percorrendo quello degli adulti: «Guarda, questo è Marco, era una larva umana. Non ci avresti scommesso nulla sul suo recupero: oggi è un professionista affermato, ha una moglie e dei figli». Quarantasette anni, occhiali sul naso, barba bionda sorridente, padre Luciano racconta i vecchi tempi quando, con altri due giovani frati, voleva concretizzare l'ideale francescano di condividere la vita con gli ultimi. «Nel 1980 pensavamo a una casa-famiglia per barboni, ma ci fu subito chiaro che molte di queste persone erano tossicodipendenti o alcolizzati, per cui dedicarci alla cura delle dipendenze fu una naturale evoluzione».
I primi passi
Iniziarono alla buona, vivendo l'accoglienza giorno per giorno, senza un metodo specifico, ma presto percepirono il disagio di un'esperienza troppo improvvisata. Era ora di riflettere.
La svolta avvenne nel 1984: «Facemmo due scelte importanti: il nostro lavoro doveva concentrarsi sul territorio e doveva esser fatto assieme alle famiglie; esse non potevano più abdicare al ruolo di genitori, ma dovevano diventare attori del percorso». Fu una brillante intuizione che portò al recupero di rapporti difficilissimi, spesso alla base del disagio e della dipendenza. «Più tardi elaborammo anche un approccio ecologico alle sostanze, che è diventato un nostro caposaldo: tutte le sostanze che creano dipendenza sono da rigettare. Non facciamo distinzione tra droghe pesanti e droghe leggere, tra droghe legali e droghe illegali». Un giro di vite in senso professionale che portò a una stretta collaborazione con i Sert (Servizio tossicodipendenze) del territorio e all'assunzione di personale specializzato.
La svolta oggi ha un'altra importante implicazione: lavorare assieme alle famiglie vuol spesso dire accogliere, per il periodo di cura, anche mogli, mariti, figli, perché alla base del recupero ci deve essere il calore della vita normale, la presenza degli affetti, la sensazione d'essere davvero a casa. E la comunità si è dipinta di giochi di bimbi, di corse, di urla, di candeline accese ai compleanni. «Oggi ci identifichiamo come una comunità di famiglie - afferma Santino Pantè, psicoterapeuta e direttore dei programmi di recupero - e la comunità propone una scelta di salute non solo per il singolo, ma per tutta la famiglia. Abbiamo scoperto così che una dipendenza nasconde spesso altre dipendenze familiari: madri dipendenti da psicofarmaci, padri alcolisti... il disagio profondo viene alla luce e finalmente gli si dà un nome, si spiega come dev'essere affrontato, si progetta insieme un nuovo futuro. Quanti, dopo, ci dicono: non me ne rendevo conto, non sapevo cosa fare...». Non solo, su progetto del Sert di Monselice, è nato un servizio innovativo che consente alle madri di iniziare un percorso di recupero senza doversi staccare dal bambino, come invece solitamente avviene: «Ciò ci permette di migliorare da subito il rapporto madre-figlio - continua Pantè - e prevenire futuri problemi per il piccolo. Queste giovani hanno spesso famiglie disastrose alle spalle e non sono pronte al nuovo ruolo e ad assumersi le responsabilità ».
Un cammino fatto insieme Alla base della vita comunitaria c'è il lavoro agricolo: la comunità è famosa per la produzione di fragole, di ciliegie e di radicchio. «L'accompagnamento al lavoro è fondamentale - spiega Luca, ex tossicodipendente, oggi operatore della comunità - . Quando esci dalla dipendenza devi costruirti una vita senza 'la sostanza', e non è affatto facile. Prima ogni tua attività era finalizzata a procurarti la 'roba', ora, invece, devi reimparare il valore del lavoro e dei soldi per costruire una vita normale». La permanenza in comunità dura in media nove mesi, mesi di duro lavoro con le proprie famiglie e con se stessi. Al sabato e alla domenica si ritorna a casa. Dopo questo periodo, incomincia il lento cammino verso la normalità all'esterno. Anche in questo passaggio, famiglie e ragazzi non sono soli, per almeno cinque anni frequenteranno un incontro settimanale in comunità .
Una continuità di rapporto che ha un nucleo spirituale e affettivo importante: la comunità dei frati. Assieme a padre Luciano vivono in comunità altri tre confratelli: Mino, Fernando e Walter. Non hanno né orari, né turni di lavoro. Assicurano presenza e ascolto in qualsiasi momento della notte e del giorno, condividono le gioie e i dolori proprio come in una vera famiglia, ti accettano per quello che sei, senza mai importi nulla. Un affetto che per alcuni continua anche tutta la vita. Michela, poco più di 30 anni, originaria di Vicenza, ha trovato casa qua vicino con il marito: «Luciano xe come me fradeo (è come mio fratello) - afferma in un tripudio di riccioli biondi - . Prima di entrare qui, ero persa. Vivevo una solitudine che mi faceva impazzire. Cercavo aiuto nelle istituzioni, nell'ospedale, in comunità di recupero, ma ero come un numero, un problema da parcheggiare. Poi io e mio marito siamo venuti qui, era l'unica comunità che accettava le coppie e che ti aiutava a ricostruire il rapporto. Quando sono arrivata, avevo il cuore a pezzi eppure non mi sentivo più un numero, ero Michela un'altra volta con le mie paure e la mia voglia di ricominciare. Mi ascoltavano, mi capivano, incredibile dopo tanta solitudine. Ora ho una bella famiglia, forse anche migliore di quelle che non hanno avuto niente a che fare con l'eroina. E quasi quasi sono contenta che sia andata come è andata, altrimenti loro non li avrei mai conosciuti».