Perché il papa chiede perdono?
La 'resistenza' dei cristiani al nazismo, che sterminava gli ebrei, 'non è stata quella che l'umanità era in diritto di aspettarsi': l'ha detto il papa il 31 ottobre scorso, parlando ai sessanta specialisti chiamati in Vaticano per studiare 'le radici dell'antisemitismo in ambiente cristiano'. Nel giugno di due anni fa, da Berlino, Giovanni Paolo II aveva riconosciuto che quanto fecero i cristiani in opposizione al nazismo - quel giorno aveva beatificato due sacerdoti 'martiri' dei lager - era stato 'troppo poco'.
L'agosto scorso, a Parigi, durante la veglia della Giornata mondiale della gioventù, che cadeva nella Notte di San Bartolomeo (tra il 23 e il 24), ricordò la 'strage' degli ugonotti protestanti, compiuta dai cattolici in quella stessa notte, a Parigi e in varie città della Francia, 425 anni prima, definendola 'un atto che il Vangelo condanna'.
Nell'aprile del 1995, nella Repubblica Ceca aveva fatto questa solenne richiesta di perdono per le guerre di religione: 'Oggi io, papa della chiesa di Roma, a nome di tutti i cattolici, chiedo perdono dei torti inflitti ai non cattolici nel corso della storia tribolata di queste genti'.
Potremmo continuare: sono ormai un centinaio i testi in cui Giovanni Paolo II invita a riflettere sulle 'pagine oscure' della storia della chiesa, più di venti quelli in cui chiede perdono.
Ha parlato delle crociate medievali e dell' 'acquiescenza' dei cattolici alle dittature del nostro secolo, delle divisioni tra chiese e del maltrattamento delle donne, della persecuzione degli ebrei e del caso Galileo, delle guerre di religione e della partecipazione dei cristiani alle guerre di Hitler, del comportamento dei credenti con gli indios e i neri, dei tribunali dell'Inquisizione.
Dove vuole arrivare il papa? Non avverte il disagio che questa sua insistenza provoca in una parte della comunità cattolica? Qual è in particolare il suo proposito con la questione ebraica, cui era dedicato il 'colloquio' che si è tenuto in Vaticano lo scorso autunno? E che vuol fare in materia di 'Inquisizione', che è l'argomento sul quale si farà un altro 'colloquio' il prossimo autunno?
Giovanni Paolo II non ha inventato la 'richiesta di perdono' che tanto lo impegna. Questi suoi atti hanno una chiara derivazione ecumenica, conciliare e montiniana.
Il riconoscimento 'penitenziale' delle responsabilità storiche della propria comunità di appartenenza è frequente - in questo secolo - nelle 'confessioni' protestanti. Solenni (e in tutto simili alle attuali di Giovanni Paolo II) furono quelle da loro venute dopo la seconda guerra mondiale, in riferimento al nazismo e allo sterminio degli ebrei. Il concilio Vaticano II - in particolare il decreto sull'ecumenismo - ha vari testi cui si ispirano i mea culpa di Giovanni Paolo II.
Ma il precedente più diretto - di un papa che parla a nome della chiesa - è la richiesta di perdono ai fratelli separati pronunciata da Paolo VI ad apertura della seconda sessione del Vaticano II, nel settembre del 1963. Nell'enciclica Ut unum sint (Perché siano una cosa sola, del 1995) l'attuale pontefice cita quell'atto di papa Montini, e a proposito della divisione tra le chiese scrive: 'Per quello che ne siamo responsabili, con il mio predecessore Paolo VI imploro perdono'.
Per rintracciare un altro precedente papale occorre risalire ad Adriano VI, che nel 1523 fece leggere da un proprio legato alla Dieta di Norimberga un impegno alla riforma della chiesa che partiva dall'ammissione delle 'cose abominevolissime' di cui si erano resi responsabili i papi suoi predecessori e la loro corte.
Al generoso ma sfortunato tentativo autocritico di Adriano VI, seguirono quattro secoli e mezzo di intransigente apologetica, che considerava 'cedimento' nei confronti degli eretici ogni ammissione di responsabilità storiche da parte di uomini di chiesa. Il riconoscimento delle responsabilità nella divisione tra cristiani si fa strada nei primi decenni di questo secolo nel movimento ecumenico: l'autocritica protestante influirà sul Vaticano II, che farà suo il pronunciamento di Paolo VI nel documento sull'ecumenismo.
C'è, dunque, una storia dietro questi pronunciamenti papali. Ma due sono le novità apportate ad essa da Giovanni Paolo II: l'estensione dell'atteggiamento autocritico dalla materia ecumenica ai vari aspetti della vita della chiesa (e questa estensione inizia nel 1979, con la revisione del caso Galileo); la proposta - in vista del giubileo - di un 'esame di fine millennio', avanzata con la lettera Tertio millennio adveniente (Avvicinandosi il terzo millennio). Quell'esame dovrebbe portare a un riconoscimento 'penitenziale' delle controtestimonianze date dai 'figli della chiesa' negli ultimi dieci secoli.
Il papa ha scelto l'antigiudaismo e le Inquisizioni come i due temi più impegnativi e - per studiarli - ha costituito una Commissione 'teologico storica' (una delle otto 'preparatorie' al grande giubileo), che è presieduta dal domenicano Georges Cottier. Con il 'colloquio' già fatto sull'antigiudaismo e con quello che si farà sulle Inquisizioni (al plurale: quella medievale, quella spagnola, quella romana), la commissione preparerà un dossier che dovrebbe servire al papa - questa almeno è l'intenzione - per un pronunciamento unico, in una celebrazione 'penitenziale' che si farà (forse) nell'autunno del 1999. Arriverà allora la richiesta di perdono agli ebrei? È probabile, e sarebbe nella logica dei passi compiuti fino a oggi dal pontefice.
Nel discorso che citavamo all'inizio, tenuto in occasione del 'colloquio' sull'antigiudaismo, il pontefice affermò l' 'assoluta' condanna dell'antisemitismo e di ogni genocidio, e la doppia gravità che per un cristiano spetta alla Shoah, cioè al genocidio ebraico voluto da Hitler. Ma la parola più toccante che disse - e la più significativa in ordine al futuro 'atto penitenziale' - è quella che riguarda l'inadeguata resistenza dei cristiani al nazismo. Ecco l'intero passo del discorso del papa: 'Nel mondo cristiano - non dico da parte della chiesa in quanto tale - alcune interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento relative al popolo ebraico e alla sua pretesa colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando sentimenti di ostilità nei confronti di questo popolo. Tali sentimenti hanno contribuito ad assopire molte coscienze, in modo che quando sull'Europa è dilagata l'ondata delle persecuzioni ispirate a un antisemitismo pagano che, nella sua essenza, era anche un anticristianesimo, accanto a cristiani che hanno fatto di tutto per salvare i perseguitati fino a mettere in pericolo la propria vita, la resistenza spirituale di molti non è stata quella che l'umanità era in diritto di aspettarsi dai discepoli di Cristo'.
In queste parole la richiesta di perdono è già presente, implicita ma chiara.
Quanto all'insistenza del papa sui mea culpa: egli certo avverte il disagio di alcuni, anche cardinali e vescovi, ma ritiene doveroso riconoscere le 'deviazioni', ed è convinto che un tale riconoscimento 'non danneggerà in alcun modo il prestigio morale della chiesa, che anzi ne uscirà rafforzato, per la testimonianza di lealtà e di coraggio nel riconoscere gli errori commessi' (Promemoria ai cardinali, del 1994).
Ma perché il mea culpa andrebbe fatto in vista del giubileo? Il comunicato finale del 'colloquio' sull antigiudaismo risponde così: 'Il giubileo sarà un grande rendimento di grazie a Dio per il dono di Gesù Cristo... [ma] per essere pieno e totale, tale rendimento di grazie dev'essere preceduto da un esame di coscienza: laddove non abbiamo risposto al disegno di Dio, si rende necessario un impegno di conversione; gli errori e le mancanze del passato non devono più ripetersi nel futuro... [e] la prima tappa di un impegno di conversione è il leale riconoscimento dei fatti'. Che può comportare un atto riparatore: 'Saper perdonare, così come saper chiedere e ricevere il perdono, è una condizione che rende liberi. Così la memoria non è più portatrice di tormenti, ma ritrova il suo legame, che è la memoria di Dio'.